La casa di Petrarca ad Arquà fu la sua ultima dimora terrena, un posto che il poeta volle a sua immagine e somiglianza, scelto e adattato per essere il suo ideale buen retiro, l’avamposto finale di una vita trascorsa intensamente, scandita da un costante peregrinare che nella casa sui Colli Euganei trovò la definitiva, agognata quiete.
ARQUÀ PETRARCA, IL BUEN RITIRO DEL POETA
Il legame fra uno dei più grandi letterati di sempre e il piccolo borgo in provincia di Padova, una delle tante perle dei Colli Euganei, come Monselice, comincia nel 1369. Francesco Petrarca è anziano, malato e soprattutto provato dalla vita che, qualche anno prima, lo ha costretto a seppellire a Pavia il nipotino di soli due anni.
Di viaggiare, dopo aver visitato buona parte dell’Italia e della Francia, non ha davvero più voglia.
Ora che ha toccato i sessantacinque anni, molti per un uomo della sua epoca, Petrarca vorrebbe fermarsi, agognando un luogo dove trascorrere nel modo più sereno e tranquillo possibile, gli ultimi anni che gli rimangono.
E quel posto ha un nome, si chiama Arquà.
Arquà Petrarca
A suggerire il piccolo borgo incastonato nei Colli Euganei, non distante dall’amata Padova ma anche da Venezia dove ha vissuto, è l’amico Francesco I da Carrara.
Il signore di Padova, presso cui Petrarca è ospite, consiglia al poeta il nome della località veneta, perfetta, a suo dire, per far fronte alle esigenze dell’autore del Canzoniere.
Gli suggerisce, anche, una casa, poco distante dal centro abitato, una dimora rurale, non proprio in perfetto stato ma che, rimessa a posto, potrebbe essere perfetta.
Petrarca accetta la proposta, visita Arquà e si innamora immediatamente di quel piccolo borgo.
La tranquillità, l’essere essere immerso nella campagna, la mitezza del clima e gli splendidi panorami sono caratteristiche fondamentali che fanno di quel luogo il posto ideale dove vivere, lontano dal caos cittadino, ormai insopportabile per l’anziano poeta.
LA CASA DI PETRARCA AD ARQUÀ
Se il giudizio sul paese da parte di Petrarca è decisamente positivo, quello sulla casa è addirittura entusiastico. Al poeta quella proprietà piace fin da subito anche se versa in condizioni non proprio ottimali, ma rimetterla in sesto è una sfida che vuole accogliere, certo di vincere.
Pur in là con gli anni conduce personalmente i restauri, convinto di fare di quella casa la migliore dimora possibile. Per questo segue ogni piccolo intervento con pignoleria, scegliendo personalmente ogni materiale, mettendo la firma sulle soluzioni architettoniche.
Una delle decisioni più importanti in merito ai lavori è quella di riunire i due preesistenti corpi di fabbrica, un modo per rendere il complesso più uniforme e fruibile.
Petrarca fa aprire nuove finestre, autorizza l’installazione di due balconi e fa aggiungere ben tre camini, essenziali per riscaldare adeguatamente la casa.
Inoltre rivoluziona la distribuzione originaria degli ambienti che modifica in base alle proprie esigenze lavorative e di vita. In particolare, crea dalla precedente stanza padronale un ampio salone di rappresentanza e da un altro locale, opportunamente modificato, fa ricavare due nuovi ambienti, tra cui il desiderato studiolo.
Perché ad Arquà Petrarca, nonostante tutto, continua a scrivere, studiare, leggere, attività alle quali non vuole certo rinunciare. Ma l’attenzione del poeta non si esaurisce alla casa, spaziando anche al vicino giardino di cui si innamora, arricchendolo con le migliori piante esistenti.
Terminati i lavori Petrarca lascia Padova per la sua nuova casa, dove vi si trasferisce insieme al genero, alla figlia Francesca e all’amatissima nipotina Eletta.
Arqua Petrarca, la casa di Francesco Petrarca
DA DIMORA A MUSEO, L’EVOLUZONE DELLA CASA DI PETRARCA
Nella casa di Arquà Petrarca ci vive fino al 19 luglio 1374, quando, alla vigilia del suo settantesimo compleanno, come riferiscono le cronache, si spegne serenamente in mezzo agli amati libri, rasserenato dal panorama della campagna veneta.
Dopo la morte del poeta, l’abitazione inizialmente rimane agli eredi, in particolare a Francescuolo da Brossura, il genero di Petrarca che si prende cura dell’abitazione e della vasta biblioteca, uno dei vanti della casa.
Dopo la morte di Francescuolo da Brossura la dimora passa più volte di mano ma nessuno dei diversi proprietari, in ossequio a una sorta di religioso rispetto, apporta concrete variazioni, almeno fino Paolo Valdezocco.
Quando, a metà del XVI secolo, questi acquista la casa decide che è giunto il momento per apportare delle sostanziali modifiche.
L’intento del nuovo proprietario è quello di trasformare l’antica abitazione in un vero e proprio museo, un luogo che eterni fisicamente il grande poeta toscano. A mutare, in particolare, è l’ingresso esterno che si dota di una loggetta e di una scala esterna, migliorie che a dire di Valdezocco avrebbero reso più signorile l’ultima casa di Petrarca.
Non solo, l’esterno, però. A cambiare sono anche gli spazi interni, impreziositi da alcune decorazioni murali che abbelliscono alcune stanze della casa, opere di diversi artisti originari di Padova o del Veneto.
Valdezocco, tuttavia, dieci anni dopo aver acquistato la villa decide di venderla ad Andrea Barbarigo, discendente di una delle più nobili famiglie veneziane, proprietari di illustri dimore, come la misteriosa Villa Barbarigo a Valsanzibio.
Nell’Ottocento la casa di Petrarca ad Arquà conosce un periodo di declino, così evidente da suscitare la disapprovazione di Ugo Foscolo che così scrive:
«La sacra casa di quel sommo italiano sta crollando per la irreligione di chi possiede un tanto tesoro. Il viaggiatore verrà invano di lontana terra a cercare con meraviglia divota la stanza armoniosa ancora dei canti celesti del Petrarca. Piangerà invece sopra un mucchio di rovine coperto di ortiche e di erbe selvatiche fra le quali la volpe solitaria avrà fatto il suo covile.»
L’ultimo proprietario, prima dell’avvento del pubblico, è il cardinal Silvestri che nel 1875 dona la villa al comune di Padova. Il porporato non vuole nulla in cambio ma pone il fondamentale vincolo che la casa non debba più essere abitata, dovendo trasformarsi in un museo.
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L’ULTIMA DIMORA DEL PETRARCA, UN MITO INTRAMONTABILE
In verità, già alcuni anni dopo la morte del poeta, l’abitazione aveva assunto le vesti di un museo, costante meta di veri e propri pellegrinaggi. I visitatori attirati dall’imperitura fama del poeta, giungono ad Arquà Petrarca da ogni parte d’Italia e non solo, animati dal desiderio di visitare l’ultimo ritiro del Poeta.
Ma la liturgia di quei costanti passaggi lascia, purtroppo, segni tangibili. Sulle pareti di alcune sale della casa, in particolare nella Stanza di Venere, dal soggetto rappresentato su uno degli affreschi, in origine la camera da letto del poeta, i visitatori appongono le loro firme, odiose cicatrici che certificano la smodata voglia di lasciare una memoria ai posteri.
I primi tra questi “vandali” sono alcuni studenti austriaci che visitano Arquà nel 1544. Questa pratica con il passare degli anni non solo non si attenua ma cresce. Le cronache raccontano che tra i graffitari ci sia anche il grande Vittorio Alfieri. Nel 1787, tuttavia, i proprietari decidono di porre fine a questa poco civile usanza, mettendo a disposizione dei tantissimi visitatori dei registri. Sarà la carta a certificare il loro passaggio, a raccogliere la loro firma.
Tanti i nomi degli illustri ospiti nel corso dei secoli. Dal poeta Lord Byron a Giosuè Carducci; da Giacomo Zannella, che visita la dimora nel 1872, ad Antonio Fogazzaro che lascia la sua firma nel 1910.
Non solo poeti e letterati ma anche re Vittorio Emanuele III che con sua madre, la regina Margherita, passa per Arquà nel 1902, o musicisti del calibro di Pietro Mascagni.
Nel 1918 tra i visitatori di casa Petrarca c’è perfino Guglielmo Marconi. Anche lui come moltissimi altri ospiti viene rapito dalla bellezza della casa, anni addietro celebrata dallo scrittore Joseph Victor Widmann, di ritorno da uno dei suoi tanti viaggi nel Bel Paese con parole rimaste celebri:
«La casa è situata sullo spartiacque della montagna e domina una splendida vista su tutto il territorio circostante, verso la pianura di Padova e Venezia come le alture del lontano Appennino e i vicini Colli Euganei. Questa vista rende pienamente comprensibile che Petrarca volesse trascorrere il crepuscolo della sua vita in una tale solitudine paesana. Tutto il mondo era ai suoi piedi. L’orizzonte sembra senza confini. Una notte d’estate su questo belvedere, sopra di sé il cielo sfavillante di astri, tutta la pianura rilucente per i milioni di lucciole e inoltre l’alitare profumato delle rose del giardino; veramente non si può pensare ad un miglior asilo per il poeta.»
Per approfondire:
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