Figlia di Zeus e di Era, Ebe fu nel mondo classico la perfetta raffigurazione della giovinezza ma anche l’enofora degli dei, la coppiera ufficiale dell’Olimpo, ancor prima di Ganimede. Ma è anche colei che, come racconta Omero nell’Iliade, aiuta Era ad allestire un perfetto carro da guerra e che immerge il fratello Ares nell’acqua ristoratrice o che sposa Eracle, divenendo, come scrive Pindaro, genero di Era.
Un mito antico che nei primi anni dell’Ottocento il genio di Canova eternò in quattro diverse versioni, una più bella dell’altra, perfette rappresentazioni non solo della figura mitologica ma anche della grazia neoclassica.
EBE, LA DEA DELLA GIOVINEZZA
«E fra l’altre immortali ultima venne
rugiadosa la bionda Ebe, costretti
in mille nodi fra le perle i crini,
silenziosa, e l’anfora converse:
e dell’altre la vaga opra fatale
rorò d’ambrosia; e fu quel velo eterno.»
Così Ugo Foscolo nel terzo inno del Il velo delle Grazie, quello dedicato a Pallade, descrive Ebe, la dea che nel nome stesso racchiude la parola gioventù.
Figlia di Zeus e di Era, stando almeno a quanto riferisce Esiodo nella Teogonia, Ebe svolge tra gli dei assisi sull’Olimpo il ruolo di enofora, la divina coppiera che versa nei calici nettare e ambrosia, carica da cui, dopo una rovinosa caduta, viene definitivamente dispensata per volontà di Zeus.
In realtà il divino capitombolo è una scusa perché nel frattempo il re degli dei si è invaghito di un giovane principe troiano, il bellissimo Ganimede a cui affida l’incarico di coppiere, scatenando l’irosa gelosia della moglie Era.
Simbolo della giovinezza ma anche del piacere che la gioventù porta con sé, intorno a Ebe nasce un fiorente culto che alligna in diverse parti della Grecia. Da Corinto, dove in suo onore viene innalzato un tempio privo, tuttavia, di una sua statua in suo onore come riferisce Pausania, a Sicione, passando per Flio e la stessa Atene.
Ma il culto di Ebe valica facilmente i confini greci approdando fino a Roma, dove alla dea della giovinezza, a colei che danza al suono della lira di Apollo assieme alle Ore e alle Muse, Caio Licinio fa edificare un tempio, addirittura, nell’immenso Circo Massimo.
Ma Ebe che Omero nell’Iliade definisce «veneranda» non è solo la dea dell’eterna bellezza ma anche la sposa di Eracle come testimoniano Omero nell’Odissea, Esiodo, nella già citata Teogonia e Pindaro, nelle Istmiche. Ebe, infatti, è data da Zeus in sposa a Eracle dopo l’apoteosi dell’eroe e da quella divina unione, in seguito, nasceranno due figli, Alessiare e Aniceto.
EBE DI CANOVA: LE QUATTRO VERSIONI
La mitologica bellezza di Ebe è stata più volte declinata in vari modi da artisti di ogni epoca e tra questi Antonio Canova che raffigurò la figlia di Era e Zeus in ben quattro opere, ognuna delle quali bellissima.
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EBE DI BERLINO
La prima, in ordine cronologico, fu la cosiddetta Ebe di Berlino, dal luogo dove oggi la scultura è esposta. Canova la eseguì nel 1796 per volere del conte Giuseppe Giacomo Vivante Albrizzi. Nel 1830 la scultura che non convinse la critica per il viso giudicato poco espressivo e, soprattutto, per la presenza sotto i piedi di una nuvola dai richiami eccessivamente barocchi, venne venduta al re di Prussia Federico Guglielmo III, a cui, invece, l’opera di Canova piacque molto.
EBE DI SAN PIETROBURGO
La seconda versione della mitologica Ebe è strettamente legata a Giuseppina Beauharnais, prima moglie di Napoleone ripudiata, poi, per esigenze dinastiche a favore di Maria Luisa d’Austria da cui l’imperatore ebbe il desiderato figlio, il futuro Napoleone II.
Ebe fu una delle diverse opere che lo scultore realizzò per la consorte di Napoleone «un vero pantheon di capolavori canoviani – come ha scritto la storica dell’arte Sandrina Bandera – in cui emergeva il genere di carattere “leggiadro” più amato dai collezionisti, opposto a quello eroico.»
Esposta, nel 1808, al Salon di Parigi, l’opera non riscosse, tuttavia, il plauso della critica che sottolineò, come già fatto per la versione “veneziana” la poca espressività del viso della dea.
Canova a queste critiche, giudicate oltremodo ingiuste, rispose piuttosto piccato, rimarcando che se avesse conferito alla sua Ebe maggiore espressività, questa sarebbe stata una delle baccanti, qualcosa di molto diverso da divina coppiera.
Nel 1815 l’Ebe “francese” insieme alla Danzatrice e alle Grazie, quasi per nemesi storica, come sagacemente evidenziato dalla Bandera, viene acquistata dallo zar Alessandro I, nemico giurato di Napoleone.
Partì, quindi, alla volta di San Pietroburgo e del meraviglioso Hermitage, andando, così, ad incrementare la già ricca collezione imperiale.
EBE DI CHATSWORTH
La terza versione ci porta in Inghilterra, terra di origine di Lord Cawdor che nel 1814 commissionò a Canova l’opera, oggi conservata a Chatsworth.
LA EBE DI FORLÌ, L’ULTIMA VERSIONE DI CANOVA
La “Ebe di Forlì”, l’ultima versione di Ebe realizzata da Canova, risale al 1817. Ormai lo scultore nativo di Possagno non è solo una star nel mondo dell’arte ma anche il raffinato diplomatico che ha riportato in Italia moltissime opere trafugate da Napoleone ma, non le amate Nozze di Cana del Veronese, rimaste a Parigi, nello scrigno del Louvre.
Ebe di Forlì: l’ultima versione di Antonio Canova (foto: Maurizio Carvigno)
A commissionare l’ennesima statua raffigurante la coppiera dell’Olimpo fu la nobildonna Veronica Guarini e il risultato non la deluse. La versione forlivese, come ebbe a scrivere lo storico dell’arte Piero Adorno, fu quella in cui si concretizzò meglio l’ideale canoviano.
Lo scultore, infatti, diede vita a una Ebe che sembra una danzatrice, in un perfetto e armonico bilanciamento reso dalle braccia e dalle gambe ma soprattutto dalla tunica, splendidamente scolpita da Canova.
Ecco come lo stesso Adorno descrive quella veste che avvolge sensualmente parte del corpo di Ebe:
«La tunica, che, avvolgendosi sulla cintura, rende visibili le luminosissime modulazioni del seno, spinta indietro dal lieve attrito dell’aria, si appiattisce e si velifica anteriormente ricevendo la luce e svolazza posteriormente con ricchi giochi chiaroscurali.»
La scultura, il cui volto viene esaltato dai riflessi dorati della collana ma anche della coppa e della brocca, e che malgrado l’apparenza grecizzante è pienamente settecentesca, totalmente neoclassica, fu inizialmente ospitata a Firenze per poi “sbarcare” a Forlì, andando a impreziosire le sale del palazzo di famiglia dei Guarini, in corso Garibaldi.
Nel 1887, morta la contessa, la statua di Ebe lasciò Palazzo Guarini Torelli per trasferirsi nelle sale dei musei civici, a seguito della vendita degli eredi al comune di Forlì.
Durante la Seconda Guerra mondiale il capolavoro di Canova venne murato per evitare le possibili nefaste conseguenze di eventuali bombardamenti.
Terminato il conflitto, l’Ebe forlivese traslocò a Palazzo Merenda, una delle perle della Pinacoteca, sede che lasciò per l’attuale e definitiva collocazione nel complesso dei Musei di San Domenico, in un ambiente opportunamente realizzato per ospitare l’opera del Canova, concepito per assomigliare alla sala ottagonale di Palazzo Guarini Torelli dove una volta era esposta, una affascinante disposizione che permette di ammirarla da tutti i lati, in tutto il suo splendore.
Per approfondire:
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