L’11 gennaio 1999 fa moriva Fabrizio De André. Definirlo con una parola sola è difficile e sicuramente riduttivo. Non fu solo un cantautore, non fu solo un poeta, anche se da anni giustamente molti suoi testi compaiono nei libri di letteratura. Fabrizio De André fu molto di più. Forse il termine migliore è “raccontatore di storie”, come lui stesso si definì in più di un’occasione. L’artista genovese con la sua musica, con le sue parole ha raccontato come nessuno gli esseri umani e quel groviglio di sentimenti e di emozioni di cui è fatta la nostra fragile esistenza.

OMAGGIO A UN POETA: IN RICORDO DI FABER

Murales dedicato a Fabrizio De André ad Orgosolo

Murales dedicato a Fabrizio De André ad Orgosolo

Ho conosciuto la musica, la poesia di Fabrizio De André all’università. Fu un compagno di studi, Massimo Ceccarelli, oggi imprenditore di successo, a farmi accostare al mondo unico di Faber. Conoscevo Bocca di Rosa, Il Pescatore, La guerra di Piero, La canzone di Marinella, che anni dopo sentii cantata con trasporto unico da una persona a cui voglio un mondo di bene, e anche altre.

Ignoravo, tuttavia, l’esistenza di capolavori quali Il Testamento di Tito, Amico fragile, Andrea. Non conoscevo album straordinari come La Buona novella, che la RAI all’epoca censurò e che invece Radio Vaticana, mostrando coraggio e intelligenza, pubblicizzò o lo splendido Creuza de ma, premiato come il miglior disco degli anni Ottanta.  La vita di Faber è un libro pieno zeppo di capitoli bellissimi, tutti da leggere. Storie incredibili, spaccati di un vissuto non ordinario, tessere preziose che compongono un mosaico stupendo.

Ogni strofa di una sua canzone è un capolavoro, ogni nota indimenticabile. Fabrizio non è solo le sue canzoni, è la gente che ha frequentato. È il padre Giuseppe, figura totemica alla quale in punto di morte promise di non bere più; è il figlio Cristiano, «un figlio arrivato troppo presto» con il quale, però, riuscì a recuperare il rapporto. È Dori Ghezzi, «fonte perenne creatività, ottimismo, positività, confronto con la vita»; è George Brassens, che Fabrizio non volle mai conoscere dal vivo per non rischiare di rimanere deluso.

Ma è anche Emilio Fassio, una delle figure più importanti di tutta la sua esistenza che al piccolo Fabrizio, in quel di Revignano d’Asti, insegnò a leggere il grande libro della natura, una lettura che De André non abbandonò più. E poi è stato i tanti amici con cui inventava scherzi incredibili, degni della sceneggiatura del miglior Amici miei. Fra questi Paolo Villaggio, con il quale scrisse Carlo Martello di ritorno dalla battaglia di Poitiers, che un occhiuto pretore di Catania ritenne oscena, intentando addirittura un processo.

Fabrizio era la sua chitarra, uno strumento conosciuto da bambino e che non lasciò più. La definiva «una buona compagna, forse una delle più fedeli che, però, se la molli ti mette subito il muso e ti manda a fare in culo».

Grandissimo musicista, persona di incredibile cultura, curioso di tutto, innamorato come pochi della vita. Un carattere particolare, in taluni frangenti difficile ma anche timido e introverso. De André per anni ebbe una vera e propria fobia a cantare in pubblico, che superò in una sera d’estate alla mitica “Bussola” quando il regista Marco Ferreri, suo amico, lo spinse letteralmente sul palco. Aveva una passione infinita per le donne e per la città di Genova, dove non fece in tempo a tornare a vivere e, naturalmente, per la campagna, amore che si concretizzò in Sardegna, quando creò dal nulla L’Agnata, il suo buen retiro.

IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA: VITA DI FABRIZIO DE ANDRÉ

Fabrizio De André con Dori Ghezzi

Fabrizio De André con Dori Ghezzi

Fabrizio è stato anche le decine di collaborazioni con musicisti famosi o alle prime armi, come con Francesco De Gregori che giovanissimo accolse nella sua casa sarda e che incoraggiò ad andare avanti, dopo aver ascoltato la bellissima Alice.

Una vita vissuta sempre in direzione ostinata e contraria, impostata in modo «da morire con trecentomila rimorsi e nemmeno un rimpianto». Un’esistenza coerente a determinati valori, come quando, in occasione delle Colombiadi del 1992, rinunciò a esibirsi con Bob Dylan, per rispetto degli Indiani d’America sterminati dagli invasori e il cui dramma aveva già raccontato nella bellissima Fiume Sand Creek.

Quando quel maledetto 11 gennaio 1999 arrivò la notizia della morte di Fabrizio De André non ci volli credere. Mi sembrava assurdo. Poco più di un anno prima lo avevo applaudito al Teatro Brancaccio di Roma in un concerto indimenticabile e ora invece… Era, però, tutto vero. Fabrizio ci aveva lasciato e per sempre. Aveva ancora mille canzoni da scrivere e altrettante emozioni da regalare. Avrebbe voluto fra il serio e il faceto rifare l’inno d’Italia e magari scrivere un nuovo romanzo, ma quelle maledette sigarette, un’altra delle sue passioni, lo avevano ucciso. Ma il vento, che lo vide così bello, lo portò sopra una stella.

È stato un poeta maledetto, il cantore degli ultimi. Ha dato voce a prostitute, omosessuali, ladri, assassini, nani, zingari, soldati, vecchi solitari, Cristi e  madonne, vinti ed emarginati. Mille personaggi, involontari attori che senza un vero copione hanno recitato sul palco della vita.

Ha sfidato, con la dirompente forza di splendidi versi, la subdola ipocrisia di quella “gente che dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio”; ha fatto luce con la sola luminosità delle sue dolci parole in ogni via del Campo delle Città vecchie, dove dai diamanti non nasce niente ma dal letame nascono i fior.

In quest’ultimo viaggio verso l’eternità della memoria è stato accompagnato, in un corteo festoso e dissacrante, dalla sua gente, quegli ultimi a cui ha restituito la dignità di esseri umani. Persone comuni che lo hanno difeso dall’ipocrisia dei benpensanti dei tanti Sant’Ilario, da tutti coloro che “sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono” e da tutti quelli pronti ad appropriarsi dell’anima di un vero anarchico, per venderla poi al migliore offerente.

I protagonisti di quella sua personale Spoon river lo hanno preceduto nel luogo dove esiste una vera giustizia, e “con gli occhi rossi ed il cappello in mano”, hanno salutato “chi per un poco senza pretese” ha dato un po’ d’amore a tutti coloro che non l’hanno mai ricevuto.

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