All’inizio del giugno del 1940 otto navi della Marina Militare Italiana partono dai porti di Tripoli e di Bengasi per raggiungere l’Italia. Su di esse sono imbarcati 13.000 bambini in età compresa tra i 4 ed i 14 anni, non accompagnati, figli di quei contadini italiani che si sono trasferiti in Libia, la cosiddetta quarta sponda. Sulla corazzata Giulio Cesare c’era anche mio nonno, Antonio Domino, nato a Tripoli il 23 settembre del 1927. Suo padre, Ignazio, era nato a Ficarazzi e in Italia dipingeva carretti siciliani mentre sua moglie, Vita Pipitone, nata a Marsala, si occupava della famiglia che mano mano si allargava. Quando, dopo la conquista della Libia nel 1911 avvenuta sotto il governo Giolitti, viene offerta loro la possibilità di lasciare la Sicilia e dirigersi verso Tripoli, si imbarcano sperando di trovare una situazione economica migliore di quella che avevano riscontrato nella loro terra natìa. Erano tutti e due analfabeti.


ITALIANI IN LIBIA SOTTO IL FASCISMO

Italiani in Libia.

Antonio Domino in compagnia di altri bambini italo-libici

L’Italia, dopo la guerra coloniale per la conquista di quella terra che Salvemini aveva definito “uno scatolone di sabbia“, ottiene il controllo della regione occidentale della Tripolitania ma bisognerà attendere il 1931 perché la Libia venga conquistata interamente. A partire dal 1934 inizia il controllo e la gestione della colonia attraverso il Governatorato Generale affidato a Italo Balbo. Proprio il generale ed aviatore italiano nel biennio 1938-1939 farà giungere altri 20.000 coloni provenienti dal Veneto e dal meridione per aumentare il numero degli italiani già residenti, mettendo a loro disposizione le terre semidesertiche della nuova provincia italiana.

Nel 1940 complessivamente saranno ben 120.000 gli italiani residenti in Libia. L’intento del governo fascista è quello di risolvere il problema della disoccupazione in Italia e di dare avvio ad una piccola proprietà terriera, favorendo la colonizzazione di quella terra. Così in Libia si trasferiscono migliaia di quei contadini che, partiti dall’Italia, cercano di sopravvivere e di sbarcare il lunario attraverso la coltivazione di quelle terre aride.

Mussolini, che già nel mese di maggio del 1940 ha comunicato ad Hitler che entrerà in guerra accanto alla Germania, decide di far passare l’estate ai figli dei coloni nella loro terra d’origine, rassicurando i genitori che rientreranno dopo poche settimane nelle loro case. L’intenzione è quella di far conoscere la madrepatria a quei 13.000 ragazzini nati in Libia che non hanno mai messo piede in Italia e, contestualmente, toglierli da uno dei possibili scenari di guerra. I bambini saranno accolti nelle colonie marine e montane della GIL, la Gioventù Italiana del Littorio, e lo stato si prenderà cura di loro. Ma quella che doveva essere una vacanza si trasforma da subito in un calvario.

Nei primi giorni di giugno del 1940 i bambini vengono accompagnati dai genitori sulle otto navi della Marina attraccate a Tripoli e Bengasi; alcuni non vogliono staccarsi dalle madri, altri si avvinghiano al collo dei padri perché non vengano lasciati nelle mani di sconosciuti. Alcuni bambini si consolano perché sono imbarcati con qualche loro fratello o sorella, altri, i più grandi, pensano che comunque si divertiranno una volta giunti in Italia. La traversata in mare è lunga e il 9 giugno 1940 le navi sbarcano in Italia, a Napoli o a Bari, città dalle quali con i treni i bambini vengono smistati nelle 37 colonie della costa adriatica, di quella tirrenica e nelle aree montane: Rimini, Igea Marina, Cattolica, Cesenatico, Fano sono alcune di esse. A mio nonno è toccata in sorte la GIL di Ferrara.

VACANZE DI GUERRA: IL DRAMMA DEI BAMBINI DELLA QUARTA SPONDA

Balilla durante il fascismo

Balilla durante il fascismo

Il giorno dopo, il 10 giugno 1940, alle 18 Benito Mussolini, davanti ad una folla osannante, si affaccia dal balcone del suo studio in piazza Venezia a Roma. Dopo il saluto al Duce da parte della popolazione radunatasi, il capo del fascismo inizia il suo discorso: “Combattenti di terra, di mare, dell’aria, camicie nere della rivoluzione e delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania, ascoltate! Un’ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili”. È la dichiarazione di guerra nei confronti della Francia e della Gran Bretagna.

È l’inizio del calvario di quei bambini che quella sera si trovano nelle colonie estive. Stanno mangiando nei refettori, tutti insieme, e viene data loro la notizia dell’entrata in guerra dell’Italia. Alcuni di essi cominciano a piangere, altri si disperano. A differenza di quello che si crede in Italia, cioè che la guerra finirà in due, tre mesi, i figli dei coloni italiani comprendono che rimarranno da soli per molto tempo, senza poter rivedere i propri genitori ed i familiari. Si sentono intrappolati, catapultati in luoghi lontani da quelli a loro conosciuti. Dormono in camerate senza più l’accudimento dei genitori. Appena giunti nelle colonie della GIL vengono sottoposti a visite mediche, vengono insegnate le regole base a cui dovranno attenersi, sono distribuiti gli abiti da indossare, i capelli sono rasati indistintamente, sia ai bambini che alle bambine.

L’estate del 1940 passa e la guerra, a differenza delle previsioni iniziali, si protrae. Si presenta il problema di smistare i bambini in altri luoghi e di provvedere al loro sostentamento ed alla loro istruzione. I bambini lasciano le colonie estive, molti vengono smistati nei territori più interni, in quelli appenninici e cominciano a frequentare la scuola. Le colonie diventano delle vere e proprie caserme militari in cui i bambini vengono assoggettati ai principi fascisti. Le giornate sono scandite dalla rigida disciplina e da un sistema di controllo asfissiante. Il fischietto segna le ore. Ogni trillo fa sobbalzare i bambini e cadenza la loro giornata. C’è la sveglia del mattino, la preghiera, il bagno, la parata militare. Sono costretti a salutare il Duce più volte nell’arco della giornata, ad imparare inni fascisti, intonano “Se non ci conoscete guardate in petto, noi siamo i tripolini, portateci rispetto”.

I maschi sono sottoposti a marce militari con il moschetto, sotto il sole, sotto la neve. Il fisico deve essere temprato per formare il soldato di domani. Così potente e vigorosa è la propaganda inculcata che molti di questi bambini chiedono alla maestra di essere mandati al fronte perché vogliono morire per il Duce. Alle bambine che piangono e chiedono della madre viene risposto che loro sono figlie dell’Italia e del Duce. “Voi sarete le future madri degli eroi italiani che andranno a combattere e morire” questo dice Grazia Arnese Grimaldi in un’intervista, ricordando le parole che le vigilatrici dicevano alle bambine. I collegamenti con la Libia nel 1941-1942 sono sempre più difficili fino a che vengono interrotti del tutto, quello è uno dei fronti più caldi del conflitto. Agli italiani viene fatto intendere che la guerra sta proseguendo nel migliore dei modi, che i bambini rimasti in Italia sono ogni giorno in comunicazione con le proprie famiglie. I filmati propagandistici dell’Istituto Luce mostrano i bambini che lanciano attraverso la radio saluti e baci alle proprie famiglie, ignari che le loro parole non giungeranno mai alle orecchie dei propri genitori.

La retorica del fascismo si dilata nel 1942 proprio quando le sorti militari vacillano sotto i colpi dei nemici. Il Duce diventa una divinità, un padre che dona e regala amore ai propri figli, anche ai bambini delle colonie. Di ritorno non si parla e non si può parlare e nel quotidiano i bambini delle GIL entrano sempre più nei meccanismi della propaganda fascista. Vestono con le divise dei balilla, degli avanguardisti, dei moschettieri, delle piccole e giovani italiane. Dopo l’8 settembre 1943 alcune colonie devono essere abbandonate perché gli Anglo-Americani stanno tentando di risalire lo stivale mentre i Tedeschi occupano il territorio italiano. L’Italia è spaccata in due, non c’è più un valido coordinamento. I bambini vengono trasferiti più a nord dove si è costituita la Repubblica di Salò. Ma il paese è allo sbando e durante l’ultimo anno di guerra i giovani coloni libici si sparpagliano, alcuni trovano riparo nei conventi e nei monasteri, altri si riuniscono ai parenti che vivono in Italia.

Mio nonno, trasferito nella GIL di Parma, potrà ricongiungersi con sua madre Vita e sua sorella Vincenza, profughe di guerra, soltanto nel 1944, a 4 anni dalla partenza dal porto di Tripoli. Le due donne, rimaste sole e ritornate dalla Libia alla fine del 1943, non hanno più niente, non hanno denaro né parenti in grado di accoglierle. Arrivate a Roma, si rifugiano nello scantinato di un palazzo di Via Dandolo dove da poco, in concomitanza con la tragica notte del 16 ottobre 1943, è fuggita via una famiglia ebrea per salvarsi dal rastrellamento dei nazisti. Qui verrà a vivere anche mio nonno che, lasciata la GIL di Parma, durante il periodo dell’occupazione dei Tedeschi, finalmente potrà riabbracciare la madre e la sorella. Ma non tutti i figli di coloni avranno la fortuna di rivedere i propri parenti poco prima della fine della guerra. Alcuni dovranno aspettare il termine del conflitto o addirittura il 1946 ed il 1947 prima di incontrare nuovamente i genitori, senza talvolta riconoscerli ed essere riconosciuti. Erano partiti bambini e sono tornati adulti.

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