Il ghetto di Roma non fu il primo ad essere creato in Italia. Questo triste primato, non certo onorevole, spettò, infatti, a Venezia. Fu nella città dei Dogi che si istituì per la prima volta, il 29 marzo 1516, un luogo destinato ad “ospitare” gli Ebrei. Il Senato della Serenissima deliberò che gli Ebrei di diverse contrade cittadine si trasferissero in quell’area conosciuta dai veneziani come il Ghetto, da geto de rame, cioè l’abitudine di buttare in quel sito disabitato gli scarti di rame delle vicine fonderie. Quel nome, ghetto, divenne, purtroppo, di lì a poco, sinonimo di recinto, di area in cui gli Ebrei di diverse città europee saranno costretti a vivere, rispettando rigide regole imposte dagli statuti cittadini.
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GHETTO DI ROMA, LE ORIGINI
Ghetto di Roma: a sinistra il Tempietto del Carmelo, dove si tenevano le “prediche coatte”; a destra il Portico di Ottavia
Roma, la città dei Papi, si uniformò ben presto al diktat veneziano. Il 15 luglio 1555 papa Paolo IV (al secolo Gian Pietro Carafa) emanò la bolla Cum nimis absurdum con la quale, di fatto, vennero istituiti nel territorio pontificio diversi ghetti. Eletto al soglio pontificio il 23 maggio 1555, all’età di settantanove anni, il cardinal Gian Pietro Carafa – fermo sostenitore delle teorie teocratiche care a Innocenzo III a partire dalla cerimonia dell’incoronazione, avvenuta tre giorni dopo il conclave con uno sfarzo che era stato dimenticato – mostrò come il suo pontificato non sarebbe stato certamente all’insegna del riformismo e del liberalismo.
Il nuovo pontefice, che ebbe anche il “merito” di aver creato l’Index Librorum Prohibitorum (1559), soffocò in un attimo gli aneliti di innovazione che il suo predecessore Marcello II – il cui pontificato durò solo venti giorni e per la cui morte improvvisa il musicista Pier Luigi da Palestrina aveva composto la bellissima “Messa di Papa Marcello” – aveva mostrato.
Con la bolla Cum nimis absurdum, un documento che già dall’incipit, palesava ineluttabilmente il suo carattere antigiudaico (“Poiché è oltremodo assurdo e disdicevole che gli Ebrei, che solo la propria colpa sottomise alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di esser protetti dall’amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo ai cristiani, mostrare tale ingratitudine verso di questi…”), Paolo IV stabiliva rigide norme per gli Ebrei residenti nello Stato pontificio, fra cui l’obbligo di indossare in modo chiaro un distintivo di colore grigio, quello di svolgere solo mestieri quali quello di stracciarolo e robivecchi, quello di non avere servitù cristiana, di non divertirsi, di non familiarizzare con i cristiani e, per i medici ebrei, il divieto assoluto di curare i cristiani. Divieto, quest’ultimo, che, tuttavia, vista l’arcinota bravura di tali cerusici, veniva spesso e abilmente disatteso.
Fra i diversi obblighi – non dimentichiamo anche la vendita forzata di tutte le proprietà – quello probabilmente più pesante da rispettare, per gli inevitabili effetti che avrebbe inevitabilmente determinato, fu il vincolo per tutti gli Ebrei pontifici di abitare in un luogo fisicamente separato dalle abitazioni dei cristiani, che, di fatto, si concretizzò nella nascita dei Serragli.
A Roma il luogo destinato a rinchiudere gli Ebrei capitolini fu localizzato nel rione Sant’Angelo, una scelta dettata da motivazioni pratiche, visto che in quell’area già da molto tempo, liberamente, abitava la maggioranza dei Giudei romani.
GLI EBREI NEL GHETTO DELLA CITTÀ ETERNA
Ghetto di Roma. A sinistra la Sinagoga, a destra la Chiesa di San Gregorio della Divina Pietà dove si tenevano le prediche obbligatorie imposte agli ebrei, durante il periodo dello Stato Pontificio
La presenza nella città eterna degli Ebrei risale al II secolo a.C. e per molto tempo la loro presenza non fu mai osteggiata. Si pensi, ad esempio, che Cesare, per rispettare il precetto del sabato e la rituale alimentazione che li contraddistinguevano, li esentò dall’obbligo del servizio militare. In quel periodo il luogo scelto dalla maggioranza degli Ebrei fu quello di Trastevere e qui vi rimasero per diversi secoli. Intorno al 1100, però, la comunità israelitica, in virtù di esigenze di carattere professionale, iniziò ad abbandonare il rione trasteverino per la più comoda Isola tiberina e le aree site nell’ansa a sinistra del Tevere. Proprio allora Ponte Fabricio, noto anche come Ponte Quattro Capi dalla presenza di due erme quadriforme, iniziò a chiamarsi, per la presenza degli Ebrei, Pons Judaeorum.
L’area, compresa tra il fiume e Sant’Angelo in Peschiera, tra San Tommaso a Monte Cenci e San Gregorio al Ponte Quattro Capi (oggi meglio conosciuta come San Gregorio della Divina Pietà), venne ben presto cinta da mura che prevedevano solo tre porte, una su piazza Giudia, un’altra nei pressi di Sant’Angelo in Peschiera e la terza, infine, presso San Gregorio. Poco più di un ettaro di terreno che, oggettivamente già insufficiente per gli Ebrei residenti, diventava del tutto inadeguato ad ospitare tutta la popolazione ebraica della capitale, ma questo al Carafa poco importava.
La morte di Paolo IV, avvenuta il 18 agosto 1559 e salutata da numerose e “amorevoli” pasquinate che dimostravano quanto l’odio per il pontefice avesse raggiunto fra i romani vette insopportabili (un papa che “ruinò la chiesa e il popolo, uomini e cielo offese”), non mise fine al serraglio romano che, anzi, continuò ad esistere con indicibili difficoltà per i suoi abitanti. La vita in quel lembo di territorio, oltretutto penalizzato oltremodo dalla vicinanza del Tevere con le sue disastrose e periodiche piene (all’epoca i muraglioni erano inesistenti) fu fin da subito difficile, se non addirittura impossibile. Alle difficoltà quotidiane, si imposero altre come quelle dettate dalle cosiddette prediche coatte.
L’introduzione di tali pratiche affondava le radici nella Spagna di metà Duecento, allorché i frati domenicani avevano iniziato a praticarla e fu istituzionalizzata nel 1278 da papa Niccolo III con la bolla Vineam Sorec con la quale si autorizzava gli appartenenti agli ordini mendicanti (domenicani e francescani) a tenere predicazioni persuasive destinate ad “illuminare le menti ottenebrate” degli Ebrei “istruendoli sulla dottrina evangelica con sermoni, salutari ammonimenti e con ragionevole risolutezza”.
Queste prediche venivano a Roma tenute il sabato, il giorno di festa per gli Ebrei, in diversi luoghi del rione Sant’Angelo con evidente imbarazzo da parte dei seguaci della religione abramitica, che venivano radunati negli spazi antistanti la chiesa di San Gregorio o, in seguito alla sua costruzione nel 1759 per volontà di una ricca famiglia romana di droghieri, davanti al Tempietto del Carmelo in piazza Costaguti.
Ghetto di Roma, scorcio di un’abitazione. Al centro la lapide commemorativa del rastrellamento degli ebrei del 16 ottobre 1943
Il ghetto di Roma, dopo i brevi periodi di dominazione francese, fu definitivamente “aperto” sul finire dell’Ottocento, all’indomani della Breccia di Porta Pia. Nonostante ciò molti Ebrei decisero per diversi motivi di rimanere a vivere nel rione che conobbe, nel periodo dell’occupazione nazista della capitale, un’altra triste e vergognosa pagina. Il 16 ottobre 1943, il sabato nero, alle 5.15 oltre 300 soldati delle SS rastrellarono un’assonnata Roma, prelevando 1.024 Ebrei, principalmente dall’antico ghetto, questo nonostante le rassicurazioni tedesche pervenute all’indomani della consegna di 50 chili d’oro da parte degli Ebrei romani, assurdo pegno per “comprare” la loro salvezza.
Di quegli oltre mille Ebrei, fra cui oltre duecento bambini, solo 16 tornarono dall’inferno dei campi di sterminio e fra questi una sola donna, Settimia Spizzichino.
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