Per gli ignari turisti, che lo osservano da Ventotene, l’isolotto di Santo Stefano è poco più che uno scoglio in mezzo al mare, difficile da raggiungere, battuto da onde violente e venti sferzanti; per gli altri, per le decine di detenuti che su quel piccolo ammasso roccioso hanno trascorso parte della loro vita, è stato, invece, un vero e proprio inferno in terra. L’inferno del carcere di Santo Stefano.
L’EDIFICAZIONE DEL CARCERE DI SANTO STEFANO
Ventisette ettari che si ergono nel mar Tirreno, un’isola difficile da raggiungere, impossibile, quasi, da abitare. Prima di chiamarsi Santo Stefano, l’isolotto ha avuto molti nomi, fra cui Partenope, di chiara derivazione greca, e Palmosa, ma, denominazione a parte, ha avuto per secoli un unico minimo comun denominatore: l’essere un luogo inospitale, anche per gli animali.
Proprio questa caratteristica convinse l’amministrazione borbonica, sul finire del Settecento, a realizzarvi un carcere, un ergastolo-fortezza in verità, un luogo dove “ospitare” i detenuti peggiori, quelli più pericolosi con la certezza che da lì nessuno avrebbe potuto fuggire. La scelta fu dettata sia dall’inospitalità del luogo, dalla difficoltà di approdo, ma anche dalla relativa vicinanza con la capitale Napoli.
Approvato il piano per volere del re delle Due Sicilie Ferdinando I, i lavori per la costruzione del carcere di Santo Stefano cominciano già nel 1790 su progetto del maggiore del Genio Antonio Winspeare che si avvalse anche della collaborazione dell’architetto Francesco Carpi. L’opera, conclusa nel 1797, fu realizzata prevalentemente dagli stessi “futuri ospiti”, i detenuti appunto.
IL CARCERE PANOTTICO

Interno del carcere di Santo Stefano
Si tratta, senza ombra di dubbio, di una struttura unica nel suo genere perché anticipa, seppur di poco, le rivoluzionarie teorie del filosofo inglese Jeremy Bentham sul carcere panottico, in base alle quali tutti i detenuti dovevano essere rinchiusi in celle disposte a semicerchio, una soluzione ideale per poter facilmente osservare e dunque controllare gli “sgraditi ospiti”. I progettisti, in sede di realizzazione, si ispirarono alla struttura di uno dei monumenti più celebri di Napoli: il teatro San Carlo. La pianta del carcere di Santo Stefano, infatti, ricorda da vicino quella del teatro partenopeo, con la sola differenza che sul palcoscenico non si trovavano gli attori bensì le guardie carcerarie, e sugli spalti non il pubblico ma i detenuti stessi.
La particolare struttura architettonica a ferro di cavallo, disposta su tre livelli per un totale di 99 celle (di circa sedici metri quadrati e che ospitarono nei periodi di massimo affollamento anche più di dieci uomini contemporaneamente), permetteva a poche decine di guardie carcerarie di controllare diverse centinaia di detenuti. Nel carcere di Santo Stefano, infatti, si arrivò anche a mille “ospiti”.
IL CARCERE NEL PERIODO BORBONICO E DOPO L’UNITA D’ITALIA

Il carcere panottico di Santo Stefano
Tuttavia la presunta efficienza della struttura fu messa già a dura prova poche settimane dopo l’inaugurazione stessa allorquando ci fu un tentativo di evasione di massa che, solo il pronto intervento di truppe dalla terra ferma riuscì a domare. Nel periodo borbonico furono rinchiusi nel penitenziario oltre che a criminali comuni anche oppositori politici come ad esempio Silvio Spaventa e Luigi Settembrini, che, di fatto, inaugurarono una tendenza che diventerà costante durante il fascismo, che, infatti, fece dell’isolotto il luogo principe per gli oppositori al regime.
Con la nascita del Regno d’Italia nel 1860 il carcere di Santo Stefano cambia proprietà ma non certo destinazione. Anzi per il neonato Stato quell’isolato luogo su quell’isolotto sferzato dai marosi era quanto di meglio per rinchiudervi personaggi decisamente scomodi come, ad esempio, gli anarchici e in particolare coloro che si erano macchiati di attentare alla sacra vita del re. Il primo fu Pietro Acciarito che il 22 aprile 1897 tentò di uccidere Umberto I, con il quale ironia della sorte condivideva la stessa data di nascita, senza tuttavia riuscirvi. Il secondo, realmente un anarchico, fu Gaetano Bresci che il 29 luglio del 1900 sparò, uccidendolo, il secondo re d’Italia. Entrambi condannati all’ergastolo, la pena di morte era stata già abolita dal codice Zanardelli, scontarono la pena nella struttura isolana in condizioni non certo dignitose, morendo, oltretutto, in circostanze quantomeno sospette. Così Arrigo Petacco, nel suo L’anarchico che venne dall’America, descrive la cella destinata al Bresci, per la cronaca il 515° ospite della struttura dalla sua inaugurazione: “la cella del regicida era stata costruita sul piano rialzato del penitenziario, un luogo assolutamente irraggiungibile (…) La costruzione comprendeva tre ambienti: al centro la cella, ai lati due stanzette più piccole, munite di spiragli, riservate a due guardiani incaricati di sorvegliare a vista il detenuto. Era stato allestito uno speciale impianto di illuminazione, regolabile dall’esterno, che consentiva di mantenere illuminata la cella durante la notte,” insomma una sorta di 41 Bis ante litteram.
I DETENUTI POLITICI DURANTE E DOPO IL FASCISMO

Sandro Pertini e Umberto Terracini
Il carcere di Santo Stefano conobbe una nuova vita nel periodo fascista allorché divenne, unitamente alla vicina Ventotene, meta privilegiata per gli oppositori politici. I più “fortunati” erano confinati a Ventotene, i meno a Santo Stefano. Fra quest’ultimi Umberto Terracini, che stette nella struttura ben cinque anni, Mauro Scoccimarro e naturalmente Sandro Pertini che fu incarcerato per un anno, salvo, poi, essere trasferito per motivi di salute. La detenzione in questo periodo era particolarmente dura e in totale regime di isolamento. Proprio Pertini ricorda come l’unico momento lieto fosse guardare dalla “bocca di lupo” (la particolare piccola finestra della cella) il cielo, mentre fosse una vera impresa lottare contro lo smarrimento, contro il senso di oppressione dato dallo stare sempre dentro quella celletta, dal tempo sempre uguale, scandito dalla consuetudine di ripetute azioni quotidiane, come la pulizia dell’ambiente, il rifare la branda e il tanto studiare.
Con la caduta del Fascismo i detenuti politici furono finalmente liberati ma il carcere non smise, tuttavia, di funzionare, trasformandosi, infatti, in età repubblicana, in un ergastolario, un luogo destinato ad accogliere coloro che erano stati condannati al carcere eterno, “fine pena mai”. In questi anni, grazie anche alla lungimiranza di un particolare direttore, Eugenio Perucatti, il penitenziario conobbe il suo momento “migliore”.
Arrivato nel 1952 il nuovo direttore, un convinto riformista che crede nel ruolo rieducativo del lavoro, nell’incostituzionalità della pena dell’ergastolo e nella necessità di rendere la vita in un carcere più dignitosa, determinò una vera e propria rivoluzione fra le celle. I detenuti, infatti, pur non potendosi mai allontanare dall’isola, potevano, tuttavia, uscire dalle alte mura carcerarie e conoscere l’isola, interagendo anche con i familiari delle guardie che dimoravano a Santo Stefano. Furono aperti un piccolo cinema, sale ricreative, un piccolo ambulatorio, tutto gestito anche dagli stessi ergastolani, i più meritevoli ovviamente che si occupavano anche del piccolo cimitero, dove erano sepolti tutti i detenuti dall’apertura della struttura nel lontano 1797.
Fu, anche, permesso ai detenuti di incontrare i parenti, fu portata l’acqua corrente, furono, insomma, migliorate sensibilmente le condizioni di vita dei carcerati ma un tentativo di evasione nel 1960 e la susseguente polemica promossa ad arte da una certa stampa per lo più di destra (siamo nel periodo acceso del governo Tambroni), che collegava il tentativo di fuga alle trasformazioni promosse dal Perucatti, porterà all’allontanamento di quest’ultimo, con chiaro atteggiamento punitivo.
1965, IL CARCERE DI SANTO STEFANO CHIUDE
La struttura fu chiusa definitivamente nel 1965 e da quel momento, purtroppo, è cominciato il lento ma inesorabile declino. Oggi, nonostante sia stato dichiarato nel 2008 dall’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Monumento nazionale, l’intero edificio rischia realmente, in mancanza di interventi immediati di crollare, con il risultato di perdere un luogo di memoria unico.
Se, ancora oggi, questo luogo di inestimabile importanza è visitabile, lo si deve soltanto all’indefessa e instancabile opera di Salvatore Schiano di Colella, che alla memoria del penitenziario ha dedicato tutta la sua vita, non solo con ricerche storiche approfondite, ma anche portando, nel corso degli anni, sull’isola centinaia di persone, per mantenere viva la memoria di un luogo che tutti dovrebbero assolutamente vedere e che perdere sarebbe un vero delitto, forse quasi peggiore di quelli per cui alcuni furono rinchiusi nel carcere.
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