L’invidia, si sa, è una brutta bestia. Ne sa qualcosa il povero Marsia che osò competere con il rancoroso Apollo, pagando quell’improvvida sfida letteralmente con la sua pelle.
Il mito di Marsia e Apollo è uno più drammatici di sempre, è il racconto di Marsia e della sua dolorosa fine.
IL MITO DI MARSIA E APOLLO
Tra i tanti meriti che vennero riconosciuti ad Atena, come ci racconta il poeta greco Pindaro, ci fu anche quello di aver inventato uno strumento musicale: il flauto a doppia canna.
La genesi fu, però, davvero singolare. Atena, sconvolta dall’urlo di dolore di Stenno ed Euriale per l’uccisione della sorella Medusa, per mano di Perseo, si intestardì nel voler creare uno strumento che riproducesse, almeno in parte, il lamento delle due Gorgone. Dopo tanto penare, alla fine, la dea diede vita all’aulos, un fiato a doppia canna che se suonato ricreava un suono simile a quel disperato strepito.
Tintoretto, “La contesa di Apollo e Marsia” (1544-1545), olio su tela, Hartford, Wadsworth Atheneum
Venne, infine, il giorno per testare davanti a una platea quel nuovo strumento musicale. L’occasione propizia fu durante uno degli immancabili banchetti divini sul monte Olimpo. Atena suonò il flauto al cospetto delle sue celestiali colleghe ma il risultato non fu quello sperato.
Non appena l’aulos emise le prime note Era e Afrodite scoppiarono in grasse risate. Atena, sdegnata, smise di suonare e fuggita dall’Olimpo si fermò sulle rive di un lago. Dopo essersi ripresa da quell’insopportabile affronto decise di risuonare il suo strumento ma proprio in quel momento comprese la causa della precedente ilarità delle sue “colleghe”.
Specchiandosi, infatti, nelle argentine acque lacustri la dea vide che non appena cominciava a soffiare nel flauto le sue guance si gonfiavano in modo ridicolo, trasformandola in una sorta di caricatura.
Risentita da quell’inaccettabile immagine Atena si sbarazzò del flauto, maledicendo chiunque lo avesse trovato.
MARSIA, IL SATIRO CHE OSÒ SFIDARE IL DIVINO APOLLO
Qualche tempo dopo un giovane satiro di nome Marsia, originario della Frigia, trovò, camminando quel flauto. Incuriosito lo raccolse e, dopo aver iniziato a suonarlo, si innamorò di quello strumento. Nei giorni successivi continuò a suonarlo, perfezionandosi sempre più. Divenne talmente abile che riusciva a incantare chiunque lo ascoltasse. Ma l’ambizione, è notorio, è una belva famelica che divorò anche Marsia.
Questi stanco di esibirsi davanti a dei comuni mortali decise di puntare in alto, sfidando il più grande, il divino Apollo.
Il dio del Sole e di tutte le arti, figlio illegittimo di una delle tante scappatelle di Zeus, accettò la sfida lanciata da quel giovane frigio, lasciando alle Muse l’arduo compito di giudicare il vincitore di quell’epica contesa.
Da una parte Marsia con il suo flauto, dall’altra Apollo con la sua celebre lira. La gara sulle prime sembrò arridere al frigio. Marsia, infatti, si impegnò con tutto sé stesso incantando le Muse. Apollo, rendendosi conto che avrebbe potuto perdere, giocò scorrettamente. Non si limitò solo a suonare, ma decise anche di contemporaneamente di cantare.
La melodiosa voce di Apollo, unita al suono della lira furono le armi vincenti. Le Muse incoronarono Apollo; Marsia fu sconfitto ma per lui il peggio doveva ancora arrivare.
Apollo, infatti, non si accontentò del solo trionfo ma volle vendicarsi, punendo l’arroganza di quel borioso umano. La ritorsione messa in atto dal dio fu atroce. Il povero Marsia venne legato a un albero e letteralmente scuoiato.
Così Ovidio, nel sesto libro delle Metamorfosi, racconta minuziosamente quell’atroce punizione:
«Perché mi scortichi vivo? Urlava; mi pento, mi pento! Ahimè, non valeva tanto un flauto. Urlava, mentre dalla carne la pelle gli veniva strappata: altro non era che un’unica piaga. D’ogni parte sgorga il sangue, scoperti affiorano i muscoli, senza un filo d’epidermide pulsano convulse le vene; si potrebbe contargli le viscere che palpitano e le fibre che gli traspaiono sul petto.»
La morte giunse dopo una lunga, penosa agonia che commosse non solo i Satiri, fratelli di Marsia, ma anche le divinità dei boschi, Olimpo e perfino le Ninfe. Le loro lacrime furono talmente copiose da trasformarsi in un vero e proprio fiume, il più limpido di tutta la Frigia, come raccontò ancora Ovidio, e che prese il nome di Marsia.
IL MITO DI APOLLO E MARSIA NELL’ARTE
Quello di Apollo e Marsia è un mito struggente, intriso di violenza, memento per i superbi che osano sfidare dio ma anche, come talvolta spiegato, massimo esempio di libertà. Quale che sia, comunque, l’interpretazione, la figura di Marsia e la sua tragica storia piacque fin da subito, al punto che Platone, nel suo Simposio, paragonò Socrate a Marsia «e non solo nell’aspetto».
Ma furono le arti figurative a rappresentare nel modo migliore quel mito, rendendolo eterno. Se nei vasi antichi, come nel caso del cratere greco, rinvenuto e Canosa di Puglia, oggi al Museum of Fine Arts di Boston, gli artisti preferirono immortalare scene meno cruenti, preferendo la narrazione della gara, nella scultura, invece, il supplizio inflitto al povero Marsia fu il motivo dominante.
Il Marsia del Louvre, “La Punizione di Marsia” di Luca Giordano e il Marsia Capitolino
Fra le tante sculture in marmo che narrano la triste vicenda del satiro che osò sfidare Apollo, due meritano di essere ricordate: il Marsia del Louvre e il Marsia Capitolino.
Nel primo, custodito oggi nel celebre museo parigino, dopo aver per diverso tempo arricchito le collezioni di Galleria Borghese, l’autore, rimasto anonimo, volle fermare sul marmo il momento immediatamente precedente al supplizio. Marsia ci appare legato all’albero decisamente rassegnato, forse non presago delle atroci modalità della sua prossima fine. Il suo corpo ben proporzionato, secondo canoni tipici della scultoria antica, è un trionfo di muscoli tesi, perfettamente resi dalla potenza del marmo.
Simile nell’impostazione ma meno nella resa psicologica, è anche il Marsia Capitolino, conservato presso i Musei Capitolini a Roma, copia romana in marmo pavonazzetto di un originale greco del II secolo a.C., rinvenuta nel 1876 durante degli scavi in quella che era stata la famosa villa romana di Mecenate, sulle pendici del colle Esquilino.
L’autore, anch’egli ignoto, pur mostrandocelo nel momento precedente allo scuoiamento, lo rappresenta decisamente sconvolto, atterrito, quasi intuisse la prossima, agghiacciante fine.
Anche la pittura ha voluto omaggiare questo mito, preferendo, però, rappresentare l’aspetto più cruento del mito, l’atroce punizione inflitta al satiro dal vendicativo Apollo.
Diversi gli artisti che si sono confrontati con questo racconto. Fra questi il napoletano Luca Giordano che dipinse più di un soggetto con questo tema. Il più bello, probabilmente, per il drammatico realismo, è La punizione di Marsia, tela che il pittore realizzò intorno al 1660 e oggi conservata nel museo Puskin di Mosca.
Giordano immortala il momento dello scuoiamento, in cui un serafico Apollo lacera la carne del braccio sinistro di Marsia urlante per il dolore.
MARSIA NEI DIPNTI DI DI TINTORETTO E TIZIANO
Diversa era stata la scelta operata decenni prima dal veneziano Jacopo Robusti, più noto come Tintoretto. Il pittore, nel 1544, realizzò un olio su tela, forse per Pietro l’Aretino, soffermandosi sul momento della gara. All’interno della scena, magnificamente ritratta, si vedono Marsia con l’immancabile flauto e Apollo, cinto d’alloro, che imbraccia l’archetto e quello che sembra ricordare un grosso violino. Davanti a due, oltre a Minerva, ci sono altri tre personaggi, probabilmente coloro che dovranno giudicare l’esito della gara.
Straordinario è anche il dipinto di Tiziano. Realizzato fra il 1570 e il 1576, la tela, oggi conservata al Museo Arcivescovile di Kromeriz, in Repubblica Ceca, mostra una scena ricca di personaggi e particolari, con una lettura non proprio ortodossa del mito.
Tiziano, “Il supplizio di Marsia”, (1570 – 1576), olio su tela, Museo Arcivescovile, Kroměříž
Marsia appare, come una sorta di novello San Pietro, a testa in giù, nell’atto di essere scorticato. Alla sua destra si trova Apollo che, incurante del supplizio a cui ha sottoposto il malcapitato satiro, continua a suonare. In alto appare anche il flauto di Marsia (Tiziano dipinge il flauto di Pan e non l’Aulos della leggenda), mentre in basso a destra della tela, compare un pensieroso re Mida, forse un autoritratto dello stesso Tiziano.
Un mito senza dubbio tragico che, tuttavia, ha affascinato nel corso dei secoli pittori, scultori, filosofi e naturalmente poeti. Tra questi il grande Dante Alighieri che eternò quel racconto in alcuni celebri versi del I Canto del Paradiso, edulcorando l’orrore di quella punizione con la sublimazione unica della sua poesia:
«Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia traesti
dalla vagina delle membra sue».
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