Quando il 13 maggio 1978 fu licenziata la “Legge 180”, impropriamente chiamata Legge Basaglia, in Italia esistevano ben 98 manicomi, dislocati in tutta la penisola e che ospitavano ben 89 mila pazienti. Più o meno ogni provincia italiana aveva il suo ospedale psichiatrico, una struttura perlopiù autonoma, in genere dislocata in una zona periferica e fuori dal centro urbano. Si trattava di vere e proprie cittadelle della follia, all’interno delle quali, oltre alla struttura sanitaria, c’erano tutta una serie di servizi necessari all’indipendenza degli stessi.
Questo è un viaggio in tre di quelle novantotto strutture, che ufficialmente si chiamavano ospedali psichiatrici provinciali e che, invece, nel comune dire altro non erano che manicomi.
EX OSPEDALI PSICHIATRICI: IL MANICOMIO DI COLLEGNO
Nel 1728 il re Vittorio Amedeo II volle creare nel suo regno una struttura che “ripulisse la città” da mendicanti, sbandati e malati di mente, all’epoca meglio noti come i “pazzerelli.”
Si rivolse, a tal fine, alla Confraternita del S. Sudario e della Vergine delle Grazie, a cui affidò l’incarico di aprire e gestire un ospedale dove ricoverare e semmai curare i malati di mente.
La scelta della confraternita non era stata casuale. Si trattava di un ente ecclesiastico, fondato il 25 maggio 1598 con il primario scopo di occuparsi del culto della Sindone, che da anni si occupava anche di emarginati e malati di mente.
Il primo nucleo di quello che sarà poi l’ospedale dei pazzarelli sorse nell’isolato di San Dalmazio, su dei terreni donati dallo stesso Vittorio Amedeo II.
Fin da subito, tuttavia, la struttura apparve inadeguata, per questo nel 1827 venne progettata una seconda sede, sempre all’interno di Torino, in via Carlo Ignazio Giulio. La nuova struttura, progettata dall’architetto Giuseppe Maria Talucchi, un esperto in merito alla realizzazione di ospedali, fu inaugurata nel 1834.
Nel giro di pochi anni il problema del sovraffollamento si ripresentò in tutta la sua evidenza. Rispetto ai 400 malati consentiti la struttura arrivò a ospitare ben 600 pazienti, per questo, a partire dal 1854, si decise di spostare buona parte dei degenti in un’altra costruzione, realizzata recuperando i locali dell’antica Certosa di Collegno, alle porte di Torino.
L’edificio religioso, che già in passato era stato ipotizzato a tal fine, era stato costruito a partire dal 1641 per volontà di Cristina di Francia, reggente della Savoia, sul modello della grande certosa di Grenoble e, nel corso dei secoli, aveva visto all’opera architetti del calibro di Maurizio Valperga e Filippo Juvarra.
La Certosa di Collegno rappresentava per la maggiore estensione, ben 418.000 mq di cui oltre 44 mila coperti, ma anche per la lontananza dal centro cittadino, un luogo ideale dove far sorgere un ospedale psichiatrico, seppur con le necessarie e doverose modifiche per riadattare una costruzione nata con altri scopi. L’incarico fu affidato all’architetto Giovanni Battista Ferrante che realizzò un progetto consistente nel recupero degli spazi preesistenti ma anche nella creazione di nuovi fabbricati.
A partire dal 1864 furono realizzati i cosiddetti padiglioni “dispari”. Si trattava, nello specifico, di edifici disposti a pettine e collocati lungo il lato destro dell’antico chiostro a cui, dal 1893, si aggiunsero, su progetto dell’ingegner Luigi Fenoglio, i padiglioni “pari”, strutture simili in tutto a quelli “dispari” ma collocati lungo il lato sinistro del chiostro.
L’avveniristica struttura del manicomio di Collegno rappresentò un costante modello di riferimento, in quanto, la suddivisione in padiglioni paralleli permetteva di dislocare i malati in ambienti diversi, posti su più piani, collocandoli sulla base della diversa patologia.
La realizzazione, inoltre, della lavanderia e di altri servizi interni, rese l’ospedale psichiatrico di Collegno una struttura praticamente autonoma, capace di provvedere ai principali bisogni dei pazienti ma anche del personale che vi lavorava. Sul finire degli anni Trenta fu addirittura realizzata una piccola ferrovia per collegare le diverse sezioni manicomiali.
Nel 1926 il manicomio assurse ai fasti della cronaca grazie all’internamento di un paziente inizialmente ignoto ma che ben presto diventerà per tutti lo smemorato di Collegno.
Giulia Canella e lo Smemorato di Collegno
Anni prima, nel 1911, il manicomio torinese era stato già oggetto della pruriginosa attenzione della stampa, a seguito del ricovero di Ida Peruzzi, moglie dello scrittore Emilio Salgari. Nella scheda di accettazione la donna venne descritta come esaltata, gaia, logorroica, clamorosa, elementi che portarono il medico di guardia a stilare la diagnosi di psicosi periodica e di esaltazione maniaca. Pochi giorni dopo il ricovero della moglie, il 25 aprile 1911, Salgari si tolse la vita, la moglie, invece, morirà nel manicomio di Collegno nel 1922.
Fin dalla sua inaugurazione l’ospedale si distinse per il coinvolgimento di alcuni malati in attività lavorative di vario genere che andavano dalla coltivazione di frutta e verdura all’allevamento degli animali, senza dimenticare altri impieghi quali quelli di calzolaio, sarto, elettricista, materassaio.
Il primo medico a impegnare nel nosocomio torinese i pazienti in attività produttive fu il direttore Michelangelo Porporati, uno dei fautori della ergoterapia, di quel metodo terapeutico consistente nel coinvolgere alcuni malati in attività lavorative ma anche artistiche, un modo per strappare gli “ospiti” allo stato di alienazione a cui erano di norma condannati.
Dopo l’approvazione della “Legge 180” venne abbattuto il muro di cinta dell’ospedale di Collegno, simbolo primo dell’internamento manicomiale mentre, nel 1993, dopo la soppressione degli ultimi quattro reparti psichiatrici, Collegno chiuse i battenti, iniziando una nuova vita. Il grande parco intorno all’ospedale fu aperto al pubblico, mentre contestualmente iniziò un percorso di recupero di alcuni edifici dell’ex manicomio, utilizzati in seguito come sede di uffici comunali, aule universitarie e locali a disposizione del servizio sanitario nazionale.
IL SAN LAZZARO, IL MANICOMIO DI REGGIO EMILIA
In origine il futuro manicomio di Reggio Emilia era un lebbrosario, realizzato, a partire dal 1217, su un’area ai margini della via Emilia sui resti di un’antica necropoli di origine romana. La struttura, fin dai primordi, fu dedicata a San Lazzaro, da sempre protettore degli appestati.
Nel corso del Cinquecento l’antico lebbrosario si trasformò in un ospizio per poveri e mendicanti, dove, non di rado, venivano “accolti” anche i malati di mente.
L’ex manicomio di Reggio Emilia
Ma fu nel corso dell’800 che l’ex lebbrosario reggiano assunse definitivamente il profilo di un ospedale psichiatrico, per volontà del giovane medico Antonio Galloni che aveva, a tal proposito, visitato alcuni manicomi sparsi lungo la penisola, tra cui quello di Aversa, in provincia di Napoli.
Galloni era un convinto sostenitore delle teorie di Philippe Pinel che nel suo Bicetre hopital di Parigi, sul finire del ‘700, aveva introdotto evoluti criteri terapeutici per i malati di mente che prevedevano, tra l’altro, l’abolizione, salvo rare eccezioni, dei sistemi di contenzione, a cui, troppo spesso, si faceva ricorso nei maggiori manicomi d’Europa.
Il manicomio di San Lazzaro sotto l’illuminata direzione di Galloni divenne una struttura modello, caratterizzata da una gestione razionale della suddivisione dei malati e dall’umanizzazione dei trattamenti sanitari, concetti, per l’epoca, decisamente avveniristici.
Nel 1855, alla morte di Galloni, il San Lazzaro, che al momento dell’inaugurazione nel 1821 contava solo 21 pazienti, ospitava ben 233 “alienati”.
Negli anni successivi il manicomio accrebbe sia gli spazi interni che esterni, dotandosi, oltre che di nuovi reparti, anche di una colonia agricola, in ossequio ai principi curativi dell’ergoterapia.
La fama del San Lazzaro, tuttavia, raggiunse l’apice sotto la guida del professor Tamburini, uno degli psichiatri più affermati di Italia, che fu direttore del manicomio dal 1877 al 1907, anno in cui si trasferì a Roma.
In quegli anni il nosocomio divenne un’eccellenza non solo nazionale ma anche europea, tanto da meritare la medaglia d’oro all’Esposizione universale di Parigi del 1900 nella sezione “Economia sociale, igiene ed Assistenza pubblica”.
Durante la prima guerra mondiale il San Lazzaro si adoperò nel sostegno psicologico a migliaia di soldati italiani impegnati al fronte, specializzandosi anche nell’individuazione di quei casi di simulazione di patologie mentali che coinvolgevano non pochi militari che speravano, così, di essere esonerati dall’impiego in guerra.
Stabilire nel minor tempo possibile se si trattasse di una vera malattia psichiatrica o di una simulazione era un imperativo imposto dalle alte gerarchie militari che, specie dopo la disfatta di Caporetto, anelavano la presenza di più soldati possibili da impiegare al fronte per cercare di arrestare la possibile capitolazione.
Esterno dell’ex ospedale psichiatrico di Reggio Emilia
Negli anni del conflitto il numero dei ricoverati, in virtù della cospicua presenza di militari, crebbe notevolmente, toccando vette difficilmente ripetibili, tanto che si passò dai 1.243 pazienti del 1913 ai 2.150 del 1919.
Conclusasi la guerra il San Lazzaro tornò alla sua originaria vocazione civile, allargando la ricerca anche alla neuropsichiatrica infantile, con l’inaugurazione, nel 1921, di uno specifico centro di assistenza.
Il 14 luglio del 1937 le porte del San Lazzaro si aprirono per ospitare il pittore Antonio Ligabue. Nella scheda di ricovero si sottolineava come il Ligabue rappresentasse un pericolo per sé e per gli altri a causa dei suoi comportamenti decisamente antisociali. Non fu il suo solo ricovero nella struttura manicomiale reggiana, ne seguirono altri due, nel 1940 e nel 1945.
Il complesso del San Lazzaro era strutturato in numerosi padiglioni in base alle diverse tipologie di malati. Tra questi il “Villino Livi” destinato a ospitare i malati più ricchi e che per questo godevano di ambienti più ampi e trattamenti migliori, la Colonia Scuola “A. Marro” dove erano internati tutti quei bambini ritenuti incapaci di frequentare le scuole normali e che mostravano refrattarietà all’educazione classica e il famigerato padiglione Lombroso, fra tutte le sezioni del manicomio di Reggio Emilia il più temuto.
Creato nel 1910, in ossequio ai nuovi dettami della legge del 1904, il reparto, intitolato al padre della criminologia Cesare Lombroso, accoglieva i pazienti più pericolosi, quelli che si erano macchiati di reati gravi, anche di omicidi. Il padiglione, isolato da tutti gli altri da un alto muro di cinta, prevedeva la presenza di vere e proprie celle dove, non di rado, veniva fatto ricorso ai più duri sistemi di contenzione.
Con la chiusura dei manicomi in Italia il San Lazzaro ha conosciuto una seconda vita, aprendosi al pubblico. Il “Lombroso”, ad esempio, è diventato la sede di uno singolare spazio museale, dove è possibile ripercorrere attraverso foto, oggetti, video, pannelli esplicativi e la puntuale guida di alcuni volontari la storia plurisecolare del manicomio reggiano.
IL SANTA MARIA DELLA PIETÀ, IL MANICOMIO DI ROMA
Il manicomio a Roma fu aperto nel 1548, per volontà del sacerdote sivigliano, Ferrante Ruiz, cappellano di Santa Caterina dei Funari e di due laici Angelo Bruno e il figlio Diego, legati a Ignazio Loyola e a Giacomo Laynez.
La struttura fu inserita nel monastero di Santa Caterina dei Funari con il nome di Hospitale de’ poveri, forestieri et pazzi dell’Alma Città di Roma, denominazione che muterà nel 1572 in Ospedale di Santa Maria della Pietà dei poveri pazzerelli.
A occuparsi dei pazienti era la Confraternita di Santa Maria della Pietà, che, come scrisse Camillo Fanucci, nel suo Trattato di tutte le Opere Pie dell’alma città di Roma, aveva il compito di raccogliere «tutti quelli che sono poveri di cervello et pazzi di qualsiasi sesso o natione» un incarico svolto con diligenza se è vero che molti ricoverati ritornavano «alla loro pristina sanità».
Nel 1750, la sede del neonato manicomio, a causa di oggettivi problemi di spazio, fu spostata in piazza Colonna dove rimase fino al 1725, allorché la struttura ospedaliera fu trasferita in un edificio nuovo di zecca, realizzato dall’architetto Filippo Raguzzini in via della Lungara.
Non si trattò solo di un cambio logistico ma anche di competenze che, come disposto da papa Benedetto XIII, passarono dalla Confraternita di Santa Maria della Pietà al Commendatore della Confraternita del Santo Spirito che si occupava da sempre del Santo Spirito in Sassia, il più antico ospedale di Roma.
L’ex manicomio del Santa Maria della Pietà a Roma
Al momento del cambio di sede, gli “ospiti” della struttura erano 120, un numero che aumentò nei successivi anni, rendendo la sede del tutto inadeguata, tanto che il celebre alienista Domenico Gualandi, direttore del manicomio di Bologna, definì l’ospedale romano, dopo una visita compiuta nel 1823, «un locale meschino, con le camere de’ furenti piccolissime e mal tenute».
Il giudizio negativo espresso da Gualandi non era limitato alla sola logistica ma anche alle terapie utilizzate, a suo dire, prive di criteri logici e uniformi, una realtà deprimente che, invero, non riguardava solo Roma.
Con la fine del potere temporale, a seguito della Breccia di Porta Pia, la gestione del manicomio di via della Lungara passò alla Provincia di Roma. La struttura, tuttavia, appariva ormai del tutto carente, tanto che si iniziarono a studiare possibilità alternative. Nel 1907 venne bandito un concorso per la progettazione di una Città della e per la pazzia, ispirato, come si leggeva nel bando, «alle più moderne esigenze della igiene e della tecnica manicomiale».
Il concorso venne vinto dagli ingegneri Edgardo Negri e Silvio Chiera che individuarono in località Sant’Onofrio la zona dove costruire il manicomio di Roma. Si trattava di un’area posta in campagna, alle pendici di Monte Mario, un luogo ideale per l’ampia superficie, oltre 130 ettari, per la posizione collinare, 120 metri sopra il livello del mare e, infine, per la vicinanza con la ferrovia Roma-Viterbo e la via Trionfale.
I lavori iniziano nel 1908 e furono affidati alla ditta Domenico Vitali e C. per un importo complessivo a carico della Provincia di Roma di 5 milioni di lire. Il 28 luglio del 1913 il Santa Maria della Pietà apriva le sue porte e quasi un anno dopo, il 31 maggio 1914, fu inaugurato da Vittorio Emanuele III.
Si trattava di una struttura enorme, caratterizzata da 31 edifici complessivi, di cui 24 adibiti a strutture mediche, il tutto circondato da un immenso parco, innervato da ben 7 chilometri di strade asfaltate, secondo i dettami della moderna architettura manicomiale.
Il Santa Maria della Pietà, il più grande manicomio d’Europa, era per davvero una città della pazzia come auspicato al momento del bando concorsuale e non solo per i suoi 1.059 posti letto.
Accanto ai padiglioni medici, sia centrali che periferici destinati a ospitare i pazienti in base al tipo di alienazione (Tranquilli, Sudici, Semiagitati, Agitati, Prosciolti, Sorvegliati) c’erano anche strutture quali la colonia agricola, la vaccheria, la porcilaia, la lavanderia e laboratori di falegnameria, tipografia, la legatoria e, addirittura, materasseria, dove lavoravano i cosiddetti “malatini”, i degenti più tranquilli che potevano accedere ai programmi di ergoterapia.
Completavano la struttura del Santa Maria della Pietà la mensa, la biblioteca, posta all’interno della Direzione, la centrale elettrica, la chiesa e gli alloggi riservati alle suore.
Fiore all’occhiello dell’ospedale era l’impianto per la depurazione biologica delle acque di rifiuto, capace di smaltire novantacinque metri cubi ogni ora, per i tempi, un vero prodigio ingegneristico.
Come per il San Lazzaro, anche il nosocomio romano possedeva una sezione destinata ai «fanciulli oligofrenici di età superiore ai 14 anni e parzialmente rieducabili con metodi scolastici ed artigianali».
Così gli ingegneri Negri e Chiera descrissero questa area nel loro progetto: «Di giorno questi bambini sono tutti riuniti nei locali del piano terreno, al quale è annessa una grande area sistemata a giardino, e recinta di rete metallica, per la ricreazione ed i giuochi all’aria libera, riuscendo così a realizzare un vero trattamento medico-pedagogico».
Nel 1963 i minori presenti nel manicomio erano ben 200, a fronte di una popolazione complessiva di ben 2.471 pazienti. Il 1963 fu un anno speciale, ricorreva, infatti, il cinquantenario dell’apertura dell’ospedale, evento che fu celebrato in pompa magna, con la presenza del Presidente della Repubblica, Mario Segni, del ministro della Sanità, Luigi Mariotti e di alcuni delegati pontifici che fecero dono alla struttura sanitaria di una copia della Pietà di Michelangelo, collocata in seguito nel padiglione 26.
Dal punto di vista terapeutico il Santa Maria della Pietà si fregiò di un poco lusinghiero primato. Nel 1938 il famoso neurologo Ugo Cerletti avviò la sperimentazione dell’elettroshock, invenzione tutta italiana consistente nell’induzione nel paziente di convulsioni, ritenute salutari, ottenute attraverso il passaggio di corrente elettrica nel cervello.
Il Santa Maria della Pietà non fu solo elettroshock o altre pratiche aggressive come l’insulinoterapia, ma anche la sede, dal 1938, dell’Ufficio statistico per le malattie mentali e, nel 1946, dell’Istituto Neurologico Provinciale per l’assistenza e cura del parkinsonismo encefalitico, strutture di ricerca che si aggiungevano al laboratorio di anatomo-patologia, alla Stazione di Malarioterapia e a una sezione della Clinica psichiatrica universitaria della Sapienza.
Come per altri manicomi anche quello di Roma non fu esente dagli effetti delle riforme proposte dallo psichiatra triestino Basaglia che avevano trasformato gli ospedali di Gorizia prima e Trieste dopo.
Il clima nella struttura capitolina iniziò a mutare sul finire del 1974. Il 18 dicembre di quell’anno fu finalmente permesso ai pazienti l’uso delle forchette e dei coltelli, cosa fino ad allora vietata, l’unica posata consentita era il cucchiaio e, poco tempo dopo, furono abbattute le reti del Padiglione 22 (chiamato da tutti “il Bisonte”) che ospitava più di 300 fra epilettici, dementi senili e schizofrenici.
Nel 1978 l’Ospedale psichiatrico provinciale di Santa Maria della Pietà per le malattie mentali, questa la denominazione che aveva definitivamente assunto dal 1926, contava ben 1.076 ricoverati, numero che, in virtù degli effetti della Legge 180, scese drasticamente negli anni successivi, arrivando a toccare, nel 1995, 206 unità.
Le porte del manicomio di Roma si chiusero definitivamente il 14 gennaio del 2000, anche se da anni, ormai, l’ospedale, di fatto, aveva smesso di funzionare. Queste le parole di Nino, uno degli ultimi pazienti del Santa Maria della Pietà che furono pronunciate dall’allora direttore dell’ospedale il dottor Losavio:
«La fate facile voi psichiatri, ma non sapete quanto sia difficile per noi entrare fuori e uscire dentro».
Oggi l’ex manicomio di Roma è un’immensa struttura perlopiù abbandonata. Solo alcuni degli ex padiglioni sono stati riconvertiti. Tra questi il VI, che ospita i locali del bellissimo Museo della Mente o il XII padiglione all’interno del quale si trova l’Associazione Antea per la lotta al dolore.
Totalmente fruibile, invece, è il grande parco dall’alto valore botanico e paesaggistico, dove è possibile trovare specie arboree di vario tipo, frutto di anni di lavoro di giardinieri ma anche di medici, infermieri e pazienti.
Non so se mettevamo in manicomio la vita o la morte; forse è la morte che ho curato, era la morte che in manicomio sopravviveva.
(Vittorino Andreoli dal libro I miei Matti: ricordi e storie di un medico della mente)
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