Don Ferrante non è certamente uno dei personaggi più famosi de I Promessi Sposi, niente a che vedere con Renzo, Lucia, don Abbondio o l’Innominato. Ma in tempi di Coronavirus questo oscuro personaggio manzoniano torna prepotentemente in auge per le sue pseudo ipotesi scientifiche avanzate per spiegare l’insorgenza della peste, dotte stramberie che, purtroppo per lui, non gli evitarono né il contagio e ancor più la morte.

DON FERRANTE: L’ANTESIGNANO DEI LEONI DA TASTIERA

Internet e i social hanno moltiplicato in questi decenni in modo esponenziale il numero di pseudo esperti in tutti le discipline, in ossequio alla famosa frase attribuita a Andy Warhol per cui prima o poi tutti hanno il loro quarto d’ora di celebrità.

La rete, in sostanza, ha decuplicato a dismisura le chiacchiere da bar, quelle declamate con voce stentorea davanti a una fumante tazzina di caffè, accompagnata dall’immancabile cornetto.

La pletora di pseudo esperti discetta su qualsiasi materia dello scibile umano e non. Dalla politica al calcio, dall’economia all’imprese spaziali, dall’ultimo modello di cellulare, fino, naturalmente, alla scienza.

La peste nell'arte, il dipinto di Tiepolo

Giambattista Tiepolo, “Santa Tecla libera la città di Este dalla peste”, particolare, (1759), Este (Padova), Duomo

Più la questione su cui argomentare si fa complessa e maggiormente il “professionista” da bar si sente autorizzato a pontificare, imponendosi in mezzo a un manipolo di persone se possibile ancora più ignoranti dell’improvvisato Speakers’ Corner.

Le motivazioni più semplici e ovvie, tra un morso di ciambella e un sorso di latte, vengono accantonate a favore di ardite speculazioni che coinvolgono ogni branca del sapere umano, in cui l’uomo qualunque sembra muoversi con dimestichezza.

Ecco allora la spiegazione sull’ennesima crisi politica, sul momento negativo della squadra di calcio o sul crollo delle borse a livello mondiale. Alla fase dell’interpretazione seguono, in un crescendo rossiniano, le attese e famigerate soluzioni e lì l’esperto improvvisato assurge alla definitiva gloria.

Oggi al bar si è sostituita la rete, il bancone dove consumare caffè e cornetto ha assunto i contorni di un’agile tastiera, di un tecnologico cellulare, di una sofisticata webcam, amplificando a profusione gli effetti devastanti di questi pseudo esperti, di coloro che negano anche l’evidenza, vaticinando spiegazioni astruse che fanno proseliti mondiali.

Ma questo singolare esemplare umano, che oggi irrompe a ogni ora proponendo con arrogante e teatrale certezza osservazioni e soluzioni alla pandemia da coronavirus, ha un illustre e letterario precedente: don Ferrante, l’erudito seicentesco dei Promessi Sposi, a cui la cultura enciclopedica non gli salvò la vita dalla peste.

DON FERRANTE, UN PERSONAGGIO DEI PROMESSI SPOSI DA RILEGGERE

Il personaggio di don Ferrante fa la sua comparsa nel XXV capitolo de I Promessi Sposi, quando, su incarico della moglie, Donna Prassede, scrive una lettera al cardinale Federigo per informarlo della decisione di ospitare Lucia, da poco liberata dalle grinfie del perfido don Rodrigo.

Manzoni in questo capitolo si limita solamente a tratteggiare il personaggio di don Ferrante, lasciando la scena alla moglie, a quella donna Prassede ritratta come una donna bigotta, invadente e che non sa discernere il vero bene.

Ma dalla lettera che don Ferrante scrive emergono già alcune peculiarità dell’erudito, che in quella missiva «ci mise tutto il suo sapere, e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le raccomandò caldamente l’ortografia; ch’era una delle molte cose che aveva studiate, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa», una lettera a quanto sembra ridondante, se è vero che il cardinal Federigo, dopo averla letta vi ricavò «il sugo del senso da’ fiori di don Ferrante».

 Chi è don Ferrante nei Promessi Sposi

Don Ferrante, il personaggio manzoniano de I Promessi Sposi

La vera conoscenza con questo personaggio avviene nel capitolo XXXVII de I Promessi Sposi, quando don Ferrante entra definitivamente in scena, dando sfoggio non solo della sua cultura ma anche e soprattutto delle sue teorie sulla diffusione della peste.

Il suo è un tipo di sapere enciclopedico ante litteram, che spazia dalla letteratura alla storia, dalla filosofia alle discipline politiche, invadendo settori meno “scientifici” quali la stregoneria, l’arte cavalleresca, la magia e soprattutto l’astrologia.

Sarà proprio quest’ultima materia, di cui si ritiene un grandissimo esperto, a costargli caro. Saranno le sue ipotesi astrologiche sull’origine della peste che semina morti in tutta Milano e non solo, a spalancargli le fatali porte della morte.

LA PESTE DEL 1630, STORIA DI UN FLAGELLO

«La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia».

Così Alessandro Manzoni apre il XXXI capitolo dei Promessi Sposi, interamente dedicato al racconto della peste, del suo propagarsi e della drammatiche conseguenze che determinò.

Si trattò di un vero e proprio flagello, che rievocò i racconti della peste nera, responsabile di milioni di vittime nel corso del Medioevo. La peste non riguardò solo Milano e la Lombardia ma interessò buona parte dell’Italia settentrionale, lambendo anche alcune zone del centro, quali, ad esempio, Firenze.

Alla fine di questa nuova ondata di peste i morti superarono ampiamente il milione, devastando intere città.

A portare la peste, come lo stesso scrittore racconta, furono i Lanzichenecchi che, nell’autunno del 1629, erano calati in Lombardia per porre sotto assedio la città di Mantova. Il morbo covava tra i soldati già da tempo ma non si diffuse subito. Solo nella primavera successiva a Bergamo, Lecco e soprattutto a Milano la terribile pestilenza iniziò a mostrare i suoi mortiferi artigli.

Nel giro di pochi giorni la situazione peggiorò con migliaia di contagiati che furono accalcati nei lazzaretti dove però in molti morivano senza che i medici potessero fare molto.

Ecco come Manzoni racconta la realtà di quei luoghi dove venivano ammassate migliaia di persone:

«Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi».

Con l’arrivo del caldo, poi, la situazione divenne insostenibile, con quaranta casi al giorno nella sola Milano. La reazione popolare fu caotica e nelle strade, dove transitavano i carretti con all’interno i corpi degli appestati, la caccia all’untore divenne l’irrazionale reazione al dramma.

Come Manzoni descrive bene, la credulità popolare, avida di risposte immediate, attribuì la colpa della peste a dei malvagi untori, che con i loro unguenti velenosi diffondevano volontariamente quel terribile morbo contagiando persone e oggetti. Tale credenza non infiammò solo le persone più ignoranti ma anche le stesse istituzioni con il risultato di una vera e propria ricerca spasmodica dell’untore, che rievocò, a distanza di secoli, quella caccia alle streghe che aveva caratterizzato il medioevo.

Si trattò di azioni davvero turpi come nel caso del barbiere Gian Giacomo Mora e del commissario di sanità Guglielmo Piazza. I due, accusati da Caterina Rosa di essere degli untori, furono nell’estate del 1630 sottoposti a un vero e proprio processo che si concluse, ovviamente, con la condanna a morte a mezzo della famigerata ruota.

I giudici non soddisfatti, per sedare la sete di vendetta del popolo, provvidero anche alla distruzione dell’abitazione del Mora, il luogo del diavolo, sulle cui ceneri fu innalzata la colonna infame, di cui narrò ampiamente Manzoni nella celebre Storia della Colonna Infame.

La peste nei quadri: Poussin

Nicolas Poussin, “La peste di Azoth” (1630-1631), Olio su tela, Parigi, Museo del Louvre.

Ma le leggende popolari sull’origine della peste non si limitavano ai soli untori. Secondo alcuni il ferale morbo poteva dipendere da dei vapori venefici o perfino, come sosterrà il “nostro” don Ferrante, dalle congiunzioni astrali.

Se difficile era capirne l’origine ancor di più era arduo contenere la peste che mieteva morti, trasformando gli spazi urbani in luoghi di immane sofferenza e obbligando le istituzioni a misure di salute pubblica molto dure, per evitare le quali più di qualcuno adottava comportamenti di vario tipo:

«Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati.»

LA FATALE CONGIUNZIONE DI SATURNO CON GIOVE

La tragedia della peste incombeva, dunque, su chiunque, senza esclusione di sesso, ceto o religione, «era ancora più facile prenderla per in ischerzo, che passarla sotto silenzio» non, però, per don Ferrante che all’evidenza del dramma contrapponeva le sue inveterate certezze che lo portavano a essere «uno de’ più risoluti a negarla».

Lo faceva, ovviamente, «non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione».

La vera ragione della peste era per don Ferrante da ricercare nell’astrologia, una delle sue passioni, uno degli argomenti che conosceva meglio. A suo dire tutto era riconducibile alla fatale congiunzione di Saturno con Giove.

In virtù di questo, visto che «mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino» il problema della diffusione della peste, di fatto, per il colto don Ferrante, non sussisteva.

Ancor meno era da considerare il rischio di contagio, per cui tutte quelle assurde indicazioni che le istituzioni cittadine preoccupate fornivano sullo «schivare il contatto materiale de’ corpi terreni» consigliando, contestualmente, di bruciare i cenci, erano a suo avviso del tutto inutili, visto che era impossibile bruciare Giove o Saturno, unici responsabili di quel singolare morbo.

Forte di queste sue incrollabili certezze, frutto di anni di studio accanito, don Ferrante non si lasciò neppure sfiorare dal dubbio di un possibile contagio, per questo «non prese nessuna precauzione contro la peste» che, invece, «gli s’attaccò» senza che l’erudito neppure se ne accorgesse, al punto che «andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.»

La peste nel Seicento

Antonio Zanchi, “Il bozzetto de La Peste del 1630”, (1666), Vienna, Kunsthistorisches Museum

Ieri come oggi di soggetti come don Ferrante è pieno il mondo. Si tratta di personaggi senza scrupoli che per il solo piacere di apparire, di emergere, raccontano fandonie, intasando la rete di stupidaggini costringendo i veri esperti a perdere tempo prezioso per smentire simili sciocchezze ed evitare che queste pericolose fake news possano diventare endemiche, infettando i cervelli di tutti.

Questi epigoni di don Ferrante sono gli unici, veri untori, perfetti idioti che diffondono il morbo virulento dell’ignoranza attraverso un sofisticato armamentario fatto di post, video, rubriche, armi di confusione di massa capaci di fare rapidamente proseliti, persone che, in buona fede o no, diffondono l’odioso verbo.

Da questi moderni untori, loro sì davvero pericolosi, una volta per tutte, dovremmo immunizzarci con l’unico antidoto, quello della corretta informazione.

Ad maiora!

P.S.: i virgolettati sono tutti tratti da I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.

 

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