Benito Mussolini, già sul finire dell’aprile del 1940, iniziò a pensare alla possibilità di attaccare la Grecia. L’idea che l’Italia dovesse entrare in guerra, mettendo fine alla scelta della non belligeranza presa subito dopo l’attacco tedesco alla Polonia, iniziò a maturare fra i fascisti già all’inizio del 1940. Rimanere fuori dal conflitto non poteva essere una scelta definitiva. Il duce era affascinato dalla guerra ma, al tempo stesso, era turbato dall’indole pacifista degli italiani che si era spontaneamente palesata all’indomani della conclusione della Conferenza di Monaco. Mussolini era sempre convinto che “per fare grande un popolo [bisognasse] portarlo al combattimento magari a calci nel culo” e per questo gli italiani, volenti o nolenti, prima o poi avrebbero dovuto imbracciare i fucili. D’altra parte il fascismo, al netto di tutto, rimaneva una rivoluzione militare, con buona pace dei pacifisti dell’ultima ora. Il problema era essenzialmente il quando e il dove. Ecco la storia della campagna di Grecia.

CAMPAGNA DI GRECIA: L’ORDINE DI MUSSOLINI

Invasione della Grecia

Campagna italiana di Grecia. Ciano, Mussolini, Metaxas

Sulla data dell’ingresso ufficiale in guerra sussistevano molti dubbi. Inizialmente Mussolini si convinse che si potesse progettare un intervento per l’estate del 1940, poi però cambiò idea e ipotizzò di posticipare la data di circa un anno. La confusione regnava sovrana a Palazzo Venezia. Da una parte la consapevolezza che l’Italia per motivi militari ma anche sociali non fosse pronta, dall’altra la certezza di non voler lasciare tutta la scena all’ingombrante alleato tedesco.

Non meno incerto era il discorso riguardante il paese da attaccare. Le opzioni sul campo erano diverse. Grecia, Jugoslavia, ma anche Africa settentrionale, Corsica e, addirittura, Tunisia. A modificare piani e date ci pensò la Francia con il suo incredibile e inaspettato tracollo. Il 14 maggio Mussolini fu informato dagli alti vertici militari, che il paese d’Oltralpe, da alcuni giorni invaso dalla Germania, era sul punto di capitolare come già accaduto per Olanda e Belgio. L’avanzata tedesca era inarrestabile e la fine della guerra a un passo. Rimanere ancora fuori era per Mussolini un errore strategico, impossibile da commettere. Bisognava entrare in guerra senza se o ma, ed era necessario farlo il prima possibile.

Il 10 giugno 1940, alle 18 in punto, un tronfio Mussolini, nella sua consueta divisa militare, si affacciò dal balcone di Palazzo Venezia annunciando quello che ormai tutti si temevano: l’entrata in guerra dell’Italia. “Combattenti di terra, di mare e dell’aria. Camice nere della rivoluzione e delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno di Albania ascoltate: l’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria, l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è stata già consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente che in ogni tempo hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano”.

Fra grida di gioia, davvero poco spontanee, gli italiani andavano incontro a quella che Churchill mesi dopo, dai microfoni di Radio Londra, definì la tragedia della storia italiana. L’11 giugno il giornale ufficiale del regime titolava a caratteri cubitali: POPOLO ITALIANO CORRI ALLE ARMI. Gli italiani corsero alle armi, ma la partenza di questa guerra “parallela” che Mussolini volle per differenziarsi dall’ingombrante alleato tedesco, scegliendo obiettivi diversi da quelli di Hitler, fu, come scritto dallo storico Denis Mack Smith, decisamente incerta, nonostante si fosse mirato a un nemico già praticamente sconfitto: la Francia.

Attaccare un paese praticamente in ginocchio, come quello transalpino, fu giudicato da molti e in primis dal presidente americano Roosevelt, una “pugnalata nella schiena”.La “comoda passeggiata” ipotizzata da Mussolini, si rivelò ben altro, trasformandosi in un attacco confuso e mal preparato che palesò i grossi limiti dell’esercito italiano. L’armistizio del 24 giugno 1940, a cui fu costretta la Francia, portò in dote all’Italia poco o nulla. Qualche chilometro di territorio al confine occidentale (Mentone divenne italiana), una parziale smilitarizzazione francese e la possibilità da parte dell’Italia di utilizzare il porto francese di Gibuti in Somalia.

A fronte dei 600 morti e dei 2000 feriti fra gli italiani, si trattò senza dubbio di una sconfitta, anche se, fu goffamente celata dal regime come una grande vittoria. Bisognava correre ai ripari, era necessario un’impresa bellica che cancellasse l’onta francese, dimostrando quel carattere bellicoso di un Italia che, per il duce, era ancora “la nazione più bellicosa d’Europa”. E la piccola, debole Grecia sembrava la vittima predestinata, la vittima sacrificale da immolare sull’ara fascista. Dal mese di agosto, iniziò una martellante propaganda dal parte del regime, volta a rappresentare la Grecia come un paese ben diverso da quello che, seppur a fatica, riusciva a mantenersi neutrale nei confronti del conflitto in corso.

Per la stampa fascista, il regno ellenico guidato dal dittatore Metaxas, intratteneva relazioni con gli inglesi in ottica anti italiana. L’opinione pubblica italiana, in quei giorni, fu incoraggiata a credere che una Grecia aggressiva stesse sul punto di attaccare la pacifica Italia. Alle notizie diffuse ad arte, si aggiunsero in quei primi giorni di agosto, anche veri e propri attacchi. Il 15 agosto 1940 il sommergibile italiano il Delfino silurò l’incrociatore greco Helli ancorato nella rada di fronte all’isola di Tinos.

L’azione militare provocò 9 morti e diversi feriti. Il comandante dell’imbarcazione italiana, Giuseppe Aicardi, sulle prime negò ogni responsabilità poi, messo alle strette dalla ferma reazione del governo greco, parlò di legittima difesa da un possibile attacco della Helli. Anni dopo si saprà che quell’azione era stata preparata in gran segreto dal quadrunviro De Vecchi, su direttive superiori, forse dello stesso Mussolini.

L’imminente attacco dell’Italia alla Grecia, tuttavia, venne stoppato il 22 agosto, allorché Mussolini consegnò a Ciano copia di alcune direttive militari, da lui stesso impartite, in base alle quali si rimandavano ad epoche indeterminate le azioni contro la Jugoslavia e la Grecia. Alla base di questo ennesimo rinvio vi furono pressioni da parte dei tedeschi sullo Stato Maggiore italiano.

La situazione mutò rapidamente all’indomani del 12 ottobre, quando Mussolini venne a conoscenza che i tedeschi avevano inviato delle truppe in Romania, con il consenso del dittatore Antonescu, senza avvisare preventivamente l’Italia. Il duce fu adirato per quella che appariva come un’occupazione mascherata della Romania. “Hitler mi mette sempre di fronte al fatto compiuto”, affermò Mussolini, “questa volta lo ripago con la stessa moneta. Saprà dai giornali che ho occupato la Grecia, così l’equilibrio verrà ristabilito”.

Galeazzo Ciano in quei giorni scrisse sul suo diario che il duce appariva sempre più convinto dell’inevitabilità dell’attacco alla Grecia, una bella notizia per il genero di Mussolini, da sempre convinto assertore di quella guerra che, a suo dire, sarebbe stata poco più di una formalità. Di diverso avviso era Badoglio che confidò più volte a Ciano le sue perplessità su quel conflitto, al quale gli italiani, per svariati motivi non erano preparati.

Il 15 ottobre a Palazzo Venezia si tenne la riunione decisiva. Intorno al tavolo Mussolini, Ciano, e Badoglio, Roatta, Soddu, Jacomoni e il capo delle forze italiane in Albania, Visconti Prasca. Tutti più o meno mostrarono di approvare la guerra. Visconti Prasca, addirittura, si spinse oltre, parlando di morale alle stelle fra i soldati italiani e di piani pronti fino nei minimi dettagli per l’imminente invasione.

L’unico perplesso fu ancora Badoglio che sottolineò l’inadeguatezza delle forze presenti in Albania. Quei dubbi, tuttavia, vennero soffocati dal generale ottimismo che caratterizzò quella giornata di metà ottobre.

Sette giorni dopo venne decisa anche la data che non poteva che essere quella del 28 ottobre, anniversario della Marcia su Roma. Ora serviva il casus belli e a questa incombenza pensò Galeazzo Ciano che stilò l’ultimatum da recapitare al dittatore greco. Fu l’ambasciatore italiano Michele Grazzi ad occuparsi personalmente della consegna e Metaxas, svegliato di soprassalto alle 2 di notte di quel fatale 28 ottobre 1940, a stento riuscì a comprendere la gravità della situazione.

Di fatto, il governo italiano chiese al dittatore greco l’autorizzazione a occupare militarmente delle postazioni strategiche in terra ellenica, senza, comunque, specificare quali. Alla base di questa incredibile richiesta c’erano presunti attacchi che gli italiani avrebbero subito da parte delle forze greche al confine albanese. Nell’ultimatum si precisava che le autorità greche avevano tempo fino alle sei di quel convulso mattino per decidere, quattro ore, dunque, non di più.

Si trattava di un documento inaccettabile, di una dichiarazione di guerra mascherata che i greci naturalmente respinsero al mittente, proprio come il ministro degli esteri italiano aveva previsto. Metaxas sbalordito convocò i ministri. Poco dopo venne ricevuto da re Giorgio II per annunciare che la Grecia sarebbe di lì a poco stata attaccata dall’Italia, considerata da anni un alleato.

LA REAZIONE DEL POPOLO GRECO ALL’INVASIONE ITALIANA

Militari greci ad Argirocastro in Albania

Militari greci ad Argirocastro in Albania

La guerra ormai era una realtà. Mussolini cercò invano di coinvolgere la Bulgaria nel conflitto, promettendo compensi territoriali a guerra conclusa. Ma il re bulgaro Boris rifiutò l’appoggio militare, forse consigliato da Hitler che, seppe dell’imminente attacco, lo stesso 28 ottobre durante un incontro con Mussolini a Firenze.

La reazione del popolo greco fu duplice. Allo stupore iniziale si sostituì lo sdegno per quello che veniva giudicato un atto vile, ingiustificato. I greci, che a detta di Ciano e Visconti Prasca, si sarebbero mostrati del tutto disinteressati alle sorti del conflitto, corsero invece orgogliosamente alle armi, mostrando un attaccamento alla patria che neppure Metaxas immaginava e lo stesso dittatore, fino a quel momento poco amato, divenne per il popolo greco un eroe.

La campagna italiana di Grecia, fin dal varco del confine, si mostrò ben diversa da quella ottimisticamente ipotizzata dai vertici politici e militari italiani. Tre giorni dopo Ciano sul suo diario sottolineava le difficoltà per le truppe italiane, addossando le colpe per quell’inaspettata partenza alle avverse condizioni meteorologiche e alla “cattiva volontà dello Stato Maggiore Generale che non [aveva] fatto quanto doveva per preparare l’azione”. Pochi giorni dopo quella che sarebbe dovuta essere una facile marcia verso Atene, si trasformò in una disfatta.

Le truppe italiane invece di avanzare indietreggiavano sotto l’incalzare di quelle greche, appoggiate anche da unità aeree della RAF inglese. A poche settimane dall’inizio dell’attacco italiano alla Grecia appariva evidente, come vaticinato da Badoglio, che le forze italiane erano del tutto insufficienti.

Sul finire di novembre 1940 l’impensabile stava diventando una drammatica realtà. Il confine albanese era in pericolo. La guerra di conquista si stava trasformando in una ritirata e Farinacci, dalle colonne del suo giornale “Il Regime Fascista”, attaccò pesantemente Badoglio, Capo di Stato Maggiore, reo, a suo dire, della disfatta in Grecia.

Il 3 dicembre così scrisse Ciano: “La pressione greca è ricominciata sul fronte albanese e sembra che la II armata debba ormai fare quel ripiegamento da Argirocastro e Porto Edda, che speravamo di evitare”. Il giorno dopo Badoglio fu sollevato dall’incarico e sostituito dal generale Ugo Cavallero. Ma cambiò poco o nulla. Sul finire del 1940 le ripetute sconfitte e il clima insopportabile (alla pioggia delle prime settimane si era aggiunto il freddo), minarono il già debole morale dei soldati italiani.

L’anno nuovo non fu foriero di miglioramenti. Il 10 gennaio 1941 i greci occuparono Klisura, piegando la debole resistenza della Divisione “Julia.” Ormai il baratro era inevitabile. A poco servì l’arrivo dello stesso Mussolini il 2 marzo. L’offensiva, dopo un inizio confortante, si rivelò l’ennesimo disastro. La guerra parallela orgogliosamente voluta dal Duce si stava dimostrando ancora una volta un fallimento e Mussolini alla fine fu obbligato a chiedere l’aiuto dei tedeschi. Un passo che il dittatore italiano, mai avrebbe voluto compiere.

Il 6 aprile 1941 Hitler decise di invadere la Jugoslavia e la Grecia, mettendo in atto un piano preparato nel gennaio precedente. L’eliminazione della Grecia, d’altra parte, come osservato dallo storico Corrado Barbagallo, «rappresentava un’essenziale operazione preliminare per l’esecuzione del “Barbarossa” (l’invasione dell’URSS) non solo come espunzione d’un fastidioso elemento di disturbo, incautamente generato dall’iniziativa mussoliniana, ma soprattutto come misura volta a neutralizzare i pericolosi vantaggi qui conseguiti dall’Inghilterra cui il conflitto italo-greco aveva fornito l’occasione di avanzare notevolmente le proprie basi aree in direzione delle raffinerie di petrolio romene e avrebbe potuto consentire l’apertura d’un altro fronte nella zona di Salonicco».
Pochi giorni dopo, il 27 aprile 1941 Atene veniva occupata dalla Germania e alla fine dello stesso mese tutta la Grecia era saldamente nelle mani di Hitler.

Finiva così la guerra di Grecia e con essa la strategia della guerra parallela. Mussolini non spezzò alla fine “le reni alla Grecia” ma fu umiliato da un popolo, quello greco, che come scrisse Luis de Bernieres, nel suo bellissimo Il mandolino del capitano Corelli, «lottava con lo slancio degli dei».

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