Domenica 29 luglio 1900, Monza. Umberto I di Savoia, re d’Italia dal 9 gennaio 1878, quando è succeduto al padre Vittorio Emanuele II, è appena sceso dai gradini del palco di un concorso ginnico. Sono le 22.30, il re sale sulla prima delle due carrozze regali e da questa si sporge per salutare la folla di atleti che si è accalcata intorno alla carrozza. Il sovrano ringrazia più volte quando dalla ressa un uomo, Gaetano Bresci, spara tre colpi di rivoltella contro il re. La confusione è tanta, i cavalli si impennano e la carrozza muove veloce verso la reggia. Umberto cade in avanti, contro le ginocchia del generale Avogadro di Quinto che, spaventato, gli chiede se sia ferito. “Non credo sia niente”, risponde il sovrano che pochi minuti dopo spira. La regina Margherita, quella a cui anni prima un pizzaiolo napoletano aveva dedicato la sua creazione più celebre, alla notizia della morte del marito rimane pietrificata.
I PRECEDENTI TENTATIVI DI ATTENTATO AL RE UMBERTO I
Nelle ore precedenti l’attentato al re, forse presentendo qualcosa, la regina aveva cercato, invano, di dissuadere il marito dall’andare a quel concorso. “Sono giovani vivaci”, gli aveva detto, “lascia che si divertano fra di loro”. Umberto I, ovviamente, non ascoltò le raccomandazioni della moglie, alla quale rispose che non avrebbe mai mancato a una promessa data. Non era la prima volta che veniva fatto oggetto di un tentativo di assassinio. Anni prima, a Napoli, nel 1878, ci aveva provato il ventenne Giovanni Passannante, ma il giovane anarchico, armato di coltello aveva mancato l’augusta persona, colpendo, invece, la gamba del primo ministro Cairoli, accorso per difendere il sovrano.
Nel 1897, il 22 aprile, tre anni prima dei fatti di Monza, ad attentare alla vita di Umberto I era stato Pietro Acciarito che a Roma, a Porta San Pancrazio, aveva provato ad accoltellare il re, mancando, però, totalmente il bersaglio. Questi tentativi erano stati derubricati da Umberto come “gli incerti del mestiere del re” ma avevano inevitabilmente creato il mito del sovrano buono e immortale. Mentre la carrozza reale corre rapida verso la reggia, l’assassino viene catturato da una folla inferocita. Si tratta di un giovane, vestito, come scriverà il giorno dopo il Corriere della Sera, “come un operaio”.
CHI ERA GAETANO BRESCI?
A uccidere il re da una distanza ravvicinata con tre colpi di pistola, che centrano tutti Umberto I, è l’anarchico Gaetano Bresci, nato l’11 novembre 1869, lo stesso giorno in cui era venuto alla luce a Napoli il futuro re Vittorio Emanuele III. Gaetano Bresci, che la mamma Maddalena avrebbe voluto chiamare Vittorio Emanuele proprio per la fortunatissima coincidenza, è un operaio toscano, nativo di Coiano, un paesino di poche case alla periferia di Prato. Nel dicembre del 1897, non ancora ventenne, Bresci lascia l’Italia per gli Stati Uniti, sperando, così, di fuggire da un destino segnato e, forse, dalle responsabilità per una imprevista paternità. Si trasferisce a Paterson, nel New Jersey, una città di centomila abitanti, un disordinato arcipelago di case cresciuto intorno ai numerosissimi stabilimenti tessili in cui si lavora quasi tutta la seta grezza degli Stati Uniti.
L’illustrazione dell’attentato al re Umberto I disegnata da Achille Beltrame per la copertina della Domenica del Corriere
Nella città americana Bresci entra in contatto con i movimenti anarchici. Paterson, come ricorda lo storico Arrigo Petacco, sul finire dell’Ottocento, è «la meta preferita di tutti quei “sovversivi” italiani che furono costretti a lasciare il loro paese per sfuggire all’ondata di repressione provocata dalle famose “leggi crispine”». Nella “capitale della seta” Bresci, come altri italiani, viene a sapere dei drammatici fatti occorsi nel maggio 1898 nel capoluogo lombardo. «Quando a Paterson lessi dei fatti di Milano dove si adoperò anche il cannone, piansi di rabbia e mi preparai alla vendetta. Pensai al re che premiava coloro che avevano compiuto le stragi e mi convinsi che meritava la morte.»
Bresci si riferisce alla sanguinosa domenica dell’8 maggio 1898, quando il generale Fiorenzo Bava Beccaris, giunto in forze nel capoluogo lombardo, ordinò ai suoi uomini di sparare sulla folla inerme, scesa in piazza per protestare per il carovita, per la cronica mancanza di lavoro, per condizioni di vita sempre più disperate pure nella civile Milano. Sul selciato rimasero più di cento morti e i feriti sfiorarono le cinquecento unità. Meno di un mese dopo la nostra Bloody Sunday, il generale veniva insignito dalle ferme mani di re Umberto I della Croce di Grand’Ufficiale Militare di Savoia, una delle più alte onorificenze reali, un premio che fece sussultare per lo sdegno in molti, non solo Bresci.
Da quel giorno Gaetano Bresci ha solo uno scopo, vendicare quei morti e punire quel re, a suo avviso, responsabile di quell’eccidio. Nel febbraio del 1900 annuncia alla moglie Sophie di voler partire per l’Italia. Non le riferisce le reali intenzioni, le dice solamente che ha il desiderio di rivedere i suoi parenti. Intanto inizia segretamente a esercitarsi con la pistola che ha regolarmente acquistato nel negozio di H. M. Hash, all’angolo fra Market street e Straight street. Si tratta di una calibro 9 a cinque colpi, pagata 7 dollari. Dopo mesi di allenamento Bresci è diventato abilissimo a sparare, ormai non resta che partire.
Il 7 maggio, dopo un regolare preavviso di due settimane, lascia la filanda presso cui lavora, ritira i suoi risparmi, ammontanti a 162 dollari e 40 centesimi e acquista il biglietto della nave che lo porterà in Europa e che salpa da New York all’alba del 17 maggio, destinazione Italia, approdo storia. La nave, dopo alcuni giorni di viaggio, attracca al porto francese di Le Havre e da qui Bresci con altri amici, si dirige alla volta di Parigi. Nella capitale francese trascorre ore liete, ma quel viaggio non è una vacanza e il giovane operaio lo sa bene. Il 24 luglio 1900 arriva a Milano dopo aver soggiornato a Genova e aver trascorso alcuni giorni sereni a Coiano, il paese natale da cui era partito e che aveva ritrovato esattamente come aveva lasciato.
Nella città lombarda prende una camera in affitto, 1.50 lire a notte. Vi rimane tre giorni poi la mattina del 27 luglio parte alla volta di Monza, dove dal 21 dello stesso mese si trova re Umberto per trascorrere qualche giorno di vacanza. Mancano due giorni all’attentato, una manciata di ore che dividono Bresci dalla storia ma anche dalla sua definitiva condanna. Dopo essere stato arrestato, esattamente un mese dopo, il 29 agosto, si aprono le porte del tribunale.
GAETANO BRESCI, IL PROCESSO E IL CARCERE DI SANTO STEFANO
Il processo a Gaetano Bresci che si apre in un’accaldata Milano, non appurerà tutto. Molte ombre rimarranno, a cominciare da quelle riguardanti presunti complici che collaborarono con Bresci. Uno dei più convinti sostenitori della tesi del complotto è Joe Petrosino, il famoso poliziotto italoamericano che la mafia ucciderà nel 1909. Per lui è impossibile che il giovane anarchico abbia potuto organizzare tutto da solo. Ma è un’accusa che Bresci nel corso del processo respinge sempre con forza, ribadendo di aver agito da solo: “Il fatto l’ho compiuto da me, senza complici”, sottolineando di aver deciso di uccidere il re perché questi, oltre a firmare i decreti di stato d’assedio in quei terribili giorni di maggio 1898, aveva anche premiato “gli scellerati che avevano compiuto le stragi”.
L’interno del carcere di Santo Stefano a Ventotene
Nonostante la strenua arringa dell’avvocato Francesco Saverio Merlino (l’assassinio di Monza aveva inizialmente chiesto come difensore il deputato socialista Filippo Turati ma questi, dopo averci pensato, declinò), Gaetano Bresci viene condannato all’ergastolo. Dopo alcuni mesi trascorsi nel carcere di Milano, nel gennaio del 1901 Bresci viene trasferito nel carcere di Santo Stefano, uno scoglio sperso nel mar Tirreno, davanti Ventotene. Vi sbarca il 23 gennaio, in un mattino rigido. Ha le catene ai piedi, gli occhi assonnati e la certezza che da lì non andrà più via. Il 22 maggio 1901, a soli quattro mesi dal suo arrivo, Bresci viene trovato cadavere nella sua cella. A trovarlo alle 14:55 è una delle guardie carcerarie. Il medico legale nella breve perizia riporta come causa della morte quella del soffocamento. A provocare la fatale asfissia è stato un asciugamano con il quale si sarebbe impiccato. Suicidio dunque, una versione, però, su cui più di qualcuno avanza dei dubbi. In particolare uno degli “ospiti” di Santo Stefano, l’ergastolano Croce, parla senza mezzi termini di suicidio mascherato. “Fu detto che si è impiccato; ma come avesse potuto impiccarsi con le catene ai piedi e una sorveglianza continua (molto peggiore di quella che avevamo noi) e senza fare far rumore (quando bastava un piccolo movimento perché le catene emettessero il loro suono caratteristico) è quello che nessuno ha mai capito”.
VITTORIO EMANUELE III E QUELL’IMPROVVISA SUCCESSIONE AL TRONO D’ITALIA
Mentre l’autore del regale assassinio, nelle concitate ore del 29 luglio, viene arrestato e interrogato e la regina piange la morte del marito, il principe ereditario Vittorio Emanuele si trova con la moglie Elena sul panfilo Yela che da giorni solca il limpido mare di Calabria, facendo ritorno da una crociera in Grecia. Solo il 31 luglio Vittorio Emanuele viene a conoscenza della morte del padre, è il generale Ugo Brusati ad avvisarlo, interpretando i funesti significati delle bandiere issate a Capo le Armi. Il viaggio nel mare greco finisce lì, ben altre incombenze spettano al nuovo re che ama la tranquillità, collezionare le monete e leggere libri di storia. Ora l’adorata storia lo ha scritturato per un ruolo da protagonista che, se Vittorio avesse potuto avrebbe evitato, rimanendo dietro le quinte per sbirciare il corso degli eventi.
Vittorio Emanuele III
Pochi giorni dopo il nuovo, piccolo re, terrà il suo primo discorso davanti alle Camere. Parole per nulla scontate, che susciteranno consensi da parte di tutte le parti politiche. “Signori Senatori, Signori Deputati! Il mio primo pensiero è per il Mio Popolo, ed è pensiero di amore e di gratitudine. Il Popolo che ha pianto sul feretro del Suo Re; che affettuoso e fidente si è stretto attorno alla Mia Persona, ha dimostrato quali salde radici abbia nel Paese la Monarchia liberale. Da questo plebiscito di dolore traggo i migliori auspici del Mio Regno. La nota nobile e pietosa, che sgorgò spontanea dall’anima della Nazione all’annunzio del tragico evento, mi dice che vibra ancora nel cuore degli Italiani la voce del patriottismo, che inspirò in ogni tempo miracoli di valore. Sono orgoglioso di poterla raccogliere”.
Quel giorno inizia sotto i migliori auspici il regno di Vittorio Emanuele III. Quel giorno verrà scritta la prima pagina di una storia lunghissima, drammatica, tutta da raccontare.
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