Abebe Bikila il 10 settembre 1960 scrisse una delle pagine più indimenticabili della storia dello sport. Non tanto perché vinse la maratona quanto perché lo fece scalzo, come gli antichi greci da cui quella leggendaria disciplina sportiva discendeva.
STORIE DI MARATONETI, GLI EREDI DI FIDIPPIDE
La maratona è, probabilmente, la gara più amata fra tutte quelle che compongono un’olimpiade, per l’immane sforzo a cui si sottopongono i partecipanti, per il fatto che si svolga sulle strade della città che ospita le Olimpiadi, per allignare le sue radici direttamente nella storia.
La maratona, infatti, è legata alla leggendaria impresa di Fidippide un emerodròmos (letteralmente in greco colui che può correre per un giorno intero) che nel 490 a.C. corse per 40 chilometri, dalla città di Maratona all’Acropoli di Atene, per annunciare la vittoria degli ateniesi sui persiani.
A raccontare l’impresa del giovane fu lo scrittore greco Plutarco, nell’opera Sulla gloria degli Ateniesi, riferendo come Fidippide, giunto stremato nella città di Atene, abbia semplicemente esclamato: «nenikèkamen», «abbiamo vinto», prima di morire per l’immane sforzo.
Moltissimi secoli dopo la mitica impresa di Fidippide, che in altre fonti viene chiamato Filippide, Tersippo o Eucle, si trasformò in una delle gare della Prima Olimpiade moderna, quella che si tenne ad Atene dal 6 al 15 aprile del 1896.
A vincere in quella prima edizione dei giochi olimpici, fortemente voluti dal barone Pierre de Coubertin, fu il greco Spiridon Louis, un pastore originario di Amarousio, un sobborgo a pochi chilometri da Atene.
Louis tagliò il traguardo percorrendo i 40 km che dividevano il ponte di Maratona dallo stadio Panathinaikos di Atene (solo nel 1921 fu stabilita l’attuale distanza della maratona, quella equivalente a 42,195 km) in 2h 58′ 50″, infliggendo sul secondo, anch’egli un greco come la quasi totalità dei partecipanti, ben 7 minuti di distacco.
LE IMPRESE DI DORANDO PIETRI E EMIL ZÀTOPEK
Anche nelle successive edizioni olimpiche la maratona fu la gara più attesa, capace di scrivere pagine davvero memorabili, come nel caso del nostro Dorando Pietri che nel 1908, a Londra, tagliò il traguardo per primo ma fu squalificato perché sostenuto negli ultimi drammatici metri dai giudici di gara, un atto pietoso ma purtroppo irregolare per il garzone originario di Mandrio, piccola frazione del comune di Correggio che anni dopo diverrà celebre per la storia di Leonarda Cianciulli.
Dorando Pietri
Nel 1936 nelle Olimpiadi di Berlino, fortemente volute da Hitler, si impose il giapponese, ma coreano di nascita, Sohn Kee-chung in 2h 29′ 19″, record olimpico, davanti al campione uscente, l’argentino Juan Carlos Zabala che distaccò di oltre due minuti.
Significativa fu anche la vittoria del cecoslovacco Emil Zátopek nell’edizione del 1952, svoltasi a Helsinki, che vinse l’oro nella maratona in 2h 23′ 04″. L’impresa, tuttavia, divenne leggendaria non tanto per il tempo registrato, quanto per il fatto che Zátopek (che dopo la Primavera di Praga finì in una miniera di uranio, essendo considerato un oppositore al regime sovietico che aveva represso i moti riformistici del 1968) non avesse mai, prima di Helsinki, preso parte a una maratona, essendo essenzialmente un fondista, tanto che in quella stessa olimpiade vinse nei 5.000 e nei 10.000 m piani.
Vittorie memorabili, pagine di sport incredibili ma che impallidiscono, però, al cospetto dell’impresa di Abebe Bikila, l’eroe scalzo che conquistò Roma.
ABEBE BIKILA, IL MARATONETA SCALZO
Roma. 10 settembre 1960. Il sipario sulla XVII Olimpiade, solennemente inaugurate il 25 agosto, sta per calare. Manca, però, come da tradizione, un’ultima gara, la più attesa, la più epica: la maratona.
Ai nastri di partenza la tensione è palpabile, ancora qualche minuto e poi sarà dato il via ai maratoneti pronti a percorrere i 42,195 chilometri che li dividono dal traguardo, suggestivamente collocato sotto l’Arco di Costantino, un fatto singolare visto che, per la prima volta, una maratona non termina in uno stadio, ma in un luogo dentro la storia, sotto le pendici del Palatino, a due passi dal Colosseo, al centro del mito di Roma.
Tra loro c’è un atleta non molto noto ma riconoscibilissimo perché, al contrario di tutti i suoi colleghi, non indossa le scarpe.
Quel maratoneta si chiama Abebe Bikila.
Figlio di un pastore etiope Abebe a diciassette anni, per fuggire dalla povertà e da un destino che appare segnato, decide di abbandonare il villaggio natale di Jato e tentare la fortuna nella capitale Addis Abeba, dove si arruola nella guardia imperiale.
Il suo fisico asciutto e la predisposizione per la corsa, specie per la maratona, vengono notati dai suoi superiori e, in particolare, da Onni Niskaen, incaricato dal governo stesso di reperire potenziali atleti per le Olimpiadi di Roma del 1960.
L’Etiopia in quegli anni ha voglia di emergere, di mostrarsi e lo sport, da sempre, è una vetrina ideale, irripetibile ma servono atleti validi, capaci di non sfigurare al cospetto di campioni acclarati.
Nel 1956 Bikila, che ha compiuto 24 anni, lascia tutti di stucco in occasione dei campionati militari nazionali dove nella maratona è capace di surclassare Wami Biratu, vera e propria icona dell’atletica etiope.
Quella è solo la prima di altre vittorie, Bikila non trionfa solo nella maratona ma anche nei 5.000 e 10.000 metri e tutti gli occhi, inevitabilmente, sono puntati su di lui.
Ma nonostante i primati Bikila non è uno dei 5.393 atleti partecipanti ai XVII giochi olimpici che si terranno a Roma e che, per la prima volta, saranno interamente coperti dalla diretta televisiva, uno sforzo improbo che mise a dura prova i vertici della Rai.
Il prescelto a rappresentare l’Etiopia nella maratona è Abebe Wakijera che, però, non ha fatto i conti con la sorte che a un soffio dal traguardo mischia inesorabilmente le carte in tavola, tracciando per Bikila i contorni di un sogno.
Qualche giorno prima della partenza per l’Italia, Wakijera si infortuna giocando a pallone. Onni Niskaen, che da quattro anni segue come un’ombra Bikila, non ha dubbi, sarà lui ora il prescelto e quello svedese, che ha vissuto gran parte della sua vita nell’ex colonia italiana, non si sbaglia.
L’IMPRESA DI ABEBE BIKILA ALLE OLIMPIADI DI ROMA
Quando il 10 settembre 1960 prende il via la maratona nessuno fra i principali commentatori sportivi pensa che Bikila possa essere uno dei favoriti. I pronostici sono per il sovietico Sergej Popov, detentore del record con il tempo di 2h 15’ 17”, per il campione uscente, il francese Mimoun e per il marocchino Abdesalem Rhadi con il quale Bikila ingaggerà un testa a testa indimenticabile.
Il gruppo dei maratoneti fino al 15° chilometro procede compatto, poi Rhadi e Bikila decidono di spingere sull’acceleratore e per gli altri corridori, tra cui il favorito Popov, non c’è più gara.
Bikila e Rhadi avanzano per venticinque chilometri perfettamente appaiati, poi, a due chilometri dal traguardo, quando il profilo della Roma imperiale si staglia nitido all’orizzonte, l’etiope, che indossa il pettorale numero 11, decide di imprimere il colpo d’ala, staccando definitivamente l’avversario.
Così il giornalista Fiorenzo Radogna, sulle colonne del Corriere della Sera, ha raccontato quell’epica impresa:
«Una corsa dinoccolata e madida come certe imprese sportive che si “appiccicano” alla storia; conclusa in una serata di luci e suggestioni sotto l’arco di Costantino. Con il rumore sordo e ovattato dei suoi passi nudi sul porfido, le urla della gente e lo stupore dell’italiano medio per quei piedi che affrontavano il selciato. Con il coraggio di chi arriva da lontano, ne ha viste tante e non ha paura. Quella di correre scalzo pare fosse stata una scelta tecnica, presa col suo allenatore svedese. Si disse che dalle piante furono poi estratte pietruzze, rametti e schegge di vetro. Ai giornalisti, e a chi gli chiedeva il motivo di quella scelta, spiegò che era stata presa anche per ricordare ed onorare il proprio popolo. Poverissimo e senza mezzi, spesso nemmeno le calzature…»
Non era la prima volta che il maratoneta etiope corre scalzo e con risultati decisamente incoraggianti. Basti pensare che poco prima di partire per Roma aveva coperto la distanza di 32 km, rigorosamente a piedi nudi, in 1h 45′, quasi un minuto e mezzo meno che con le scarpe.
IL BIS ALLE OLIMPIADI DI TOKYO E LA MORTE PREMATURA DI BIKILA
L’impresa romana, segnata anche dal nuovo record del mondo di 2h 15’ 16” con un distacco di 26 secondi su Abdesalem Rhadi, viene bissata quattro anni dopo a Tokyo.
Nella capitale giapponese questa volta il favorito è lui, il ragazzo etiope, quell’atleta dinoccolato, che quattro anni prima ha regalato la prima medaglia d’oro a un paese africano.
E Bikila non tradisce le attese. Nonostante una preparazione deficitaria, a causa di un’improvvisa operazione di appendicite, taglia il traguardo per primo, lasciandosi dietro l’inglese Basil Heatley.
Ma sarà l’ultima volta.
Alle Olimpiadi di Città del Messico, nel 1968, complice l’età e l’altitudine, Bikila non solo non vince ma è costretto a ritirarsi a causa di un infortunio, ma prima di farlo lancia, con parole decisamente incoraggianti, il suo compagno di squadra, Mamo Wolde verso la vittoria:
«Non posso continuare a correre perché mi sono fatto male seriamente. La responsabilità di vincere una medaglia d’oro per l’Etiopia è sulle tue spalle.»
L’anno dopo la sfortuna mostra i suoi denti aguzzi, scrivendo per Bikila una pagina che mai avrebbe voluto leggere. Il campione etiope è alla guida della sua auto quando nei pressi di Addis Abeba rimane coinvolto in un incidente stradale.
Le conseguenze sono gravissime. Bikila rimane paralizzato e a nulla serve il trasferimento, per volere del Negus Hailé Selassié, in un rinomato ospedale londinese.
Le fratture incorse alla colonna vertebrale non lasciano speranze, Bikila non potrà più tornare a correre. Ma il due volte primatista olimpico non si lascia sconfiggere dalla sorte avversa e inizia un duro allenamento che lo porta a gareggiare in diverse discipline paraolimpiche, dal tiro con l’arco, che lo vede partecipante alle Olimpiadi di categoria di Heidelberg nel 1972, al tennistavolo e, addirittura, alla slitta.
Abebe Bikila muore il 25 ottobre 1973, all’età di 41 anni, a causa di un’emorragia celebrale.
Il 10 settembre 1960, dopo aver oltrepassato per primo l’Arco di Costantino, con il poco fiato che gli rimaneva dopo aver corso per oltre 42 chilometri, disse:
«Volevo che il mondo sapesse che il mio paese, l’Etiopia, ha sempre vinto con determinazione ed eroismo.»
Foto di copertina: “Abebe Bikila running on the Koshu Kaido” di Project Kei, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons [dimensioni 1140*600]
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