ll campionissimo, l’airone, la locomotiva. Tanti soprannomi per indicare un solo, irripetibile mito: Fausto Coppi.
Il 2 gennaio 1960, l’anno che avrebbe visto celebrarsi a Roma le prime Olimpiadi italiane, iniziava nel peggiore dei modi possibili. A Tortona, poco prima delle nove, moriva il più grande ciclista di tutti i tempi: Fausto Coppi.
Non era stata una salita a sconfiggerlo, nemmeno una volata prima del traguardo ma una banale forma di malaria che, non compresa, sarà esiziale.
FAUSTO COPPI, I PRIMI SUCCESSI
Riavvolgiamo il nastro di questo affascinante film e ripartiamo da una data, quella del 17 maggio 1940. L’Italia non è ancora entrata nel conflitto mondiale ma gli strali della guerra sono sempre più rumorosi e preoccupanti. Per ora, tuttavia, quella strana non belligeranza, voluta da Mussolini mesi prima, resiste.
Fausto Coppi, la leggenda del ciclismo
Da Milano, intanto, come tradizione, prende il via la 28° edizione del Giro d’Italia, la competizione sportiva più amata dagli italiani. A guidare la carovana dei ciclisti, che attraverserà lo stivale nelle successive venti tappe, c’è lui, il favorito: Gino Bartali che corre per la Legnano.
In quella squadra, allenata da Eberardo Pavesi che prese parte alla prima edizione del Giro, c’è anche un oscuro gregario: Fausto Coppi che, con i suoi 21 anni, è il più giovane fra i 90 partecipanti alla “Corsa Rosa”.
Ha cominciato ad andare in bici per lavoro, facendo consegne di salumi ai diversi clienti sparsi fra Castellania, il suo paese natale in provincia di Alessandria e Novi, ai confini con la Liguria.
Fausto è magrissimo ma sulla bici corre veloce, saettando leggero sulle polverose strade dell’Appennino. In tanti lo notano, uno, però, crede in lui. Si tratta di Biagio Cavanna, apprezzato preparatore atletico e massaggiatore, con una mediocre carriera alle spalle di ciclista prima e di pugile poi, conclusasi anzitempo per un’incipiente cecità.
Cavanna che a Novi, per via delle sue qualità umane e professionali, lo chiamano il mago, intuisce che Coppi ha la stoffa del campione, per questo lo convince a osare e quel ragazzo osa.
Quel 17 maggio, però, Stringa, come lo chiamano da piccolo per via del fisico pelle e ossa, in quel Giro che sta per partire non è certo tra i favoriti. È uno dei gregari della Legnano. Il suo compito è quello di aiutare Gino Bartali, la punta di diamante della squadra, ad arrivare alla vittoria.
Ma il destino ci mette lo zampino, cambiando l’ordine naturale delle cose.
Il 29 maggio, praticamente a metà del Giro, Coppi stupisce tutti, vincendo l’11° tappa, la temibilissima Firenze-Modena di ben 184 km. Quel giorno non solo arriva primo ma indossa la mitica maglia rosa che non si sfilerà più. Il 9 giugno, un giorno prima che Mussolini annunci dal balcone di Palazzo Venezia l’entrata in guerra dell’Italia, Coppi fa il suo ingresso a Milano non da gregario ma da vincitore.
La conferma che non si tratta di un caso e che quel ragazzo possiede la stoffa del fuoriclasse arriva due anni dopo. A Roma Coppi, il 21 giugno 1942, si laurea campione italiano su strada, superando nello sprint finale Mario Ricci. Pochi mesi dopo, il 7 novembre, il ragazzo di Castellania aggiunge un’altra perla alla sua promettente carriera: il record dell’ora al Vigorelli, il velodromo di Milano. Una vera e propria impresa, non solo perché ottenuta contro un grande atleta, il francese Archambaud, ma perché raggiunta dopo un brutto infortunio, la frattura della clavicola destra, occorso sempre al Vigorelli il 22 giugno.
Pochi mesi dopo quel record, che resisterà ben 14 anni, la guerra chiama il caporale Coppi. Nel marzo del 1943 è spedito al fronte, in Africa del Nord. L’esperienza bellica, tuttavia, dura poco. Alcune settimane dopo, con altri suoi commilitoni della divisione Ravenna, Coppi viene catturato dagli inglesi. Internato prima a Megez el Bab è poi trasferito al campo di concentramento di Blida, nei pressi di Algeri.
1949: L’ANNO DELLA DEFINITIVA CONSACRAZIONE
Coppi rimane prigioniero degli inglesi quasi due anni. Solo nel febbraio 1945 torna in Italia. Gli anni d’oro sembrano lontani, fotografie sbiadite di un album impolverato. Ma Coppi oltre al talento, ha carattere e tanta forza di volontà. Risale sulla bicicletta, regalatagli grazie a una sottoscrizione promossa dalla Gazzetta dello Sport e torna a pedalare, a macinare chilometri, torna, principalmente, a vincere.
Fausto Coppi, il Campionissimo
Nel 1946, con la maglia biancoceleste della Bianchi, vince, dominando, la Milano-Sanremo. Impone distacchi umilianti: 14 minuti al secondo classificato, il francese Teisseire e ben 24, al rivale di sempre, a quel Gino Bartali che arriva solo terzo. Fausto Coppi è tornato.
L’anno dopo vince diverse “classiche” come il giro del Veneto, quello della Lombardia, quello dell’Emilia ma, soprattutto, il suo secondo Giro d’Italia.
I giornali non fanno che parlare di lui, del suo stile, delle sue già mitiche volate, del suo fisico strabiliante. Il 1948 è meno prodigo di vittorie, la Milano-Sanremo oltre che i giri di Emilia e Lombardia, ma è il viatico all’anno del definitivo trionfo, quello in cui Coppi diventa e per sempre il Campionissimo. Sempre nel 1949 In Coppi, insieme ad altri ciclisti, tra cui Bartali, Magni, Bobet e Cottur, interpreta se stesso accanto al grande Totò, nel film Totò al giro d’Italia.
Su quel set venne stipulata una sorta di pace fra Coppi e Bartali, dopo la figuraccia di Valkenburg, in Olanda, quando i due, capitani della squadra italiana in occasione dei Campionati del Mondo, decisero, dopo aver a lungo gareggiato, di ritirarsi ritenendo di non avere più possibilità di vittoria. Quel gesto valse ad entrambi una squalifica di due mesi, ridotta, poi, a un solo mese e una valanga di critiche.
Il 1949 si apre con la vittoria della Milano-Sanremo, ottenuta infliggendo al secondo arrivato, l’italiano Ortelli, ben 4 minuti di distacco. C’è, tuttavia, un Giro d’Italia da preparare al meglio e da vincere. Coppi, seguito sempre dal fidato Cavanna, si allena duramente, non vuole semplicemente partecipare, vuole arrivare primo, il posto che gli si addice.
Al contrario di Bartali, Coppi è un atleta che non si concede alcun tipo di vizio. Non beve, non fuma, segue un’alimentazione rigorosissima. Il giornalista Gianni Mura, anni dopo, lo definirà un monaco tibetano.
Dopo una partenza in sordina, in cui rimane volutamente nelle retrovie, Coppi, sulle Dolomiti, decide di aggredire la testa della classifica. Nella tappa che porta la carovana rosa da Bassano del Grappa a Bolzano, Coppi vince in solitudine, infliggendo quasi 7 minuti di distacco ad Adolfo Leoni che, per un’inezia, mantiene la maglia rosa. Ma sarà ancora per poco.
Fausto Coppi e Gino Bartali
Otto giorni dopo, il 10 giugno 1949, Coppi scrive una delle pagine più gloriose della storia del ciclismo di tutti tempi. La Cuneo-Pinerolo è la terzultima tappa di quel Giro. Il percorso è praticamente ignoto ma su quelle strade impervie, a tratti impossibili, fatte di salite ardite, discese temerarie e tornanti difficilissimi, viene scritta la leggenda del ciclismo. Dopo una fuga solitaria di ben 190 km, che per molti è semplicemente folle, Coppi, dopo aver staccato Bartali, arriverà secondo a quasi 12 minuti, taglia il traguardo di Pinerolo, entrando nella storia.
Il radiocronista dell’epoca, Mario Ferretti, immortalò quell’impresa, fatta di sudore, fatica e di ben quattro forature, con una cronaca che lasciò fatalmente il passo alla poesia:
«Un solo uomo al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi».
Le restanti tappe saranno solo il preludio all’ingresso trionfale a Milano che, due giorni dopo quell’impresa, consacra il suo Campione, portandolo nell’Olimpo dello sport.
Ma non c’è tempo per festeggiare, per dormire sugli allori. C’è un nuovo impegno da preparare e magari da vincere, c’è, in una sola parola il Tour de France.
Quella gara, che Coppi vince da trionfatore, non inizia nei migliori dei modi. Alla quinta tappa, la temibilissima Rouen-Saint Malo, il Campionissimo, a seguito di una caduta, involontariamente causata dal maglia gialla Marinelli, che lo urta nel tentativo di prendere una borraccia, pensa seriamente al ritiro.
Ma saranno Alfredo Binda, Biagio Cavanna che di Coppi è l’ombra e soprattutto il rivale e amico di sempre, Gino Bartali, a convincere il Campionissimo a risalire in sella e a tentare l’impossibile. Leggendarie le parole che Bartali pronuncia a un esitante Coppi in quella disastrosa tappa: «Se ti ritiri sei un acquaiolo, non un campione.»
Il giorno dopo Coppi vince la “cronometro” ma è sulle Alpi, il suo luogo naturale, dove Coppi compie il miracolo.
Sui passi alpini Coppi fa il vuoto. Il 19 luglio, nella 17° tappa, la terribile Briançon-Aosta, il ciclista di Castellania arriva primo al traguardo, dopo una corsa epica, fatta di cadute, forature, neve e gelo. Indossa per la prima volta la maglia gialla e non se la toglierà più.
Il 24 luglio, dopo 4.808 km, Fausto Coppi si aggiudica la 36° edizione del Tour de France ed è il primo a vincere nello stesso anno Giro e Tour, impresa che bisserà nel 1952.
Gli anni a seguire sono caratterizzati da grandi successi, fra cui due Giri d’Italia, nel 1952 e nel 1953, un altro Tour de France, nel 1952 e una vita privata decisamente tormentata. Nel 1951 muore l’amato fratello Serse, che corre con Fausto nella Legnano. Fatale è una banale caduta dalla bici nel corso del Giro di Piemonte il 29 giugno. Sulle prime non sembra nulla di grave, tanto che il ciclista risale in sella arrivando al traguardo. Poi in serata le condizioni peggiorano e Serse muore all’età di ventotto anni per un’emorragia celebrale. Coppi sulle prime pensa di abbandonare il mondo delle corse poi, però, cambia idea e pochi giorni dopo prende parte al Tour ma è evidente che non è nelle migliori condizioni.
L’altro momento di grande difficoltà arriva nel 1953 quando Coppi decide di rendere pubblica la relazione con Giulia Occhini. Il Campionissimo lo fa in modo per certi aspetti teatrale, sul podio di Lugano, in occasione del Campionato del mondo di ciclismo su strada, che lo vede vincitore. Su quel palco, al suo fianco non c’è sua moglie, Bruna Ciampolini, sposata nel 1945, bensì Giulia Occhini.
L’Italia perbenista dell’epoca non perdona quella relazione extraconiugale, visto che come Fausto anche Giulia è sposata e madre di due figlie. Alle inevitabili critiche si aggiungono le beghe giudiziarie, con tanto di arresto dei due e successive condanne. Nel marzo del 1955 Fausto Coppi viene condannato a due mesi mentre la Occhini a tre.
Sui giornali Coppi è nuovamente protagonista ma, purtroppo, per altri motivi.
Nuovi infortuni, l’età che avanza e le polemiche per la vita privata incidono e non poco su una carriera che sembra giunta al capolinea. Ma arriva l’ennesimo colpo d’ala con la vittoria nel Trofeo Baracchi, accanto al giovane Ercole Baldini.
L’ULTIMA CORSA DEL CAMPIONISSIMO
Nel dicembre 1959 Fausto Coppi viene invitato con altri ciclisti, tra cui Géminiani, Anquetil e Rivière, a partecipare a una gara a Ouagadougou, capitale dell’allora Alto Volta, l’attuale Burkina-Faso. Più che una gara è una sorta di passerella, un evento sportivo per celebrare l’anniversario dell’indipendenza del giovane paese africano.
Coppi sul circuito di Ouagadougou, fra tifosi in delirio, arriva secondo, dietro Jacques Anquetil. Dopo la gara il Campionissimo partecipa con altri ciclisti, tra cui Géminiani, a una battuta di caccia nella riserva di Fada N’Gourma. Quando rientra in Italia, però, Fausto si sente debole, ha dolori diffusi e febbre altissima. Il 27 dicembre viene ricoverato all’ospedale di Tortona dove i medici gli diagnosticano una forte bronchite.
COME È MORTO FAUSTO COPPI
In realtà Coppi, come Géminiani, ha contratto la malaria ma nessuno lo cura per quella patologia. Dalla Francia, intanto, la sorella di Géminiani, nel frattempo guarito grazie a forti dosi di chinino, chiama la direzione dell’ospedale di Tortona per avvisare i medici. La risposta che riceve la donna è netta: «Voi curate i vostri che ai nostri ci pensiamo noi.».
Anche Gino Bartali, venuto a sapere delle gravi condizioni dell’amico, prova a contattare il nosocomio piemontese ma invano.
Il 2 gennaio 1960 Fausto Coppi muore. I manifesti a lutto, affissi sui muri della sua Castellania, annunciano la morte del Campionissimo, a soli quarant’anni, «stroncato da un male misterioso».
I funerali che si svolgono due giorni dopo, in un gelido lunedì di inizio gennaio, vedono la partecipazione di oltre cinquantamila persone.
Il ciclista Alfredo Martini, che nella mitica tappa Cuneo-Pinerolo del 1949 era arrivato terzo staccato di quasi venti minuti, così si espresse sul Campionissimo:
«In pochissimi arrivi Fausto ha la faccia da vincitore. Sembra quasi uno sconfitto. Oppure un campione appesantito dalla consapevolezza di aver umiliato, più che battuto, tanti ciclisti. Insomma, sembrava scusarsi per essere andato così forte.»
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