Roma 11 settembre 1599, sabato mattina. La folla, stipata all’inverosimile, attende sotto Castel Sant’Angelo l’arrivo dei condannati a morte. Nella città dei papi le esecuzioni capitali non sono certo una rarità, questa volta, però, non si tratta di balordi qualunque, ma di rampolli di una delle famiglie più importanti di Roma: i Cenci, una famiglia che, come altre famiglie romane, avevano conquistato l’agognata nobiltà non certo per l’illustre lignaggio ma, al contrario, per le ricchezze sulle quali sguardi bramosi si erano già avidamente posati.

Qualcuno fra mille teste scorge il corteo dei prigionieri, si tratta di tre carri che, lenti e scortati da numerosi soldati, percorrono il breve tragitto che dal carcere di Tordinona e dal palazzo di Corte Savella, i luoghi di carcerazione, porta alla piazza sottostante la Mole Adriana. Sul primo carro si trova Giacomo Cenci, sul secondo il fratello Bernardo, sul, terzo, infine, sono collocate Beatrice Cenci e la matrigna Lucrezia. La maggior parte degli sguardi sono per lei, per Beatrice, che altezzosa e con il capo eretto scende dal carro e si avvia, apparentemente senza paura, verso il patibolo, una condotta che ha sempre tenuto fin dal giorno in cui è stata arrestata e condannata di omicidio.

L’OMICIDIO DEL PADRE DI BEATRICE CENCI

L’antefatto. Rocca Petrella, Regno di Napoli, 9 settembre 1598, il corpo di Francesco Cenci giace senza vita in terra dopo un volo di alcuni metri. Ufficialmente si tratta di un incidente, di una caduta dovuta al cedimento di un ballatoio, in realtà è un omicidio, Francesco, infatti, è stato assassinato nel suo letto, mentre dormiva, dopo che in precedenza e per due volte, il tentativo di ucciderlo era fallito per banali errori.

Ad ordire ciò è stata Beatrice Cenci, stanca delle angherie paterne che si protraggono da anni sotto forma di violenze inaudite e ripetute, anche di carattere sessuale. Per questo architetta tutto nel modo migliore coinvolgendo i fratelli Giacomo e Bernardo, la matrigna Lucrezia, vittime anche loro della brutalità di Francesco, e anche due servitori, Olimpio Calvetti, il suo amante, e Marzio Fiorani, da tutti conosciuto come il Catalano. Questa volta tutto procede nel migliore dei modi, anche se all’ultimo Olimpio vuole tirarsi indietro per paura che il delitto possa essere scoperto. Ma Beatrice Cenci, con le buone e forse con le cattive, alla fine lo convince e Olimpio, con la collaborazione di Marzio, porta a termine il piano, colpendo più volte il Cenci con il martello sul capo e “Francesco spira senza emettere un gemito”.

Ma qualcosa nel delitto, apparentemente perfetto, non torna. Sono, infatti, troppe le cose che non collimano, che non convincono. La rapidità delle esequie, l’indifferenza dei figli e della matrigna davanti alla morte e la loro immediata partenza per Roma: elementi che gettano più di un’ombra su tutta la vicenda e, nel piccolo paese abruzzese, dove Francesco ha relegato tutta la famiglia per sfuggire ai creditori romani, le voci iniziano inevitabilmente a girare.

I SOSPETTI SULLA FAMIGLIA CENCI

Ritratto di Beatrice Cenci in carcere, di Achille Leonardi

Ritratto di Beatrice Cenci in carcere, di Achille Leonardi

Due mesi dopo il tribunale pontificio, in seguito agli indizi compromettenti trovati dalla magistratura napoletana (la Petrella ricade nel territorio del Regno di Napoli), dalle lenzuola intrise di sangue al materasso, anch’esso con macchie sospette, apre ufficialmente l’inchiesta. Il 14 novembre, infatti, i giudici papalini si recano presso il palazzo romano dei Cenci, nel rione Regola, a due passi dal Ghetto. Il primo ad essere interrogato è Giacomo che palesa fin da subito un sospetto nervosismo, al contrario della sorella Beatrice che, calma e serafica, lei che “nella pugna emerge”, come affermò secoli dopo Stendhal, risponde alle diverse domande degli inquisitori, senza tradirsi mai, senza mostrare mai un piccolo cedimento, sorprendendosi, anzi, del perché si voglia perdere tempo per una vicenda del tutto chiara.

Nel frattempo il corpo di Francesco Cenci viene riesumato e ai medici appare evidente che la ragione della morte non è quella ufficiale, visto che i segni delle ripetute martellate sono piuttosto evidenti. L’inchiesta procede e nelle grinfie dei giudici cade Marzio Fiorani, il Catalano, mentre Olimpio, nel frattempo, è stato assassinato per volere di Giacomo Cenci con la collaborazione di Marzio Colonna, al fine di eliminare definitivamente uno scomodo testimone, l’esecutore materiale del delitto. Il Catalano, da una parte nega ogni suo coinvolgimento, ammettendo, invece, quello del Calvetti, sapientemente convinto con facili e suadenti promesse da Beatrice, e dagli altri componenti di casa Cenci, intorno ai quali il cerchio fatalmente si stringe.

LE PRIME CONFESSIONI

La confessione del domestico, pur parziale, permette, tuttavia, di poter arrestare i membri di casa Cenci. È il 15 gennaio 1599. L’inchiesta viene affidata al procuratore Ulisse Moscato che, fin dal conferimento dell’incarico, ha un solo obiettivo, ottenere la confessione degli arrestati, visto che nel sistema giudiziario pontificio la condanna può essere comminata solo a seguito di una “spontanea” ammissione. Quest’uomo, “alto e magro, d’aspetto austerissimo” è perfettamente conscio, però, che Beatrice Cenci, al contrario dei fratelli e della matrigna, mai ammetterà le proprie responsabilità. Ci vuole altro per farla capitolare, ci vorrebbe la tortura ma questa non è prevista, salvo autorizzazione papale, per i nobili.

Intanto fa condurre il Catalano nel carcere di Tordinona per farlo torturare con il chiaro obiettivo di avere tutta la verità sui fatti intercorsi nella notte fra l’8 e il 9 settembre. Il povero uomo alla vista del marchingegno previsto per la sua tortura, urla disperato: “signor fiscale, io voglio dirvi la verità, non fatemi dar la corda”. E il pavido dice tutto, anche troppo. Il quadro ora è completo, ma per Moscato non è abbastanza. Senza la confessione dei Cenci l’inchiesta rimarrebbe monca e per lui sarebbe un’amara sconfitta. A poco, infatti, servono i confronti fra i Cenci e il Catalano, la correità dei parenti di Francesco tarda ad arrivare.

CLEMENTE VIII AUTORIZZA LA TORTURA

Ancora una volta tutto sembra procedere per il meglio ma ad agosto, improvvisa,  giunge l’autorizzazione papale alla tortura dei Cenci. Non è singolare che questo avvenga. A papa Clemente VIII interessa, ancor più che al Moscato, la condanna di Beatrice e della sua famiglia. Il motivo? Semplice, una volta giustiziati potrà mettere le mani sui cospicui beni dei Cenci e per un papa avido come l’Aldobrandini, quei soldi sono una ragione più che valida per acconsentire alla tortura.

Tutto il processo, d’altra parte, ha avuto un solo obiettivo: la confessione dei nobili rampolli. Agli inquirenti il movente di quell’omicidio non è mai interessato, nonostante in aula Beatrice, difesa da Prospero Farinacci, abbia più volte raccontato a quali violenze il padre, dall’età di tredici anni, l’abbia sottoposte. Che Francesco Cenci sia stato in vita un uomo dissoluto, sadico e pedofilo, non importa assolutamente.

Il primo ad essere torturato è Giacomo. Stessa sorte tocca a Lucrezia, mentre il piccolo Bernardo, che ha solo dodici anni, viene risparmiato. 10 agosto 1599, è l’alba quando, nella sua fredda cella della Corte Savella, dove è stata imprigionata con Lucrezia, i maschi della famiglia, invece, “alloggiano” nel carcere di Tordinona, Beatrice Cenci viene svegliata dal carceriere Tonio da Gallipoli che, insieme alla frugale colazione, le passa un foglietto del suo avvocato in cui c’è scritto che i parenti, sotto tortura, hanno incolpato lei, di tutto. Viene condotta in aula e messa a confronto prima con Giacomo e poi con Lucrezia che confermano quanto precedentemente ammesso. Beatrice, tuttavia, non demorde e risoluta respinge ogni accusa, sottolineando come quelle confessione non siano ammissibili in quanto estorte con la tortura. L’atteggiamento fiero della ragazza, ha 22 anni, infastidisce, e non poco, Ulisse Moscato che decide di introdurre in aula il piccolo Bernardo e sottoporlo a tortura. La scena è straziante e ancor di più lo sono le urla del povero ragazzino. Beatrice, tuttavia, non cede anche se è provata da quell’orrore. Ribadisce che la colpa di tutto e solo di Olimpio Calvetti mentre loro sono soltanto delle vittime. Moscato non ci crede e decide di sottoporre anche Beatrice alla tortura della corda, unico accorgimento riservatole è quello di non spogliarla del tutto. È l’ultima triste tappa di un processo con un esito scritto in partenza. Beatrice alla fine cede, il caso è chiuso, i rei hanno confessato, ora manca soltanto la condanna che arriva inesorabile da parte del papa.

LE DECAPITAZIONE DELLA FAMIGLIA CENCI

11 settembre 1599, sotto un sole sempre più caldo viene sistemato ai piedi del patibolo il piccolo Bernardo. La sua giovane età gli ha risparmiato la morte ma non il supplizio di vedere morire i propri cari. La prima ad essere decapitata è Lucrezia che, però, sviene per la paura, prima che il boia la decolli. Poi è la volta di Beatrice che visibilmente impallidita ma ferma sulle gambe sale i pochi gradini del patibolo. Sono istanti infiniti poi il boia, prima ancora che il bargello dia il consenso, cala la mannaia e mette fine alla vita della ragazza. Infine è la volta di Giacomo, che sale sul piccolo palco allo stremo delle forze, avendo già sopportato indicibili sofferenze, quali la scarnificazione. L’esecuzione di Giacomo è mostruosa, un vero e proprio atto di macelleria, anche per l’atrocità del boia che non si limita ad usare la mannaia ma anche una grossa mazza con cui ripetutamente schiaccia la testa del condannato. Al cospetto di quella barbarie Bernardo e molte persone svengono. Altre urlano di mettere fine a quell’orrore. Ma il dissenso generale serve a poco. Il corpo decapitato e depezzato di Giacomo verrà lasciato per diverse ore alla pubblica esposizione, come se fosse una bestia macellata.

Fra la folla sconvolta ci sono anche Artemisia Gentileschi, in compagnia di suo padre Orazio, e Michelangelo Merisi, meglio conosciuto come Caravaggio. Non è un caso che anni dopo sia Artemisia che il pittore lombardo, prendendo spunto da quella terribile giornata, che oltretutto vide tredici morti e circa seicento per la calca, dipingano, seppur in modo diverso, un soggetto identico: Giuditta che uccide Oloferne, riportando su tela l’orrore visto.

Con il tramonto, finalmente, quella barbarie ha fine. I corpi vengono tolti. La Confraternita della Misericordia si occupa del corpo di Giacomo che, dopo una breve funzione funebre nella chiesa di San Giovanni decollato, viene affidato ai parenti per la definitiva sepoltura in san Tommaso al Monte come da volontà del morto.

LE ESEQUIE DI BEATRICE CENCI

La Compagnia delle stimmate, un’altra confraternita romana impegnata nell’ambito dell’assistenza ai morti uccisi, prende in carico i corpi di Lucrezia e Beatrice. Ma se le esequie della prima sono pressoché anonime, quelle di Beatrice si trasformano in un vero e proprio evento collettivo. Il feretro, infatti, viene scortato da una lunga teoria di uomini e donne fino alla chiesa di San Pietro in Montorio dove, secondo le sue disposizioni, la ragazza viene inumata. In quel luogo, infatti, e nel vicino convitto la bambina Beatrice aveva trascorso gli unici anni lieti della sua breve vita.

Il 15 ottobre 1600 il fiorentino papa Clemente VIII, che nel frattempo ha fatto ardere in piazza Campo dei fiori il monaco Giordano Bruno, reo di ereticità, emette un motu proprio in base al quale confisca tutti i beni dei Cenci che saranno in buona parte “affidati” al nipote Giovan Francesco Aldobrandini.

Nei giorni successivi il popolo romano reagisce a questo ennesimo sopruso papale, lasciando sulla più celebre statua parlante romana, un’icastica pasquinatail mercato è fatto a sanar l’ingordigia del vecchio lacrimoso fiorentino.

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