Nella seconda metà dell’Ottocento il brigantaggio interessò, oltre le terre del Meridione, anche la Maremma. Nato prima dell’unità d’Italia, il fenomeno fu debellato dopo la costituzione dello Stato unitario grazie ad un intervento decisivo da parte del Presidente del Consiglio, nonché Ministro dell’Interno, Giovanni Giolitti.
Terra aspra e malarica, la Maremma vedeva vivere di fame e di stenti la sua popolazione. In questo territorio così martoriato si andarono ad annidare contadini o pastori che cercavano di sopravvivere attraverso l’uso delle armi e della soverchieria. Uno di questi fu il brigante Domenico Tiburzi.
IL BRIGANTAGGIO IN MAREMMA
Nato nel 1836 a Cellere, paese dell’alto viterbese, il giovane Domenichino, analfabeta, lavorava come bracciante. Era proprio lungo il confine tra lo Stato della Chiesa ed il Granducato di Toscana che si praticavano il contrabbando e i traffici illeciti. La zona posta tra Montauto, Castro ed il Lamone rappresentava, con le sue grotte e la folta macchia, un riparo ideale per i briganti in latitanza forzata. Rassicurati dalla poca presenza delle forze dell’ordine, i briganti vivevano grazie alla protezione riservata loro da buona parte della popolazione locale che, per non avere problemi, offriva loro riparo pur di vedere risparmiate le loro donne ed i loro miseri averi.
Briganti di Maremma
Quello poi era un territorio malarico e da giugno ad ottobre i luoghi in pianura, tra cui Grosseto, venivano letteralmente abbandonati. Il posto di polizia della città maremmana si spostava verso le zone collinari di Scansano, facilitando di fatto le scorrerie dei banditi.
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L’ARRESTO E LA FUGA DI DOMENICO TIBURZI
Nel 1893 Giolitti ordinò alle autorità preposte di rastrellare la zona del viterbese e del grossetano per smantellare la rete dei briganti. Furono arrestate 126 persone e altre 145 furono denunciate ma il brigante Domenico Tiburzi scappò alla retata. Molte di queste, tra i quali proprietari, contadini e pastori, furono denunciate per associazione a delinquere con l’accusa di avere protetto i banditi durante le ricerche. Lo stesso Giolitti, dopo le proteste dei deputati locali, dichiarò: “E’ intollerabile che due o tre briganti si siano imposti ad un circondario intero e che siano aiutati da un gran numero di conniventi. Un paese civile non può sopportare sì grave offesa alla legge e il governo ha il dovere di farla cessare a qualunque costo.[…]Ora per rompere la rete di interessi che si era costruita bisognava ricorrere a misure abbastanza gravi. Il numero di manutengoli è grandissimo e codesti manutengoli non appartengono tutti alle ultime classi sociali. E’ questa la ragione per cui i provvedimenti destano maggior rumore”.
Il brigante Domenico Tiburzi era riuscito a scappare anche alla retata. Dal 1872, anno in cui era evaso dal carcere di Corneto (l’attuale Tarquinia), viveva in latitanza. Sul suo capo pesava una condanna a 18 anni di reclusione e, negli anni vissuti all’interno della macchia, aveva continuato ad uccidere e a taglieggiare gli abitanti della zona. Viveva di quella che fu chiamata la tassa del brigantaggio, un pagamento da parte dei grandi proprietari terrieri in cambio della protezione dei loro beni.
Con il Regno d’Italia le cose erano peggiorate. La stretta sul brigantaggio aveva portato alla retata ordinata da Giolitti e per questo motivo Tiburzi, insieme ai suoi compagni, sparì dalla circolazione per un po’ di tempo per poi tornare quando si erano tranquillizzate le acque. Ma il destino lo stava aspettando. A Grosseto era arrivato un capitano dei Carabinieri che rispondeva al nome di Giacheri. Piemontese di nascita aveva ottenuto buoni risultati contro il brigantaggio in Calabria; sua intenzione era quella di debellare il fenomeno criminale anche nelle terre tosco-laziali.
Per tre mesi studiò tutti i fascicoli che aveva a disposizione quindi, con l’aiuto dei sui sottoposti, cominciò la ricerca dei banditi.
L’UCCISIONE DI DOMENICO TIBURZI
Domenico Tiburzi morto
La notte del 23 ottobre il brigante Domenico Tiburzi insieme al suo luogotenente Luciano Fioravanti avevano bussato alla porta di una povera casa in località Forane, a Capalbio. Era una serata di pioggia ed i due cercavano riparo e un pasto caldo nella modesta abitazione della famiglia di Nazzareno Franci, un contadino del luogo.
Quella notte i carabinieri bussarono alla porta e nel conflitto a fuoco che ne scaturì venne ucciso Domenico Tiburzi, colpito alla gamba sinistra e alla nuca. Il giorno successivo, poco prima dell’autopsia, il brigante fu immortalato dal fotografo Ulivi. Era poggiato al basamento di una colonna romana, in piedi, con la mano poggiata sul fucile, come se fosse vivo. Quella è l’unica foto che ci rimane del Tiburzi.
L’AUTOPSIA SUL CORPO DI TIBURZI
Il medico che eseguì l’autopsia, il dottor Matteini, inviò una porzione di cervello di Tiburzi a Cesare Lombroso, medico ed antropologo studioso di fisiognomica. Secondo questo approccio pseudo-scientifico, le caratteristiche fisiche di una persona ne determinano il carattere. Attraverso lo studio morfologico del cranio, dei denti, la misurazione degli arti, la conformazione di naso, bocca, unghie si poteva evidenziare la predisposizione al crimine o un’alterazione psichica di un soggetto.
Secondo Lombroso, i delinquenti mostravano forme di regressioni evolutive che li facevano somigliare a degli uomini primitivi. Esempio ne è lo studio condotto sul cranio del brigante Vilella; la presenza di una fossetta occipitale suggerì allo scienziato un collegamento con un carattere dei lemuri, associando quella caratteristica fisica alla devianza sociale.
Eppure dall’analisi del cranio del brigante Domenico Tiburzi il medico non notò anomalie evidenti. Ipotizzò semmai che il bandito avesse una certa genialità innestatasi su un carattere dedito alla criminalità a causa dell’influsso del clima e della società civile in cui era nato.
IL MUSEO DEL BRIGANTAGGIO A CELLERE
Nel comune di Cèllere (VT) si trova il Museo del Brigantaggio, che raccoglie documenti relativi al fenomeno del brigantaggio maremmano.
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