L’alba è ancora lontana in quel 24 ottobre 1917, nelle maleodoranti trincee di Caporetto dove ormai si vive da anni come topi in fogna fra pidocchi, morte, solitudine e rassegnazione. I bagliori del sole latitano e i soldati italiani, i fessi – come vengono chiamati in gergo, coloro che stanno in prima linea al contrario dei fissi, coloro che, invece, per vari motivi evitano il fronte, rimanendo comodamente nelle retrovie – sono ancora assopiti e infreddoliti. Poi alle 2 in punto l’artiglieria austro-ungarica suona la sveglia. L’esperienza accumulata al fronte fa comprendere all’esercito italiano che quello non sarà un normale attacco, un’azione militare di routine, ma qualcosa di più e forse di assolutamente devastante. Sarà la disfatta di Caporetto.

DISFATTA DI CAPORETTO: 24 OTTOBRE 1917

Le truppe nemiche hanno deciso di sferrare un colpo che potrebbe risultare decisivo, specie in una fase della Grande Guerra in cui tutte le parti coinvolte, non solo quelle di stanza sul fronte orientale, sono davvero alla resa dei conti. In quell’autunno del 1917, infatti, chiunque può ancora vincere o perdere. Tutti gli eserciti impegnati in quel conflitto, iniziato in una calda estate di tre anni prima, camminano sospesi su un filo sottilissimo. Sotto il baratro, davanti la vittoria.

Il luogo scelto per quello che appare come lo scontro finale, la battaglia di Caporetto, è la conca di Plezzo, fra il monte Rombon, una delle vette delle Alpi Giulie, e l’alta Bainsizza. Immediatamente dopo i primi colpi di artiglieria le truppe nemiche lanciano una salva di cilindri che, una volta squarciatisi, diffondono nell’aria fredda di quel lembo di notte, un gas terribile e sconosciuto che miete centinaia di vittime, alle quali non serve a nulla indossare le maschere in dotazione. Alle 6 le prime segnalazioni, dopo quattro ore di combattimento, sono relativamente ottimistiche. Il peggio sembra passato, e le iniziali visioni pessimistiche sembrano essere state decisamente eccessive. Ma è un errore.

Alle 6.30 il fuoco avverso riprende fiato e la situazione precipita, complice anche un imprevisto blackout delle linee telefoniche che lascia tagliati fuori i soldati dalle retrovie. Il sorgere del sole su quella valle funestata dai colpi sempre più incessanti dell’artiglieria è la sola cosa positiva, il resto è disperazione, paura, caos. La resistenza italiana è timida e incerta. Sulle prime sembra produrre qualche effetto ma dura poco. Alle 10.30 le truppe nemiche riprendono la rapida avanzata, tanto che due ore dopo giungono incolumi a Kamno, puntando direttamente sul ponte di Caporetto.

Quando scende fatalmente la sera su quel drammatico 24 ottobre 1917, il quadro d’insieme è devastante. 40.000 fra morti e feriti, “più o meno altrettanti rimangono intrappolati nella sacca del Monte Nero”.

Disfatta di Caporetto. Da sinistra il gen. Luigi Cadorna, Carlo Emilio Gadda e Curzio Malaparte

Disfatta di Caporetto. Da sinistra il gen. Luigi Cadorna, Carlo Emilio Gadda e Curzio Malaparte

Ha inizio così la disfatta di Caporetto, una delle battaglie più drammatiche della storia militare moderna, al punto tale che è il suo stesso nome è divenuto sinonimo di devastazione, tragedia, disfatta. E così fu. Al termine delle due settimane di scontri, la battaglia si concluse il 9 novembre 1917, i numeri furono impietosi: 350.000 fra morti, feriti, dispersi e prigionieri, a cui si aggiunsero oltre 400.000 soldati che lasciarono il fronte orientale per riparare verso le zone interne, rincorrendo un’insperata salvezza.

Eppure l’esercito italiano, che prima di quel fatale scontro contava 1.850.000 soldati, più degli avversari, non fu colto di sorpresa, perché quel fronte era comunque presidiato e le incursioni nemiche erano all’ordine del giorno. E allora cosa avvenne? Perché le nostre forze furono letteralmente sbaragliate, al punto che la vittoria finale di Vienna, nella prima guerra mondiale, fu davvero a un passo?

Il morale dei soldati italiani sembra alto, stando almeno ai rapporti che quotidianamente il Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna (figlio di quel Raffaele Cadorna, che aveva guidato le truppe italiane il 20 settembre 1870 alla conquista di Roma) riceve dal fronte dai suoi generali. La realtà nelle trincee, però, è ben diversa da quella descritta nei resoconti ufficiali. I soldati sono male in arnese, affamati, infreddoliti, equipaggiati in modo non adeguato, come annotava l’ufficiale Emilio Gadda nel suo Giornale di guerra e di prigionia: “Ma Salandra, ma quello scemo balbuziente d’un re, ma quei duchi e quei deputati che vanno a veder le trincee, domandino conto a noi, a me, del come sono calzati i miei uomini: e mi vedrebbe il re, mi vedrebbe Salandra uscir dai gangheri e farmi mettere agli arresti in fortezza”.

I militari italiani, non solo loro per la verità, sono stanchi, demotivati, provati da un conflitto che si protrae da troppo tempo, infilati in un tunnel da cui non si vede alcuna luce, nessuna via d’uscita. E’ un esercito formato in gran parte da contadini, molti dei quali analfabeti, che pur volendo non riescono a comprendere talvolta anche ordini elementari. Curzio Suckert, ben più noto in seguito con lo pseudonimo di Malaparte, giovane volontario in quel conflitto, ricordò anni dopo come i soldati ascoltassero in religioso silenzio gli alti ufficiali circa le motivazioni ideali della guerra “ammirando la cultura e l’intelligenza dei superiori: ma non ne capivano niente”.

In questo clima le truppe avversarie preparano l’assalto ma la notizia non rimane segreta. Il nostro servizio informazioni, grazie anche alle testimonianze di alcuni prigionieri austriaci, riferisce al Comando generale le intenzioni nemiche, ma invano. Le alte sfere, infatti, sorvolano, derubricando il tutto a voci prive di fondamento.

Mentre fra i comandanti italiani serpeggia un diffuso e ottuso ottimismo sull’esito finale del conflitto, gli austroungarici, corroborati anche dalle truppe tedesche, si muovono, organizzando attentamente i piani per l’attacco decisivo, che avrebbe messo fine alla stancante guerra di posizione, basata sul lento logoramento dell’avversario, invece che sul suo rapido annientamento.

LE RESPONSABILITÀ DI UN’INUTILE STRAGE

Caporetto, truppe d'assalto tedesche

Caporetto, truppe d’assalto tedesche

A dimostrazione di quanto del tutto miope si dimostri il Comando italiano vi è la reazione che lo stesso ha alla notizia dell’attacco nemico alle prime luci dell’alba del 24 ottobre 1917. Nell’immediato non sono adottati provvedimenti specifici, perché, a partire da Cadorna, nessuno, come scrisse nel suo diario il colonnello Gatti, percepisce la gravità di quanto sta avvenendo al fronte. Quando, tuttavia, alle prime ore del 25 ottobre il quadro si delinea drammaticamente, al punto che da più parti si parla di una Sedan italiana, inizia un ridicolo balletto di responsabilità. Nessuno dei generali, in primis Cadorna, vuole addossarsi minimamente la responsabilità della disfatta di Caporetto e ancor di più dei fenomeni di resa che si registrano in più punti del fronte, decisamente il fatto più preoccupante.

Il morale dei soldati italiani, ora che emergono i numeri delle defezioni in atto, non è certo così alto come lo avevano descritto i rapporti dei giorni precedenti Caporetto, che ancora fanno bella mostra sull’ordinata scrivania di Cadorna. Questi, un militare rigido, con un’alta stima di sé e una concezione autoritaria ed esclusiva del comando militare, deve ammettere – telegrafando alle ore 19.47 del 25 ottobre 1917, non senza un palpabile imbarazzo al ministro della Guerra – che circa dieci reggimenti si sono arresi in massa, senza combattere. Cadorna è infuriato, declina ogni colpa su quanto sta accadendo nelle file dell’esercito italiano che lui guida e che ora “cade vinto” – come telegrafa il 27 al dimissionario presidente del Consiglio Boselli – “non già da nemico esterno, ma da quello interno”.

Cadorna ritiene che l’indecorosa smobilitazione seguita all’offensiva austro-ungarica sia figlia di quel clima di disfattismo diffuso ad arte da certe forze politiche, i socialisti in primis (che respingeranno fermamente tale accusa, con tanto di discorso alla Camera pronunciato dal deputato Camillo Prampolini il 14 novembre 1917, in cui il politico chiederà la creazione di una commissione d’inchiesta per l’accertamento dei fatti ed il ripristino della dovuta verità), nonché da una parte del mondo cattolico, rinvigorito dalle parole di papa Benedetto XV che, poche settimane prima, scrivendo ai Capi dei popoli belligeranti, aveva implorato “di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage“.

Ma le valutazioni autoassolutorie di Cadorna questa volta non sono sufficienti. Se, infatti, il generale nella primavera del 1916, all’indomani della Strafexpedition, era rimasto al suo posto, nonostante evidenti sue compromissioni in quella disfatta (e a pagare era stato solo il capo del governo Antonio Salandra, sostituito dal vecchio Boselli), ora neanche la proverbiale protezione del re lo riesce a salvare.

DISFATTA DI CAPORETTO: LE CONSEGUENZE

Disfatta di Caporetto. Il sacrario

Disfatta di Caporetto. Il sacrario

Le conseguenze della disfatta di Caporetto, d’altra parte, sono enormi. Oltre ai morti, ai feriti, alle cospicue perdite di armamenti, ci sono da considerare le rilevanti privazioni territoriali che l’Italia subisce a seguito della ritirata, sotto l’incalzare dell’offensiva austro-tedesca e che, per fortuna, si arresta al Piave. In pochi giorni da quel fatale 24 ottobre 1917, i territori faticosamente conquistati in quei poco più di due anni di guerra sono andati irrimediabilmente persi. Oltre 14.000 chilometri quadrati di territorio italiano, infatti, passano nelle mani nemiche. Cadono nelle mani avversarie le province di Udine e di Belluno e parte di quella di Venezia, città che, però, nonostante tutto, rimane italiana.

Una disfatta assoluta che non può non avere inevitabili effetti, e questa volta a cadere non sono solo i politici. Se il 30 ottobre a farne le spese è Boselli, sostituito da Vittorio Emanuele Orlando, il 9 novembre tocca a Cadorna. Al figlio dell’eroe di Porta Pia, succede, fra l’entusiasmo dei soldati, Armando Diaz. La testa di Cadorna, che nei giorni successivi al 24 ottobre aveva cercato di correre ai ripari, prima ipotizzando una controffensiva, poi, compresa l’irreversibilità della situazione, studiando goffi piani di ritirata, è chiesta dagli alleati. Alla conferenza di Rapallo, fortemente voluta dal nuovo premier italiano per rafforzare l’alleanza ma anche per fugare i dubbi su una possibile definitiva nostra resa, i rappresentanti inglesi e francesi sono determinati nel pretendere l’allontanamento di Cadorna e questa volta Vittorio Emanuele III, obtorto collo, cede.

Con Caporetto si conclude la parabola di un militare che, subentrato il 27 luglio 1914 a seguito dell’improvvisa morte del generale Alberto Pollio, aveva vaticinato una vittoria rapida, basata su rapide e fortunate offensive, una strategia ancorata al passato che i primi mesi di guerra, quando l’Italia ancora non era scesa nel conflitto, avevano dimostrato del tutto superata.

La disfatta di Caporetto, come scrive lo storico Emilio Gentile in Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo – al netto di viltà, tradimento e disfattismo – “fu la conseguenza del logoramento delle truppe. Si parlò di ‘sciopero militare’, da parte di un esercito stanco, sfibrato da due anni e mezzo di sanguinosi combattimenti, sottoposto a una disciplina spesso vessatoria, esposto a continue carneficine, senza neppure conoscere le ragioni di tanto sacrificio”.

Caporetto fu davvero una catastrofe sotto ogni punto di vista. Da più parti si levarono nei giorni successivi strali diffusi. Leonida Bissolati (ministro della guerra dal 1 novembre 1917 al 31 dicembre 1918) parlò senza mezzi termini della fine della nazione, non nascondendo le responsabilità di un’intera classe politica. “Noi – disse in un impeto di assoluta disperazione – “siamo stati coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo voluto creare un’Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo nel vuoto. Gli italiani non erano preparati”.

Ma gli italiani, per quanto effettivamente impreparati, rialzeranno la testa e un anno dopo quella immane tragedia conosceranno a Vittorio Veneto una vittoria che farà da preludio alla positiva conclusione della prima guerra mondiale, un conflitto assurdo che era costato dieci milioni di morti e che aveva segnato, come splendidamente raccontato da Erich Maria Remarque nel suo bellissimo Niente di nuovo sul fronte occidentale, un’intera generazione, “la quale, anche se sfuggì alle granate, venne distrutta dalla guerra”.

Per approfondimenti:

Leggi anche:
Conferenza di Parigi del 1919: così fu piantato il seme del nazismo
11 novembre 1918, l'ultimo giorno della Prima Guerra Mondiale
Dopo l’8 settembre 1943, la fuga del re Vittorio Emanuele III
Guernica, una strage inutile che cambiò il modo di fare la guerra