Roma, quartiere San Lorenzo, 19 luglio 1943. Ore 11.03. Cos’era tutto quel putiferio? Le case tutte spiegazzate, le strade accartocciate con tutte le rotaie storte che spuntavano come antenne tra i detriti. Voragini enormi si aprivano nelle vie; case, fabbricati e persone inghiottite. Pareva la guerra. O forse lo era. Ma tra parere ed essere ce ne correva. E correva pure un mare di gente che urlava, strillava, scalpitava. Braccia, gambe, tronchi senza testa. I più fortunati stavano in piedi e si muovevano come onde di un mare in burrasca, cercavano, scappavano, chiamavano. Gli altri fermi, fissati per sempre dentro a quel pandemonio. Impossibilitati a rialzarsi, avevano finito la loro vita su quella piazza, quasi senza accorgersene. Solo l’attimo di avere paura poi più niente. Prima un rumore assordante di aerei, tanti, troppi. Tutti concentrati sopra le loro teste; poi tanti puntini, neri come liquerizie, che mano a mano diventavano grandi come bombe. Circa quattromila caramelle che i bombardieri statunitensi scartarono sopra Roma. Prima ondeggiarono cullate dal cielo poi arrivarono pesanti come piombo. Era il bombardamento di San Lorenzo.
IL BOMBARDAMENTO DI SAN LORENZO
Uno spostamento d’aria, come un vento di tempesta, aveva colto la popolazione che si trovava sotto quel cielo ed aveva paralizzato uomini e donne dentro quelle posizioni disarticolate, innaturali. Uno, un ciabattino, era rimasto seduto sulla sedia di paglia. Morto. Pareva stesse ancora lavorando, però mancavano le scarpe da riparare. Quelle se le erano portate via le bombe, come si erano portate via le mura che delimitavano il palazzo. Era rimasto solo lui, seduto, come a chiedere «Che succede? Sono scherzi da fare?”. Se ne stava fermo, quieto, come incredulo davanti a quella devastazione ed alla sua vita strappata. Guardava immobile tutto quel movimento di carne umana, l’andare e venire dei vivi.
La basilica di San Lorenzo dopo il bombardamento
Non mancavano solo le scarpe del ciabattino, con il bombardamento di San Lorenzo se ne erano andate via pure le scarpe dei morti. Le bombe gliele avevano sfilate dai piedi. Li avevano come preparati alla sepoltura. Con alcuni, addirittura, la morte era stata più macabra: aveva portato via pure le gambe. Tanto per facilitare il compito ai soccorritori.
Al carretto che trasportava viveri erano rimasti attaccati i cavalli, povere bestie. Sembrava che un filo dell’alta tensione avesse colpito i quadrupedi, folgorati da una forza sovrumana che li aveva come rattrappiti e buttati all’aria. Avevano le zampe aggrovigliate, rimaste dritte nell’atmosfera fumosa di quella mattina di luglio. Erano come epilettici che cercavano di arrampicarsi attraverso una scala immaginaria. Ma il cielo coperto da un fumo di polvere e morte era troppo alto da scalare e quei cavalli rimanevano al palo, come tanti uomini che ci avevano provato a salire oltre il gradino che era stato assegnato loro.
Quando pur chiudendo gli occhi i sopravvissuti trovarono ancora davanti a loro sempre quella scena assurda e terribile, capirono che quella era proprio la guerra. Non era come la guerra.
Il momento del bombardamento di San Lorenzo
Quel conflitto che tutti i Romani avevano come lasciato sospeso, convinti che Roma fosse protetta da una forza divina, era piombata su di loro. Il Duce ne era certo, in passato raccontava che la città non sarebbe stata bombardata. E anche se non eri fascista come lui ci dovevi credere per forza, per disperazione. Per sopravvivere ogni giorno, portare quei pochi spiccioli a casa e tirare avanti.
Invece neanche la protezione di Gesù Cristo era bastata ad allontanare le bombe. E agli Americani di Dio, del Papa, dei luoghi santi non gliene fregava poi tanto. Erano atei, forse. Oppure davanti ad un nemico non si facevano prendere dal magone, dal sentimento. Mille tonnellate di esplosivo sganciate su una Roma oramai stremata, sventrata nelle sue viscere.
Mussolini quella mattina si trovava a Feltre per un colloquio con il Fuhrer. Si dovevano chiarire gli aspetti strategici sulla conduzione futura della guerra dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia. Il Duce sentiva odore di sfiducia all’interno del suo partito e praticamente rimase zitto per tutto l’incontro. Non riuscì a comunicare ad Hitler l’impossibilità, da parte del nostro paese, di continuare la guerra. Il colpo finale venne dalle notizie che provenivano da Roma. Alle 11.03 era partito un attacco diviso in sei ondate da parte di seicentosessantadue bombardieri statunitensi scortati da duecentosessantotto caccia. La contraerea italiana rispose con soli trentotto aerei. Questo era quello che offriva il convento. Così mentre il Duce incontrava Hitler, i morti venivano coperti da lenzuola e fogli di giornale. Sotto c’erano i volti tumefatti e devastati di uomini, donne, bambini, romani, non romani, fascisti, antifascisti, ebrei. Tutti mischiati, tutti colpiti da una unica sorte.
I morti erano ammassati a decine, centinaia. Sembravano tante tessere del domino allineate, accatastate e tirate giù. Tutte cadute.
Dopo il bombardamento di San Lorenzo regnava una atmosfera di irrealtà, tanto macabra e mortifera era l’aria sulla città. Quello spazio scenico rappresentava l’ineluttabilità del destino. Le quinte erano gli edifici sventrati, i calcinacci, le tombe scoperchiate. I morti erano usciti pure da lì, erano stati cavati dalle dimore ultraterrene per essere riportati alla luce. Una luce funesta e pallida. Così quei corpi subirono l’oltraggio di essere sotterrati due volte. Scomodati, in quella circostanza, solo per partecipare ed essere presenti a quell’orrore.
Padre Libero Raganella ricordò così quella giornata che causò tremila morti ed undicimila feriti. Nei suoi diari scrisse:
Attraverso di corsa la strada gettando uno sguardo verso il cielo, ma non scorgo nulla. Entro nel portone. Di nuovo tutta la gente nell’androne. Guardo verso il cortile. Qui le bombe sono arrivate con la loro distruzione. Tutto un lato del palazzo è crollato e della costruzione di cinque piani non è rimasto che un cumulo enorme di macerie. Mentre guardo tutti improvvisamente intorno a me fanno silenzio.
– Nessuno è stato ferito? – domando.
La portiera mi fa cenno di seguirlo. Sulla porta della portineria rimango di ghiaccio. Una ragazza, poco più che bambina, giace a terra. Una scheggia le ha segato il collo nettamente, come la lama di un coltello affilato, e tutto intorno ha come un piccolo collarino rosso, il sangue. Mentre alzo la mano per benedirla, dietro di me incominciano i pianti, lamenti, grida. La paura che per un attimo pareva scomparsa torna in pieno con tutte le sue manifestazioni. Anche qui esorto alla calma, a non aver paura perché ormai tutto è finito, che intanto provvederò per la bambina.
Mi ritrovo per la strada con il cuore gonfio, pensando a quelle famiglie senza più casa, a quella povera ragazza, vittima innocente, nel fiore degli anni. E intanto le bombe continuano a cadere.
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