‘Costui crede di sapere mentre non sa; io almeno non so, ma non credo di sapere‘, questo è uno dei brani più famosi dell’Apologia di Socrate e di tutta la filosofia greca, un pensiero di umiltà e semplicità che ha percorso più di due millenni e che è giunto fino a noi come ammonimento ed insegnamento contro la superbia umana. La frase fu pronunciata da Socrate durante il processo celebrato contro di lui perché accusato di corrompere i giovani ed incolpato di non credere nelle divinità della città.
L’INSEGNAMENTO DI SOCRATE CONTRO LA SUPERBIA UMANA
Lo sviluppo e la storia del processo a Socrate ce li racconta un suo discepolo, Platone, che tra il 399 a.C ed il 388 a.C., scrisse una delle più importanti opere filosofiche dell’antichità. Si tratta di un appassionato monologo, un’autodifesa incalzante che, nonostante la strenua arringa, portò Socrate alla condanna a morte. Durante il suo discorso ai giudici, l’imputato raccontò l’origine dell’odio che si era scatenato in città nei suoi confronti. La Pizia, la sacerdotessa di Apollo che forniva responsi, interrogata da Cherefonte, aveva rivelato al giovane discepolo di Socrate che il filosofo ateniese era l’uomo più sapiente. Questi, sapendo che il dio non poteva mentire ma, essendo consapevole della propria ignoranza, si mise alla ricerca di qualcuno migliore di lui, interrogando coloro che avevano fama di essere sapienti. Iniziò così una peregrinazione che lo portò ad incontrare politici, poeti ed artigiani; fu una ricerca ossessiva, un’indagine che alla fine non consentì al filosofo ateniese di trovare, nonostante i suoi sforzi, una persona più saggia di lui. E Socrate si arrese, convincendosi che la sacerdotessa
‘ha voluto servirsi del mio nome a mo’ di esempio, come per dire: “O uomini, sapientissimo fra di voi è colui che, come Socrate, sa che la propria sapienza è nulla‘ [1].
Il nocciolo della questione, chiariva il filosofo ateniese, era racchiuso tutto nell’umiltà. Era questa virtù ad elevare Socrate al di sopra degli altri. La conoscenza, infatti, è appannaggio solo degli dèi e gli uomini non possono ritenersi alla stessa altezza degli esseri celesti. La saggezza umana, dunque, deve necessariamente passare attraverso la profonda consapevolezza della propria ignoranza e della propria imperfezione perché la verità assoluta è una sola: nessun essere umano può essere uguale ad un dio. L’umiltà (dal latino humus = terra) allora diventa la sola virtù fondamentale che è indice di sapienza nell’uomo. E per questo motivo, si può tranquillamente asserire che la consapevolezza della propria ignoranza è la cosa che ha innalzato Socrate una spanna sopra a tutti coloro che ritenevano di conoscere tutto.
La caduta di Icaro
Chi erano questi uomini che si credevano migliori degli altri, pur non essendolo? Quale tremendo morbo o malattia affliggeva queste persone così tronfie e superbe tanto da essere considerate dagli dèi poco illuminate e poco giudiziose? I Greci utilizzavano la parola ὕβϱις (hybris) per definire la tracotanza e la superbia che affliggeva questi individui. L’uomo che è accecato dal proprio ego e che si sopravvaluta, spesso prevaricando gli altri ed infangandoli, pecca di orgoglio e proprio per tale motivo a lui deve essere inflitta una pena. Poiché ha violato la legge umiliando gli altri e poiché si è ritenuta pari agli dèi, la persona altezzosa deve essere condannata e punita dalla legge terrena o da quella divina.
Coloro i quali rifiutano di riconoscere i poteri degli dèi sono degli empi ed il loro difetto è la hybris, quell’arroganza sfacciata che si palesa quando si pretende di oltrepassare i limiti imposti dalla natura, dal destino o dalla legge. Ma chi confonde gli essere umani? Chi li abbaglia? È Ate, la figlia maggiore di Zeus che induce in errore gli uomini e li fa peccare in tracotanza, è lei che si aggira nell’aria, che acceca, che ottenebra la mente degli uomini, che
‘ha i piedi molli; perciò non sul suol si muove, ma tra le teste degli uomini avanza’[2].
Ma sul versante opposto si muove Dike, la Giustizia, un’altra figlia di Zeus che invece cerca di rimettere a posto le cose e che prima o poi arriva inesorabile a colpire gli uomini empi, a rimettere equilibrio nelle situazioni.
‘Si muove lenta, ma non fallisce, la forza degli dèi’ [3]
canta il coro delle Baccanti, riferendosi al castigo divino che punisce il peccato di presunzione. E la mitologia ed il teatro greco sono pieni di esempi che servono da monito agli uomini. In un pantheon greco in cui anche gli esseri divini erano sottoposti all’immodificabile ed ineluttabile destino, in un mondo in cui le tre Moire tessevano il filo del fato di ciascun uomo scegliendone la lunghezza ed il momento in cui reciderlo, è comprensibile la sorte che dovesse toccare a tutti quegli esseri umani che cercavano di sfidare il proprio destino nell’intento di cambiarlo.
EDIPO, TANTALO, SISIFO, MARSIA: DAL MITO IL MONITO CONTRO LA HYBRIS
La storia di Edipo ne è un esempio conosciuto in tutto il mondo. Parliamo di un uomo che ha cercato di sfuggire fino all’ultimo all’orrore che gli è stato predetto, a quell’oracolo che gli aveva preannunciato che sarebbe divenuto non solo un parricida ma anche un figlio incestuoso e che, alla fine di tutto, ha visto compiersi il suo tragico destino che lo ha condotto all‘uccisione del padre e all’incesto della madre. Quest’uomo, abbandonato appena nato e alla ricerca della sua identità, ha conosciuto le proprie origini nell’espressione massima della tragedia quando, seppur ignaro ed incolpevole di quanto accaduto, ha compreso la terribile realtà.
E non c’è solo lui nella tragedia della finitezza umana. Ricordiamo, ad esempio, Tantalo che aveva avuto il privilegio di poter partecipare al banchetto divino, di condividere del tempo con il pantheon greco ma che commise degli atti contrari all’etica, violando le regole dell’ospitalità. La sua colpa fu quella di avere offerto a loro un cibo terribile: le carni di suo figlio Pelope. Ma secondo un’altra versione del mito, Tantalo aveva addirittura rubato il nettare e l’ambrosia agli dèi e per questo la punizione di Zeus fu immediata. Non si poteva essere così superbi da poter pensare di ingannare gli esseri celesti in questa maniera arrogante. Per questo motivo Tantalo venne ucciso all’istante e scagliato nell’Ade dove visse immerso in una palude sino al collo e quando, rovesciando la testa, cercava di bere l’acqua scompariva mentre quando cercava di mangiare, allungando la mano per cogliere i frutti che erano sopra un ramo, il vento spostava la fronda, facendolo rimanere a becco asciutto.
‘Ogni volta che il vecchio voleva piegarsi avido a bere, tutte le volte l’acqua spariva, inghiottita: intorno ai suoi piedi nereggiava la terra: la prosciugava un dio [4].
Anche Sisifo finì nell’Ade perché aveva svelato agli uomini i segreti degli dèi e la sua punizione perpetua fu quella di portare ininterrottamente un masso su un monte che, una volta collocato sulla cima, rotolava in giù obbligando il pover’uomo ad un moto perpetuo.
Statua di Marsia – Centrale Montemartini
Si può citare poi la punizione che venne riservata a Marsia, un satiro così orgoglioso della sua abilità nel suonare il flauto che accettò la sfida del divino Apollo, pensando di poterlo battere. Ovidio ci ricorda a cosa dovette andare incontro quando fu appeso ad un albero e scorticato vivo:
‘Mi pento’ gridava, ‘ahi, ahi, il flauto non vale tanto.’ E mentre urlava la pelle gli era strappata per tutto il corpo, che era tutto una ferita [5].
E poi il Re Mida, sovrano dei Frigi, che aveva la mente proiettata sulla ricchezza e sull’avidità. Quando Dioniso lo sollecitò ad esprimere un desiderio per ringraziarlo di avere ritrovato il suo tutore Sileno, Mida chiese di poter trasformare tutto ciò che toccava in oro. Si accorse ben presto dell’errore commesso perché ogni volta che toccava il cibo non poteva mangiarlo. In fondo, aveva voluto misurarsi con le divinità e superare i limiti umani e per questo doveva essere punito:
‘Ma mentre esulta, i servi preparano la mensa imbandita, con abbondanza di pane. Ma adesso, appena la sua mano toccava i doni di Cerere, i doni di Cerere si irrigidivano’ [6].
La letteratura e la mitologia greca sono pieni di esempi di questo genere, di uomini e di donne che hanno tentato di superare il limite che gli dèi hanno stabilito per loro: Icaro che osò volare troppo in alto ed Aracne che fu trasformata in ragno, dopo avere sfidato Atena in una gara di tessitura.
La lezione dei classici è impietosa e vale come memento per tutti coloro che si ritengono migliori degli altri: nessun uomo può avvicinarsi ed eguagliare un dio.
Per approfondire:
[1] Platone Apologia di Socrate [2] Omero Iliade, XIX [3] Euripide Baccanti [4] Omero Odissea XI [5] Ovidio Metamorfosi VI [6] Ovidio Metamorfosi XI
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