Il desiderio di esplorare lo spazio prese vita una notte di milioni di anni fa quando un uomo, alzando gli occhi al cielo, vide che era immenso e bellissimo. Poi di quel cielo trapuntato di stelle scrissero poeti e romanzieri, finché il desiderio di vederlo da vicino si tramutò in una possibile realtà e allora il naufragar in quel mare non fu più solo una remota speranza. La corsa alla conquista dello spazio, almeno di una piccola porzione di esso, accelerò subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Esplorare quei luoghi lontani, arrivando magari allo sbarco sulla Luna, divenne un imperativo categorico, un modo poetico per provare a cancellare i segni della più assurda delle guerre che, a sessanta milioni di persone, aveva tolto per sempre il piacere di guardare le stelle.

LA CONQUISTA DELLO SPAZIO E LO SBARCO SULLA LUNA

Alla fine degli anni Quaranta buona parte del mondo era diviso in due blocchi; quello occidentale, ancorato agli Stati Uniti e quello comunista, orbitante intorno all’Unione Sovietica.

In quella che venne ribattezzata come Guerra Fredda, anche la conquista dello spazio fu un valido motivo per primeggiare sull’altro.

La spuria alleanza fra Unione Sovietica e Stati Uniti per sconfiggere il nazismo, si era trasformata in un conflitto a distanza fra due potenze differenti in tutto, tranne che nel desiderio di navigare nel firmamento.

In quell’affascinante gara, il cui traguardo era rappresentato dalle stelle, l’URSS anticipò gli Stati Uniti, segnando un record dopo l’altro.

Il 4 ottobre 1957 da Bajkonur, in Unione Sovietica, fu lanciato in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik (letteralmente compagno di viaggio).

Quella piccola sfera di appena 58 centimetri di diametro, rimase nello spazio per tre settimane prima che le batterie, esaurendosi, determinassero la sua definitiva distruzione.

Poi, un mese dopo, fu la volta della cagnolina Laika. Kudrjavka, questo il suo vero nome, fu la prima di tre animali ad essere lanciata nello spazio, a bordo della capsula Sputnik 2.

Ma la vera e propria impresa fu quella del primo uomo nello spazio.

Il 12 aprile 1961, alle ore 9.07, ora di Mosca, la navicella spaziale Vostok 1, fu lanciata nell’immensità. Al suo interno c’era il cosmonauta (i sovietici preferivano questo termine al più occidentale astronauta) Jurij Gagarin, il primo uomo a orbitare nello spazio.

Dall’oblò della sua piccola casa spaziale Gagarin, che ironia della sorte morirà sette anni dopo a bordo di un piccolo aereo da caccia, vide la terra e da quella infinita altezza la trovò «bellissima, senza frontiere né confini».

Si trattava dell’ennesima onta per gli americani, a cui si aggiunse qualche anno dopo l’impresa del sovietico Alexey Leonov, il primo uomo a compiere una “passeggiata” nello spazio.

La misura era davvero colma. Per questo John Kennedy decise di passare al contrattacco, accettando i termini di una sfida che non era più solo tecnologica ma prima di tutto storica.

Il 12 settembre 1962, a Houston, presso la Rice University, il presidente americano fece un discorso che rimase celebre:

«Abbiamo scelto di andare sulla Luna e di fare altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili».

Quella che ai più sembrò come un’esagerazione, una vera e propria americanata, divenne, invece, una splendida realtà.

16 luglio 1969 la navicella spaziale Apollo 11, con a bordo tre astronauti che la cronaca trasformerà in leggenda, decollò alla volta della Luna.

Quella che portò allo sbarco sulla Luna, fu una complessa macchina spaziale composta da tre pezzi fondamentali.

Innanzitutto il razzo Saturn, realizzato su intuizione di quel von Braun che, prima di lavorare per gli americani, fu uno dei più abili scienziati di Hitler. Un razzo quasi perfetto e che Oriana Fallaci, presente al lancio come altri tremilacinquecento giornalisti provenienti da tutto il mondo, definì «commovente come una stella», una stella «caduta sulla terra».

Poi la navicella spaziale vera e propria, il celebre Apollo, guidata da Mike Collins, che, suo malgrado, non mise mai piede sulla Luna.

Infine, il Lem, il modulo destinato allo sbarco sulla Luna, sul quale sarebbero saliti Neil Armstrong e Buzz Aldrin, il primo e il secondo uomo a sbarcare sulla Luna.

Era trascorsi poco più di due anni dalla tragedia dell’Apollo 1 nel gennaio 1967 e ora questa nuova missione appariva, se non proprio impossibile, altamente rischiosa.

Quel 16 luglio, a scortare quel sogno non c’era solo la speranza, ma anche un’umanissima paura.

Pochi giorni dopo, davanti agli occhi di quei tre novelli esploratori apparve la Luna e iniziò il conto alla rovescia di quella che passò alla storia come la lunga notte.

Prime pagine dei giornali sullo sbarco sulla Luna

A sinistra alcune prime pagine dei giornali dell’epoca sullo sbarco sulla Luna. A destra la Terra vista dallo spazio

“HA TOCCATO”! IL RACCONTO DI TITO STAGNO

Reggio Emilia, 20 luglio 1969. Angelo, come venti milioni di altri italiani, ha un impegno da non perdere per quella sera, starà incollato davanti alla TV per vedere in diretta l’atteso allunaggio.

Per quella notte, ora italiana, è previsto che il primo uomo calpesti il suolo lunare. Per questo esce dall’ufficio e corre verso casa.

Da alcuni mesi vive a Reggio Emilia, lontano da casa, da Roma, dai suoi affetti, dalla sua amata Linda. È andato a vivere in quella città della bassa padana, che d’inverno è gelida e d’estate afosa e piena di zanzare grandi come polli, semplicemente per lavoro.

C’è un matrimonio da organizzare, una famiglia da costruire.

È ospite di un’anziana vedova, una verace ex operaia di una fabbrica di calze per donna che, per arrotondare la scarna pensione, infila dei semilavorati su di una ruota di aghi rotante per la cucitura finale.

Oltre al lavoro extra, per qualche soldo in più e per sentirsi meno sola, la signora ricorre anche all’affitto di una stanza ma solo a persone fidate, e Angelo lo è.

Cugina integerrima di un suo collega, la signora è una donna di poche parole, che dispensa solo la sera in occasione di una cena frugale, preparata con precisione svizzera.

Stasera però, la cena è più rapida del solito, ma non importa: c’è una luna da scoprire. Ci sono occhi da fissare su un vecchio televisore in bianco e nero, cercando di catturare, negli infiniti chiaroscuri, il momento in cui l’uomo, dopo aver vagato per millenni nello spazio della fantasia, potrà toccare la realtà della scienza.

Nello studio della RAI l’attesa è febbrile, mentre nelle case di milioni di italiani regna un inconsueto, assordante silenzio.

C’è una trasmissione da vivere, minuto per minuto.

Dallo studio 3 di via Teulada in Roma, alle 19.28 in punto, comincia una diretta che durerà ben 25 ore. Sarà la celeberrima diretta RAI dello sbarco sulla Luna.

Oltre ai giornalisti Tito Stagno e Andrea Barbato, c’è anche il redattore scientifico Pietro Forcella. Nulla è lasciato al caso, tutto deve essere assolutamente perfetto, perché quella notte dovrà restare nella storia della televisione italiana.

Da Houston, negli Stati Uniti, a gestire la diretta è il mitico Ruggero Orlando. Saranno lui e Tito Stagno a scrivere una delle pagine più celebri della nostra recente storia.

Le parole anticipano le immagini. Il vociare dei cronisti è inarrestabile, specie quello incalzante di Tito Stagno.

Alle ore 22.04, ora italiana, il Lem, un acronimo che diventerà celebre, ha acceso i razzi discendenti. Pochi minuti e toccherà finalmente la Luna.

La tensione nello studio romano della RAI, come in milioni di case, è davvero alle stelle.

Poi improvvisamente, mentre il Lem lentamente si avvicina, Tito Stagno inizia vorticosamente a ripetere: «ha toccato, ha toccato il suolo lunare».

Angelo salta dalla sedia in paglia dove è stato fino allora religiosamente seduto. C’è un evento da festeggiare, un pezzo di storia dell’umanità da vivere appieno, ricordi da consegnare alla memoria.

Da Houston Orlando gelido rintuzza «non ha toccato» ma Stagno, ignorando forse volutamente la rettifica del corrispondente RAI, va avanti affermando con enfasi:

«Signori sono le 22.17 in Italia, le 15.17 a Houston, le 16.17 a New York. Per la prima volta un veicolo pilotato dall’uomo ha toccato un altro corpo celeste. Questo è il frutto dell’intelligenza, del lavoro, della preparazione scientifica, è frutto della fede dell’uomo. A voi Houston».

Mentre il monologo di Tito Stagno si conclude e Orlando vanamente ribadisce che in realtà il Lem non è ancora allunato, gli italiani si perdono la prima frase storica pronunciata da Armstrong:

«Houston, Tranquillity Base here. The Eagle has landed».

La diretta nel frattempo langue fra tante, troppe parole, ripetute fino allo sfinimento dai cronisti. Si tratta, soprattutto, di notizie incerte, di varia natura attinte più dalla fantasia che dalla realtà dei fatti, mentre le attesissime immagini sono poche e di scarsa qualità.

Oriana Fallaci modestamente dirà che, per descrivere la magia di quella notte, ci sarebbe voluto Omero e non dei semplici giornalisti.

Nella casa della signora Maria, Angelo scruta la tv come fosse un oracolo, cercando di afferrare le prime, storiche immagini. Intravede uno spicchio di suolo bianco solcato da una strana ombra. Potrebbe essere una scaletta, difficile dirlo, si tratta di un’immagine troppo soffusa, coperta da un sottile, inestricabile velo di nebbia.

La lunga veglia prosegue, trasformandosi in una sfida temeraria al sonno incombente. La voglia di cogliere l’attimo fuggente dell’allunaggio pedestre è più forte di ogni forma di stanchezza, così come invincibile è il desiderio di essere presente in quel momento storico.

Poco prima delle cinque del mattino, ecco profilarsi all’ombra di quella che è ormai sicuramente una scaletta, l’immagine di una gamba, anche se Angelo, dopo tutte quelle ore fisso davanti alla piccola TV, non è poi così sicuro.

Poco importa cosa realmente sia. L’alba ormai sta arrivando e con essa la luce che spazza via la sensazione che tutto sia stato un bellissimo sogno.

Angelo, allora, afferra i lembi di questa notte spaziale e, dopo averli stretti forte per non perderli, decide di custodirli per sempre.

Immagini, suoni, parole, circostanze. Ogni cosa in quella magica notte potrà essere utile pur di anticipare l’erosione che inevitabilmente il tempo eserciterà sui nostri umani ricordi. Emozioni da contrapporre alla labilità della memoria, sferzata dal naturale trascorrere degli anni.

E mentre nella piccola cucina Angelo si prepara un corposo caffè, dalla feritoia di una tapparella mal chiusa scorge una porzione di cielo, un frammento di quell’infinito, indimenticabile sogno.

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