“Avvolsi il colonnello in una coperta e lentamente ci avviammo per le scale, scendendo un gradino alla volta, senza fare il minimo rumore. Giunti in macchina, distesi mio marito sul sedile posteriore e lo coprii con la coperta. Era quasi l’una di notte e io sapevo di poter contare su almeno sette ore di vantaggio: fino al controllo mattutino del prigioniero”. A parlare della fuga di Kappler, in un’intervista al settimanale “Oggi” nel giugno del 2007, è Annelise Gertrude Walter Wenger, meglio nota con il suo cognome da coniugata: Annelise Kappler, la moglie di Herbert Kappler. I due, entrambi divorziati, si erano sposati nell’aprile del 1972 dopo una lunga corrispondenza epistolare. Il matrimonio civile, officiato dal vicesindaco di Gaeta, il socialista Pasqualino Polisi, era stato celebrato nel carcere della cittadina laziale, dove Kappler stava scontando la pena dell’ergastolo, comminata dal tribunale militare di Roma il 28 luglio 1948.
HERBERT KAPPLER E IL RASTRELLAMENTO AL GHETTO DI ROMA
Ma come avvenne la fuga di Kappler? Facciamo un passo indietro. Il futuro ospite del carcere di Gaeta, che fuggirà in circostanze mai del tutto chiarite, nella notte fra il 14 e il 15 agosto del 1977, nasce il 23 settembre 1907 a Soltau, piccolo paese della Bassa Sassonia, in Germania. Figlio di un impiegato comunale, Herbert Kappler, giovanissimo, entra nelle SS con la qualifica di criminologo. La storia dell’ufficiale nazista è strettamente legata all’Italia e in particolare a Roma, città nella quale giunge nel 1939, ufficialmente come consulente presso l’ambasciata tedesca, in realtà come spia con il compito di sorvegliare l’attività della polizia italiana. La Città eterna affascina il giovane ufficiale, tanto da definirla una seconda patria.
Grande studioso di storia antica, collezionista di vasi etruschi, amante delle rose e dei cani, Kappler entra definitivamente nelle grazie di Hitler nel settembre del 1943, quando, appena trentacinquenne, localizza il luogo in cui, da alcune settimane, è trattenuto Benito Mussolini. Si tratta di una suite posta al terzo piano di un albergo situato nel parco del Gran Sasso, in Abruzzo.
La scoperta del sito dove è prigioniero l’ex capo del fascismo, arrestato per volontà di re Vittorio Emanuele il 25 luglio 1943, rappresenta una autentica svolta nella carriera del giovane maggiore, anche se Kappler quell’operazione non la condivide appieno. Considera la liberazione del Duce una perdita di tempo, un inutile e pericoloso spreco di energie e, senza remore alcune, esprime queste sue valutazioni addirittura ad Himmler, sottolineando come Mussolini, seppur liberato, “non sarebbe stato capace di tornare al potere, a meno che non [si fosse appoggiato] alla forza delle baionette tedesche”. (1)
Nella Roma abbandonata dal re all’indomani dell’8 settembre e occupata dai tedeschi, Kappler, promosso Obersturmbannfuher (tenente colonnello) proprio per la liberazione di Mussolini, è uno dei dominus incontrastati anche se il suo nome rimane ancora nell’ombra per la stragrande maggioranza dei romani, almeno fino al 26 settembre 1943. Fa caldo quella domenica quando Kappler convoca nella sua residenza a villa Wolkonsky, il presidente della Comunità ebraica di Roma Ugo Foà e quello dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, Dante Almansi. Ai due Kappler intima l’ordine di consegnare, entro trentasei ore, almeno 50 chili d’oro, pena la deportazione di duecento ebrei romani verso la Germania.
Tale decisione, che scuote la comunità ebraica romana, composta da 12.000 persone che fino a quel momento, nonostante l’occupazione tedesca perduri da più di due settimane, non ha patito sofferenze, viene direttamente da Hitler. Kappler è contrario, in privato, definisce la decisione di estendere la soluzione finale della questione ebraica anche ai territori italiani e in particolare a Roma, un altro esempio della “madornale stupidità politica” di persone che non capiscono nulla delle situazioni locali.
Inoltre per Kappler perseguitare gli ebrei romani potrebbe avere conseguenze impreviste, fra cui il rischio della sollevazione di una parte della popolazione. Sono, tuttavia, semplici considerazioni. Gli ordini sono ben altra cosa e devono essere eseguiti, specie quando provengono direttamente da Berlino. L’oro viene consegnato, è anche più di quanto richiesto. Vengono raccolti ben 59 chili ma non bastano a placare i tedeschi. Il 16 ottobre 1943 milleduecentocinquantanove ebrei vengono deportati in Germania. Dall’inferno dei campi di sterminio torneranno soltanto in sedici, quindici uomini e una sola donna: Settimia Spizzichino.
L’ECCIDIO DELLE FOSSE ARDEATINE E IL RASTRELLAMENTO DEL QUADRARO
Mesi dopo il nome di Kappler è nuovamente sinonimo di un incubo. Con la collaborazione del questore di Roma Caruso, stila l’elenco degli italiani da giustiziare per “vendicare” l’uccisione di trentatré soldati tedeschi, avvenuta per mano dei partigiani italiani, in un attentato in via Rasella, a pochi passi da Piazza Barberini. Sono trecentotrentacinque gli italiani assassinati. Nell’orribile calcolo vengono aggiunte cinque persone in più rispetto ai prestabiliti 330, dieci italiani per ogni tedesco ucciso. Tutti vengono trucidati all’interno di alcune cave sulla via Ardeatina, vicino alle catacombe di San Callisto.
Poche settimane dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine, Kappler si rende ancora protagonista di un’altra pagina nera nella storia della Roma occupata: il rastrellamento del Quadraro. Il 17 aprile 1944 l’ufficiale nazista, obbedendo all’ordine di Kesserling di eseguire l’Operazione Balena, fa arrestare in piena notte, nel popoloso quartiere del Quadraro alla periferia di Roma, quasi mille persone, tutti uomini con un’età compresa fra i sedici e cinquantacinque anni. Dai diversi campi di concentramento tedeschi e polacchi, nei quali furono deportati, torneranno in pochissimi.
IL PROCESSO A KAPPLER
Herbert Kappler
Alla fine della guerra Herbert Kappler viene arrestato dalle truppe alleate, trasferito a Roma e condotto nel carcere di Regina Coeli. Il processo si apre dieci mesi dopo, nel maggio del 1948, sempre nella capitale. Con lui vengono messi sotto accusa due suoi ufficiali e tre sottoufficiali. Manca il capitano Priebke che, dopo essere fuggito da un campo di prigionieri di guerra a Rimini, ha fatto perdere le sue tracce, probabilmente nascondendosi come molti altri gerarchi nazisti, in Sudamerica.
Kappler, come gli altri imputati, è accusato del massacro delle Fosse Ardeatine di cui il colonnello è considerato l’organizzatore. Sulla sua testa pende anche una seconda accusa, quella di aver estorto cinquanta chili d’oro agli ebrei romani. L’ex colonnello delle SS si difende dal crimine delle Ardeatine con forza e determinazione. Respinge ogni responsabilità diretta, sottolineando come abbia soltanto eseguito degli ordini. Sostiene anche l’illegittimità dell’attentato gappista di via Rasella, al contrario della rappresaglia nazista che ritiene del tutto legale, perfettamente logica. La linea difensiva di Kappler non è certo una novità. Prima di lui a Norimberga altri imputati nazisti hanno cercato di evitare la condanna appellandosi alla cieca obbedienza a ordini superiori.
Ma come per tutti gli altri accusati, anche per Kappler tale giustificazione non convince i giudici. L’ufficiale viene condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine e a quindici anni per l’estorsione commessa ai danni della comunità ebraica. Dopo una breve detenzione nel carcere romano di Forte Boccea, Kappler viene trasferito nel penitenziario di Gaeta, all’interno del medievale Castello Angioino dove, quasi un secolo prima, era stato “ospitato” Giuseppe Mazzini.
La prigionia per il responsabile della morte di 335 innocenti non è particolarmente pesante. Kappler, infatti, beneficia delle norme previste dalla Convenzione di Ginevra riguardanti i prigionieri di guerra. Gode di un alloggio piuttosto ampio, con tanto di piccolo acquario. Può ricevere visite, corrispondenza e pacchi. Inoltre, consuma un vitto adeguato, una prigionia molto diversa da quella che anni addietro, avevano subito molti detenuti fatti arrestare per ordine dello stesso Kappler.
Il 12 marzo 1976, l’allora ministro Arnaldo Forlani, sospende formalmente la condanna emessa nei confronti di Kappler. La firma sul provvedimento viene apposta dall’esponente democristiano in presenza anche dell’ambasciatore tedesco in Italia. D’altra parte, da alcuni anni dalla Germania arrivano richieste bipartisan volte a concedere la grazia a Kappler che, però, vengono ogni volta respinte al mittente.
L’inaspettata decisione ministeriale è legata alle condizioni di salute del detenuto eccellente di Gaeta. L’ex ufficiale ha un tumore al colon e necessita di cure adeguate. Per questo viene trasferito presso l’ospedale militare del Celio, a Roma. Nel nosocomio Kappler fa il suo ingresso di fatto da uomo libero, visto che, al provvedimento firmato da Forlani, è seguita l’ordinanza di scarcerazione del prigioniero emessa dal Procuratore Generale militare. Tale decisione scatena la dura reazione di ampi settori della società con la conseguenza che la disposizione del giudice militare viene revocata. Ma di fatto Kappler al Celio è poco più che un paziente. Inizia così l’ultima pagina della vita del colonnello nazista, la più misteriosa, quella che porterà alla fuga di Kappler.
LA FUGA DI KAPPLER
Fa caldo quel 15 agosto 1977 quando suor Barbara entra nella stanza di Kappler per le quotidiane pulizie ma l’ufficiale nazista non c’è. Sulle prime lo cerca in giardino ma del malato non c’è traccia. Immediatamente riferisce al responsabile del nosocomio capitolino l’incredibile sparizione ma, solo alle 10.45, mentre gli italiani si godono la festa di Ferragosto sotto il solleone, scattano le ricerche.
A quell’ora, però, Kappler, è già molto lontano. Si trova al sicuro nella casa di Soltau, al civico 6 di Wilhelmstrasse e da lì, anche volendo, nessuno lo può portare via. L’articolo 16 della Costituzione della Germania dell’Ovest vieta l’estradizione di qualsiasi cittadino tedesco. Cosa succede nella notte fra il 14 e il 15 agosto nell’ospedale del Celio rimane un mistero.
Prima delle dichiarazioni del giugno 2007 al settimanale “Oggi”, la moglie di Kappler aveva fornito delle circostanze diverse, a dir poco picaresche. Aveva affermato di aver chiuso il marito, molto dimagrito a causa della malattia, dentro una valigia che poi aveva calato grazie a una carrucola e a una fune nel giardino sottostante. Dopo di che aveva caricato il pesante bagaglio nel baule di una Fiat 132, lasciando indisturbata la struttura ospedaliera.
Pochi chilometri dopo, abbandonata l’auto, era salita con il marito su un’altra vettura, una Opel Commodore, guidata dal figlio, Ekerard Walther. I tre, del tutto indisturbati, avevano attraversato il confine del Brennero arrivando a destinazione, in Germania. Un racconto decisamente inverosimile, anche se, nella stanza di Kappler, vengono ritrovati pezzi di corda e altre tracce, probabilmente lasciate appositamente da frau Annelise per avvalorare il suo rocambolesco racconto.
Quando la notizia della fuga di Kappler è nota a tutti, villeggianti accaldati compresi, inizia il solito, inevitabile balletto di accuse con associato corollario di giustificazioni. I primi ad essere chiamati in causa sono i due carabinieri di guardia quella notte. Sono l’appuntato Luigi Falso e il carabiniere Oronzo Pavone. Questi si giustificano con motivazioni che sembrano surreali ma che sono assolutamente vere. Precisano che non esiste un ordine scritto di sorveglianza della stanza dove si trova l’ex ufficiale nazista. Aggiungono, fra lo stupore generale, che in quella stanza non potrebbero neppure entrare. Anzi non dovrebbero neanche affacciarsi, tanto che giorni prima un carabiniere solo per averlo fatto, ha subito dal maresciallo un vibrante rimprovero.
In realtà da quando Kappler si trova al Celio nella sua stanza entrano in molti, forse in troppi. Nelle ore successive cadono le prime teste. Il Comandante Generale dei carabinieri Mino trasferisce ad altre sedi diversi ufficiali più o meno coinvolti nella vicenda, fra cui Norberto Capozzella, comandante della Compagnia Celio da cui dipendono Falso e Pavone. Ma la testa più importante a saltare è quella del ministro democristiano della Difesa Vito Lattanzio, subentrato a Forlani nel nuovo governo Andreotti. L’onorevole viene attaccato da più parti, specie dai radicali di Marco Pannella che lo accusano di coprire il ruolo dei Servizi segreti nella singolare fuga di Kappler. Anni dopo il radicale Mauro Mellini, in un’intervista al Giornale, parlò di accordo sottobanco fra DC e PCI per “liberare” Kappler, un gesto necessario per venire incontro alla volontà tedesca.
Il montare della protesta per la fuga di Kappler spinge Lattanzio a rassegnare le dimissioni. Quel gesto, tuttavia, viene premiato. Il presidente del consiglio Giulio Andreotti pochi giorni dopo gli affida l’interim della Marina mercantile. Trent’anni dopo quella incredibile fuga Vito Lattanzio farà qualche timida ammissione. Confesserà di non essere mai riuscito a saper con esattezza se fosse stato Moro, Andreotti o Forlani a dare l’ordine di allentare la sorveglianza su Kappler. “Ricordo solo che in quelle ore il governo fu preso dal panico e io pagai per placare l’ira popolare”.
Si parlò, nel corso degli anni, del coinvolgimento dei servizi segreti, del gruppo Odessa (la famigerata organizzazione che dalla fine della guerra aveva messo in salvo decine di nazisti fra cui Josef Mengele e Adolf Eichmann), ma la verità, a distanza di quarantuno anni dalla fuga di Kappler, rimane ancora avvolta nel mistero e di quella notte resta solo il frinire infinito di mille cicale.
(1) R. Katz, Roma città aperta. Settembre 1943-Giugno 1944, il Saggiatore, Milano 2009, p. 77.
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