Il 18 gennaio 1919 si inaugurava ufficialmente a Parigi la conferenza di pace organizzata dalle potenze uscite vincitrici dalla Prima Guerra mondiale. Gli echi di quel terribile conflitto, che aveva ucciso dieci milioni di persone, ferendone più di ventuno e disperdendone oltre sette milioni, erano ancora fortissimi. La geografia dell’Europa era profondamente mutata. Da quell’articolato puzzle politico erano state strappate via tessere fondamentali. Erano spariti plurisecolari imperi come quello ottomano, austroungarico e russo. Quello tedesco, giovane e ambizioso, si era sfaldato in un freddo mattino di inizio novembre, due giorni prima dell’armistizio, quando il Kaiser Guglielmo II aveva abdicato, riparando poi segretamente nei vicini e ospitali Paesi Bassi.

CONFERENZA DI PACE DI PARIGI: L’EUROPA CAMBIA VOLTO

Sulle ceneri di quegli imperi erano sorti nuovi stati. Dalla deflagrazione di quello russo erano nati la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. Dalla disgregazione dell’impero austroungarico erano sorte le repubbliche di Cecoslovacchia, di Ungheria, di Polonia e, naturalmente, dell’Austria. Inoltre nella controversa terra dei Balcani era stato costituito il regno jugoslavo, formato dalla volontaria adesione di Croazia, Serbia, Montenegro e Slovenia. Infine dalla sparizione dell’impero ottomano era sorta la repubblica di Turchia.

C’era, tuttavia, ancora molto da decidere. Colonie da assegnare, confini da riscrivere, trattati di pace da stipulare, sanzioni da comminare. C’era, principalmente, un paese da punire: la Germania.

Su questo i paesi vincitori, con la sola parziale eccezione degli Stati Uniti, erano concordi. Quella immane disfatta aveva avuto un solo responsabile: l’impero tedesco. Che la conferenza di pace di Parigi sarebbe stato tutta in chiave antigermanica fu chiaro fin dalla scelta del luogo e della data.

Un’opzione per nulla casuale. A volere che la conferenza si tenesse nella capitale francese fu il transalpino Georges Clemenceau. Il 18 gennaio del 1871, infatti, in una Parigi occupata dall’esercito tedesco a termine del breve conflitto franco-prussiano, un tronfio e bramoso Guglielmo I di Prussia era stato proclamato imperatore di Germania. Quel ricordo andava cancellato e la conferenza di Parigi ci sarebbe riuscita.

Sotto simili auspici di revanscismo, nutriti di indomito odio, ipotizzare che quel consesso internazionale potesse promuovere davvero la pace era decisamente arduo. L’ordine geopolitico che sorse all’indomani di Parigi, si basò su convinzioni e strutture sociali antiquate, figlie di una cultura diplomatica vecchia e sconfitta dalla storia. Le potenze vincitrici, in particolare la Francia di Clemenceau, erano accecate dal desiderio di vendetta e poco si preoccuparono di stabilire condizioni di pace realmente rispettabili, ignorando del tutto quello che, quei lunghi quatto anni di guerra, avevano mostrato.

A sinistra il presidente degli Stati Uniti d'America Woodrow Wilson, a destra il Primo Ministro francese Georges Clemenceau

A sinistra il presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson, a destra il Primo Ministro francese Georges Clemenceau

WILSON, CLEMENCEAU E GLI ALTRI: I PROTAGONISTI 

A Parigi cento anni fa si sarebbe dovuta edificare una futura e duratura pace, si seminò invece, il germoglio dell’odio che attecchirà ben presto, facendo crescere la pianta della guerra. Poco peso, alla fine, ebbero i famosi Quattordici punti che il presidente degli Stati Uniti Wilson, esattamente un anno prima, aveva esposto al congresso americano. Alla base del pensiero wilsoniano, c’era la precisa e ferma volontà di creare delle linee precise per evitare in futuro il ripetersi di conflitti così sanguinosi, creando i presupposti per una pace mondiale durevole. I quattordici punti di Wilson prevedevano, tra l’altro, la libertà assoluta di navigazione nei mari, tema particolarmente caro agli Stati Uniti, la fine della diplomazia segreta, la soppressione di barriere economiche, l’attuazione di un piano complessivo di disarmo generale, l’evacuazione e l’indipendenza del Belgio, la restituzione dei territori dell’Alsazia e della Lorena alla Francia, lo sviluppo autonomo dei popoli dell’ex impero austro-ungarico e di quelli dell’ex impero ottomano.

Ma il principio ispiratore del progetto del presidente americano non poteva piacere agli altri alleati, Francia in testa che desideravano soltanto punire la Germania. E così fu. Trentadue i paesi vincitori al tavolo della pace ma di fatto la direzione dei lavori fu ad appannaggio di sole quattro potenze: Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia, che formarono un direttorio nel quale vennero prese tutte le decisioni relative agli accordi di pace.

Fin dal primo giorno della conferenza di Parigi la posizione dominante di Francia e Gran Bretagna fu, tuttavia, evidente. L’Italia, pur avendo fatto parte della coalizione vincente, non aveva uno status tale da permetterle un ruolo primario e, a questo deficit iniziale, si aggiunse la scarsa collaborazione dei membri della delegazione che resero ancora più afona la voce italiana al congresso.

Gli Stati Uniti, invece, a Parigi potevano già esibire un ruolo di primo piano sia dal punto di vista economico che militare. Era innegabile, infatti, che senza i soldi e le truppe americane la vittoria dell’Intesa nella Prima Guerra mondiale sarebbe stata ardua, se non impossibile. Ma nonostante questa indiscussa posizione di prestigio, il ruolo statunitense alla conferenza di Parigi fu tendenzialmente defilato per ragioni diverse.

Perno di tutta la conferenza che durò più di un anno, chiudendo i battenti nell’estate del 1920, fu naturalmente il trattato di pace con la Germania. Nel Salone degli Specchi della Reggia di Versailles le potenze vincitrici scrissero il trattato di pace con la Germania. La firma su quel documento fu posta ufficialmente il 28 giugno 1919, altra data non certo casuale.

SANZIONI ALLA GERMANIA: L’UMILIAZIONE DA CUI GERMOGLIÒ IL SEME DEL NAZISMO

Fra tutti i sei trattati di pace, quello stipulato nell’incanto del palazzo che il Re Sole si era fatto costruire per fuggire da Parigi ma anche per tenere sotto il suo diretto controllo la corte, fu senza dubbio il più importante. Diviso in quindici parti complessive, per un totale di centododici pagine e 440 articoli, quel trattato recepiva l’indirizzo profondamente punitivo emerso l’11 novembre 1918 nella foresta di Compiegne, quando fu firmato l’armistizio fra paesi vincitori e Germania.

Su quel vagone ferroviario, in quell’ultimo giorno della prima guerra mondiale, le condizioni imposte alla Germania furono decisamente pesantissime.

I protagonisti della Conferenza di pace di Parigi: da sinistra a destra: Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando, Georges Clemenceau, Woodrow Wilson

I protagonisti della Conferenza di pace di Parigi: da sinistra a destra: Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando, Georges Clemenceau, Woodrow Wilson

L’armistizio di Compiegne aveva previsto l’immediata consegna alle forze alleate di 5000 cannoni, 25000 mitragliatrici, 3000 mortai, 1400 aeroplani, 5000 locomotive, 150000 vagoni ferroviari e, aspetto non certo trascurabile, di tutte le navi da guerra. Norme che in un sol colpo mettevano fine alla straordinaria potenza militare tedesca.

Inoltre a Compiegne erano stati annullati i trattati di Brest Litovsk che la Germania aveva firmato con la Russia nel marzo del 1918 e che avevano recato indubbi vantaggi per i tedeschi. Era stata una resa rapidissima, scritta in meno di 72 ore e, cosa principale, priva di qualsiasi tipo di trattativa.

A Versailles fu girato lo stesso, identico film. Non si volle solo punire la Germania ma anche renderla del tutto inoffensiva. Gli altri paesi sconfitti non esistevano più, ma Berlino, anche se ora ospitava una timida repubblica, faceva ancora paura e tanta. Per questo le sanzioni imposte al giovane e inesperto governo tedesco furono se possibili più pesanti di quelle già sancite a Compiegne alcuni mesi prima.

La linea francese, che non passò, era durissima. Clemenceau arrivò nel corso dei lavori di redazione del Trattato di Versailles a proporre, e non in modo provocatorio, la parcellizzazione del territorio tedesco. Nelle intenzioni del Tigre, così era soprannominato il politico francese, lo stato tedesco sarebbe stato frammentato in tanti piccoli innocui stati che non avrebbero più  potuto costituire una nuova minaccia. Una situazione che, per certi aspetti, pur considerando le nuove condizioni geopolitiche, ricordava quella esistente prima della nascita della Grande Prussia nella seconda metà dell’Ottocento.

Questo disegno fu, tuttavia, osteggiato da Inghilterra e Stati Uniti anche se solo parzialmente. La Francia non ottenne lo smembramento della Germania, come avidamente desiderato, ma riuscì a conseguire un forte ridimensionamento del suolo tedesco. In virtù del Trattato di Versailles la Germania post bellica subì pesantissime perdite, pari al 13% complessivo del suo territorio.

Dovette rinunciare alle regioni dell’Alsazia e della Lorena, che, come già disposto a Compiegne, tornarono alla Francia; ai distretti di Eupen e Malmèdy, ceduti al Belgio; a una parte della Prussia occidentale e orientale e della Posnania, annessi alla Polonia così come una parte della Pomerania che divenne il cosiddetto “corridoio polacco” per il tanto agognato sbocco sul Mar Baltico; allo Schleswing, che fu dato allo stato danese; al distretto di Hultschin che fu incamerato dalla neo repubblica di Cecoslovacchia; al territorio del Memel che passò alla Lituania.

Porzioni di territori importanti che determinarono una riduzione complessiva della popolazione tedesca del 10% che si trovò sparpagliata in una miriade di stati. Questi dispositivi produssero, anche, una forte ridimensionamento economico, specie per quanto concerne i territori prussiani, la parte pulsante dell’economia tedesca, annessi al nuovo stato polacco.

Fra tutte le perdite territoriali, tuttavia, quello che creò maggiori conseguenze sul piano economico, politico e sociale, fu la rinuncia alla città di Danzica, uno dei più importanti, ricchi e strutturati porti del nord Europa. Il trattato dispose la creazione della Città libera di Danzica, formata dalla città stessa, dal porto e da una piccola porzione di territorio al suo interno, la cui amministrazione venne affidata a un commissario nominato dalla Società delle Nazioni ma che di fatto sarebbe stata amministrata dalla Polonia.

In realtà le perdite territoriali sarebbero potute essere maggiori, se non fosse stato per la netta opposizione del premier inglese Lloyd George. Non meno pesanti furono le sanzioni economiche e militari imposte alla Germania.

Si dispose nella quinta parte del trattato, che la Germania dovesse provvedere a una sostanziale smobilitazione delle sue forze armate, con l’abolizione della coscrizione obbligatoria, sostituita da una ferma di tipo volontario. Il nuovo esercito tedesco, nato dagli articoli del trattato, sarebbe stato costituito solamente da sette divisioni di fanteria e da tre di cavalleria e, comunque, non avrebbe potuto tassativamente superare le centomila unità, una cifra del tutto inadeguata per un paese, nonostante tutto, ancora fra i più popolosi di tutta l’Europa.

Pesanti furono anche le disposizioni in materia di armamenti e munizioni. Con Versailles la Germania perse tutta l’aviazione e mantenne della flotta navale, che aveva spadroneggiato sui mari, solo sei navi da guerra, un numero del tutto esiguo.

Con queste condizioni la neonata Repubblica di Weimar (non si dimentichi anche la smilitarizzazione della regione della Renania al confine con la Francia), di fatto, non era in grado di offendere militarmente più nessuno, esattamente quello che Francia e Inghilterra avevano desiderato.

Non diverse furono le sanzioni economiche. A Versailles si stabilì che la Germania avrebbe dovuto infondere ai paesi alleati 132 miliardi di marchi in oro, una cifra spropositata che neanche la più ricca delle nazioni avrebbe potuto pagare.

A deprimere ulteriormente l’economia germanica tedesca si aggiunse la clausola particolarmente vessatoria riguardante la regione della Saar, tedesca dal 1815 e famosa per i cospicui giacimenti di carbone. Nello specifico si decise l’occupazione dell’intera area per un periodo complessivo di quindici anni, dal 1920 al 1935 da parte alleata. Per tre lustri la Germania avrebbe perso uno dei bacini minerali più importanti di tutta la Germania.

Quando il 28 giugno 1919 furono apposte le firme sul trattato con la Germania il maresciallo francese Ferdinand Foch, non certo un filotedesco, disse apertis verbis che non era stata stipulata una pace ma un armistizio di vent’anni e la storia non smentì il preveggente militare.

Così lo storico Alessandro Roveri definì quel trattato e le inevitabili conseguenze che quello scellerato patto determinò:

«In realtà nel maggio 1919 fu vibrato un colpo d’ascia alle radici della Repubblica di Weimar, e sul terreno tedesco fu piantato il seme velenoso del nuovo nazionalismo. Quel seme si aprì, fu nutrito dalle continue sofferenza derivate al popolo tedesco dal Diktat di Versailles, e portò alla rovina la Repubblica di Weimar».

E dalle ceneri di Weimar germogliò la mala pianta del nazismo.

 

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