La storia delle missioni spaziali, di cui nel 2019 ricorre il cinquantenario della più celebre, lo sbarco sulla Luna, è costellata di straordinari successi ma anche, purtroppo, di immani tragedie. La più drammatica si verificò il 28 gennaio 1986. Cape Canaveral, contea di Brevard, Florida, Stati Uniti, 11.39 ora locale. Sono trascorsi settantatré secondi dal lancio della navicella spaziale Space Shuttle Challenger quando improvvisamente il mezzo prende fuoco, esplodendo nel cielo terso. Tutti i sette componenti dell’equipaggio muoiono sotto gli occhi di milioni di telespettatori che stanno assistendo al decollo dello Shuttle.
Fra loro Christa McAuliffe, un’insegnante che avrebbe dovuto tenere una lezione in diretta dallo spazio, collegata con migliaia di studenti di tutto il mondo. Diciannove anni prima l’America aveva già pagato un drammatico tributo all’umano desiderio di conquistare lo spazio con un incidente di cui oggi si è persa quasi la memoria: la tragedia dell’Apollo 1 avvenuta il 27 gennaio 1967.
STORIA DEL TRAGICO INCENDIO CHE DISTRUSSE L’APOLLO 1
Il portello del modulo di comando dell’Apollo 1
Questa è la storia di Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee e di quella tragedia nella quale persero la vita. Cape Kennedy, così all’epoca si chiamava Cape Canaveral, venerdì 27 gennaio 1967, rampa di lancio 34. L’America, in quel primo mese dell’anno, sogna guardando l’azzurro del cielo. Lo sbarco sulla Luna non sembra più un miraggio, ma una possibile, bellissima realtà.
Da qualche tempo la NASA (l’agenzia governativa statunitense che dal 1958, anno di fondazione, si occupa di missioni spaziali) ha intensificato i programmi spaziali, perfezionando i progetti e aumentando i costi, con l’obiettivo di superare nella conquista dello spazio la nemica URSS, una diversa declinazione della Guerra fredda.
Gli echi della contestazione studentesca, che di lì a poco esploderà nelle università americane, sono ancora distanti in quel lembo di inizio anno, anche se il peso della terribile guerra in Vietnam è sempre maggiore. Per ora c’è un universo da esplorare, un mare di stelle da navigare.
Quel 27 gennaio alla base spaziale la tranquillità è assoluta. Di lì a poco sarà effettuato un lancio simulato, la prova finale per un futuro lancio reale, il primo di una navicella statunitense con a bordo degli astronauti. Per ora, però, lo spazio può ancor attendere.
Intorno all’ora di pranzo i tre astronauti, con indosso le loro belle tute, sono saliti a bordo della navicella Apollo 1. C’è un conto alla rovescia da simulare, una sorta di prova generale prima del decollo vero e proprio, previsto per il prossimo 21 febbraio quando, finalmente, i tre astronauti potranno ammirare la terra dallo spazio.
GRISSOM, WHITE E CHAFFEE: I TRE ASTRONAUTI MORTI NELLA TRAGEDIA DELL’APOLLO I
Gli astronauti dell’Apollo I
Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee sono tranquilli nelle loro poco confortevoli cuccette. Chiacchierano amabilmente, mentre fervono i preparativi per la simulazione. Il razzo, Saturno 1-B, su cui poggia l’Apollo I a sessantotto metri d’altezza, non ha neanche il combustibile. Non serve, è solo una prova, per questo intorno al blocco spaziale non ci sono neppure le squadre di emergenza.
Si tratta di mettere a punto qualche dettaglio, fare delle simulazioni e poi i tre ospiti dell’Apollo potranno tornare a casa, contando i giorni che mancano per vedere le stelle. Grisson, che di quell’equipaggio è il comandante, nell’angusto spazio della navicella, percepisce un odore acre, forse proviene dall’impianto dell’ossigeno ma non si allarma, non subito almeno.
Si stranisce, però, e neanche poco, per la pessima qualità delle comunicazioni via radio. Non riesce a parlare con la base, sono più le scariche elettriche che le parole che riesce a sentire e a dire. Quelle trasmissioni sono talmente disturbate che in un impeto di rabbia esplode: «come potete pensare – dice rivolgendosi ai responsabili della sala radio – di mandare un uomo sulla Luna se non riuscite neppure a parlarci sulla terra?».
La tensione, tuttavia, scema anche se l’attesa, a causa di alcuni ulteriori problemi, aumenta. Si decide che la simulazione del conto alla rovescia per questioni al momento irrisolvibili non si farà. Ancora il tempo di qualche altro test, una o due verifiche e poi sarà dato il rompete le righe, il tutti a casa.
APOLLO 1: IL MOMENTO DELL’INCENDIO FATALE
Ma accade l’imponderabile. Alle 18.30, ora locale, improvvisamente la temperatura all’interno dell’abitacolo sale terribilmente. Uno degli astronauti, forse lo stesso Grisson, grida al fuoco ma da terra quell’invocazione arriva disturbata, quasi incomprensibile.
I tre sull’Apollo 1 comprendono che qualcosa di serio sta accadendo, provano ad aprire il portellone della navicella ma invano. L’alta pressione della cabina rende impossibile tale manovra. Nel frattempo all’interno il fuoco si diffonde rapidamente anche a causa dei rivestimenti sintetici della stessa cabina. Sono secondi interminabili: i tre astronauti, arsi dalle fiamme, gridano aiuto, urlano via radio che stanno bruciando vivi, che devono mandare qualcuno e subito sennò moriranno tutti.
Ma i soccorsi tardano ad arrivare, anche perché, di fatto, non ci sono. Nel frattempo l’Apollo 1 si stacca dal Saturno e cade nel vuoto in un mare di fiamme. Quando finalmente, dopo alcuni interminabili minuti, giungono i primi aiuti, la navicella spaziale è una palla di fuoco. Arrivano in sei, sono colleghi di Virgil, Edward e Roger. Provano ad avvicinarsi mettendo a rischio la loro stessa vita, anche perché non hanno vere e proprie attitudini al soccorso. Potrebbero mettersi a riparo, in sicurezza, ma non ci pensano neppure un attimo e incuranti del rischio, delle possibili conseguenze, si fanno strada fra fumo e fiamme.
Si avvicinano alla navicella, provano ad aprire il boccaporto ma è impossibile. Fra loro Henry Rogers, un veterano della Seconda guerra mondiale, uno che di orrori ne ha visti e tanti. Quando quei sei eroi riescono ad aprire finalmente il portellone della navicella possono soltanto constatare la tragedia. I tre astronauti sono carbonizzati, anche se le autopsie accerteranno che la causa di morte fu l’esalazione di sostanze tossiche e non il fuoco.
La commissione d’inchiesta chiarirà che l’incendio era stato provocato da un corto circuito, causato da alcuni cavi mal protetti, posti sotto il seggiolino di Grisson, dai quali era scaturita la mortifera scintilla. Quel fatale innesco aveva trovato vita facile nell’atmosfera carica di ossigeno e si era facilmente propagato, diffondendo in quell’angusto ambiente fumi esiziali.
L’inchiesta dimostrerà pure la totale assenza di condizioni minime di sicurezza, a cominciare dalla totale mancanza di mezzi di soccorso. Quella tragedia, di cui parleranno nei giorni successivi molti quotidiani in tutto il mondo, sconvolse l’opinione pubblica americana. Si pensò sulle prime di sospendere la corsa alla Luna, poi si decise di ripartire da quel dramma per evitare il ripetersi in futuro di simili fatti.
Furono realizzate tute ignifughe, fu resa più facile l’apertura del boccaporto dall’esterno, isolati adeguatamente tutti i cavi e, cosa principale, modificata l’atmosfera all’interno della capsula.
Su proposte delle vedove, la Nasa stabilì che da quel momento la missione, il cui nome originale era AS204, si sarebbe chiamata Apollo I. Nel luogo dell’incidente furono poste due targhe in ricordo dei tre astronauti morti quel 27 gennaio 1967. Una di questa recita:
«In memoria di coloro che hanno reso l’ultimo sacrificio perché altri potessero raggiungere le stelle.»
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