“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche.” Nella sua disarmante semplicità, questo è uno degli incipit più evocativi, belli ed indimenticabili di tutta la storia della letteratura mondiale. Leggendo queste poche, magnetiche righe, nessuno può rimanere immune dal fascino, dal senso di fantastico che queste scarne parole trasmettono all’ignaro lettore. Stiamo parlando, ovviamente, di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez (per tutti Gabo), un romanzo di cui si sono da poco celebrati i cinquant’anni dalla sua pubblicazione, visto che fu dato per la prima volta alle stampe nel giugno del 1967 dalla casa editrice Editorial Sudamericana.
CENT’ANNI DI SOLITUDINE DI MARQUEZ
Casa Museo Gabriel Garcia Marquez
Cent’anni di solitudine, titolo semplicemente stupendo, è uno di quei romanzi che da sempre hanno diviso il mondo dei lettori e della critica. Il libro dello scrittore colombiano, infatti, o letteralmente conquista o, al contrario, non piace assolutamente, un poco come di riflesso accade per tutta la letteratura sudamericana, pensiamo alle opere di Jorge Amado, Isabella Allende o Luis Sepulveda.
Fra i detrattori dell’opera, che è di sicuro la più conosciuta di Marquez, ci sono scrittori del calibro di Italo Calvino o Pier Paolo Pasolini, che definì il romanzo il prodotto di “uno scenografo o di un costumista, scritto con grande vitalità e spreco di tradizionale manierismo latinoamericano”.
Ma per moltissimi altri Cienaños de soledad è stato un vero e proprio capolavoro, un libro di formazione, un testo fondamentale nell’incredibile avventura rappresentata dalla lettura, “una superba prova di forza, una specie di arrogante dimostrazione di superiorità” da parte di Marquez, come ricordato anni fa dallo scrittore e critico letterario Alessandro Baricco, un atto di fede per seguire le peripezie e i destini ineluttabili di una famiglia che sfidò gli anni, le solitudini, anche lo stesso caso.
Riassumere il romanzo di Gabo, farne un’adeguata sinossi, è sinceramente un’operazione improba e forse financo inutile, perché la bellezza, la magia di Cent’anni di solitudine sta proprio nell’intreccio unico della narrazione, nell’uso quasi eccessivo di prolessi, in quel mosaico di storie familiari che si legano una all’altra, in quella constante sospensione fra mito e realtà, fra cronaca e leggenda, in quel linguaggio elaborato e originalissimo, tutto sotto il cielo di quel luogo immaginario di Macondo, dove tutto nasce e muore, quel “paese sintesi” come lo definì splendidamente Cesare Segre.
LA GENESI DEL CAPOLAVORO DI GABO
E leggendaria fu anche la genesi di quello che rimane, al netto delle critiche, dei gusti personali, una delle pietre miliari delle letteratura mondiale. L’ispirazione venne a Marquez durante un viaggio sulla vecchia Opel con a bordo la sua famiglia, nel tragitto da Città del Messico ad Acapulco, niente, quindi, muse femminili, ma solo una vecchia e scassatissima macchina, una poco poetica sorta di Beatrice motorizzata che, però, cambiò e per sempre la sua vita.
Autunno 1964. Marquez è sul punto di crollare, frustrato da ripetuti e inaccettabili insuccessi letterari, fra cui anche Foglie morte (titolo originale La hojarasca) dove compariva per la prima volta il fantastico paese di Macondo, su cui aveva investito molto e che, invece, non era piaciuto né ai lettori né tantomeno ai critici, che avevano ravvisato un’eccessiva influenza di Wiliam Faulkner. Gabo è oberato dai debiti, dalle esigenze della famiglia, da un senso ineluttabile di fallimento. Come confida ad un amico, sta davvero pensando di lasciare definitivamente la carriera di scrittore, quella stessa che aveva rincorso fin da piccolo, quando aveva annunciato al padre il proposito di fare lo scrittore, ricevendone, in cambio, un enigmatico vaticinio: “mangerai carta”.
Casa natale di Gabriel Garcia Marquez ad Aracataca
Ma arriva l’ispirazione e tutto magicamente muta. Le storie della nonna, che tanto lo avevano incredibilmente entusiasmato, i racconti e le immagini della sua infanzia trascorsa nel natio villaggio colombiano di Aracataca, ma anche gli intrecci narrativi dei suoi precedenti romanzi, tutto improvvisamente affiora nitidamente, un primordiale miscuglio, una pozione portentosa, un incantesimo perenne. Gli ingredienti, fino a quel momento isolati fra loro, si mischiano perfettamente amalgamandosi fra loro e dando vita ad una pietanza assolutamente perfetta.
Marquez interrompe il viaggio e senza dire nulla fa rapidamente marcia indietro. Si chiude in casa per diversi mesi, vivendo da recluso o se vogliamo da monaco di clausura, fra lo sbigottimento di molti e la necessità impellente di arginare i debiti sempre più crescenti con tanto di vendite necessarie fra cui la stessa macchina, il televisore e perfino l’amata radio. Ma alla fine Gabo conclude l’opera e la consegna, non senza un pizzico di timore, all’editore che, entusiasta ne stampa ottomila copie fra lo sconcerto dello stesso Marquez, che ritiene quella prima tiratura decisamente esagerata. Ma si sbaglia e di molto.
Le copie, arrivate nelle librerie il 5 giugno 1967, lo stesso giorno dell’inizio della Guerra dei Sei giorni, vanno esaurite in pochissimi giorni fra lo stupore in primis dello stesso scrittore colombiano. A quella prima edizione ne segue un’altra più corposa di quindicimila copie e il risultato è esattamente lo stesso.
Cent’anni di solitudine piace, le avventure della famiglia Buendia piacciono, entusiasmano, rapiscono. E’ un’inarrestabile ascesa e la carriera di scrittore di Marquez, che mesi prima sembrava giunta inesorabilmente al capolinea, spicca definitivamente il volo. Arrivano altri capolavori e grandi successi il bellissimo e intimo L’Autunno del Patriarca e L’amore ai tempi del colera. Il mondo della critica e dei lettori è ormai tutto dalla parte di Gabo, e quel viaggio sulla Opel bianca, che negli anni ha assunto, in linea con lo stile leggendario dello stesso autore, tratti decisamente mitici, è stato alla fine davvero provvidenziale.
MARQUEZ E IL NOBEL PER LA LETTERATURA
Gabriel Garcia Marquez, autore di Cent’anni di Solitudine
Nel 1982 l’Accademia di Svezia lo insignisce del Nobel per la letteratura, il più alto e ambito riconoscimento per uno scrittore e sul quel premio, il peso determinato da Cent’anni di solitudine è stato effettivamente molto rilevante. L’8 dicembre di quello stesso anno, Marquez si presenta al cospetto di un giovane e impacciato Gustavo di Svezia, in un abito decisamente inconsueto, rispetto al tradizionale smoking previsto dal rigoroso protocollo. Sceglie, infatti, fra lo stupore di alcuni e il divertimento di altri, non smentendo la sua personalità, di indossare il liquiliqui, il tipico abbigliamento colombiano.
Nei circa venti minuti del suo discorso, esordisce ricordando le fantasiose descrizioni di Pigafetta, il navigatore fiorentino che accompagnò Magellano nel suo viaggio intorno al mondo, quei maiali con l’ombelico sulla schiena, quegli uccelli privi di zampe, le cui femmine covavano le uova sul dorso del maschio, ma anche quei pellicani senza lingua, i cui becchi sembravano cucchiai e quel mostruoso animale con testa e orecchie di mulo, corpo di cammello, zampe di cervo e nitrito di cavallo.
Un mondo fantastico, un resoconto magico, quello di Pigafetta, un libro breve e affascinante, nel quale già si potevano scorgere i futuri germi della cosiddetta letteratura magica, una definizione, in verità, non molto amata da Marquez ma che ha conquistato e ammaliato per sempre un’infinita galassia di lettori, rapiti da una magica narrazione in cui “l’individuo è divorato dalla storia e la storia è divorata a sua volta dal mito”.
Per saperne di più:
Leggi anche: Il romanzo di Odisseo: Valerio Massimo Manfredi racconta Ulisse