Le donne non possono correre la maratona. Questo sostenevano i medici fino a qualche decennio fa e la motivazione era incredibilmente e terribilmente semplice. Rischiano l’infertilità. E i dottori ne erano così convinti che fino alle Olimpiadi del 1968 la distanza massima corsa dalle donne nella più importante celebrazione dello sport mondiale era quella che si percorreva in appena due giri di pista, ovvero la gara degli 800 metri.
CHI FU LA PRIMA DONNA A PARTECIPARE A UNA MARATONA?
Il fondo ed il mezzofondo non erano previsti e verranno introdotti ai giochi olimpici soltanto nelle edizioni successive mentre bisognerà aspettare addirittura i giochi di Los Angeles del 1984 per giungere alla prima maratona olimpica femminile.
Ma per arrivare a correre la gara regina dell’atletica le donne dovettero intraprendere negli anni Sessanta un’autentica rivoluzione copernicana del pensiero e dell’agire, sfidando credenze e convinzioni basate sul pregiudizio e sull’idea di debolezza che caratterizzava l’intera figura femminile.
È grazie a queste azioni di forza, a queste sfide irriverenti e a questo ribaltamento del ruolo della donna che si è cominciato a delineare un percorso che ha consentito all’altra metà del mondo di partecipare alla maratona. Perché, dopo il voto, anche correre è stata una conquista.
È il 1966 e a Boston la 42 chilometri più antica del mondo viene disputata, ovviamente, solo dal genere maschile. Quando Roberta Gibb, detta Bobbi, decide di parteciparvi compie un gesto a dir poco rivoluzionario, un atto che spianerà l’ammissione delle donne alla gara nell’edizione del 1972.
La maratona di Boston l’ha vista per la prima volta due anni prima mentre,correndo con suoi i cani nei boschi vicino casa, intercetta i podisti che sfilano lungo il tracciato. Quel giorno prende coscienza che vuole correrla e per farlo comincia ad allenarsi, mettendo insieme chilometri su chilometri uno dopo l’altro, non sapendo però che le donne non sono ammesse.
Inizia gli allenamenti con le scarpe che possiede, quelle da infermiera, senza avere alcuna nozione di fisiologia e senza un programma di allenamento. Ogni giorno corre in un posto nuovo per trovare stimoli, scegliendo sempre luoghi che la facciano entrare in contatto con la natura.
Pochi mesi prima della gara, nel febbraio del 1966, inoltra regolare richiesta di partecipazione, spedisce la sua lettera di iscrizione e, in risposta, le viene recapitata una busta. La apre pensando che all’interno ci sia il prezioso pettorale. Invece la delusione la assale. Dentro c’è solo una lettera di Will Cloney, il direttore di gara, il quale le scrive che le regole internazionali non contemplano la partecipazioni delle donne alle maratone perché “fisiologicamente non idonee”.
Roberta Gibb non può rinunciare proprio adesso che si è preparata al meglio e non può accettare di essere esclusa per colpa di una regola così assurda.
“A quel punto capii che stavo correndo per molto di più che raggiungere un traguardo personale, stavo correndo per cambiare il modo di pensare della gente” [1].
La determinazione e la costanza sono due caratteristiche che di certo non mancano a certe donne, soprattutto in un periodo come quello, dove si cominciava a dibattere di emancipazione e parità dei diritti. Così Roberta Gibb, appena 23 anni, non si perde d’animo e, pronta e determinata com’è a scardinare quel pregiudizio maschilista sulla debolezza femminile, il giorno della gara si presenta ugualmente al luogo di partenza.
È il 19 aprile 1966, i Beatles iniziano le registrazioni di Revolver, a Houston si sta per impiantare il primo cuore artificiale e nel lontano Vietnam gli Stati Uniti sono impegnati in una continua e sanguinosa guerra.
Roberta Gibb si prepara per la sua gara, arriva vestita con indumenti maschili per passare inosservata e comincia il riscaldamento. Indossa i pantaloncini larghi del fratello legati in vita con una stringa, sopra ha una felpa blu con cappuccio, ai piedi un paio di scarpe da ginnastica. Prima dell’inizio della maratona si nasconde dietro dei cespugli in prossimità della linea di partenza e, quando sente lo sparo, esce dagli arbusti e comincia a correre gomito a gomito con gli altri concorrenti.
Ha paura che possa essere riconosciuta dai giudici, ha paura di essere arrestata, ha paura di essere fischiata ma alla fine, incoraggiata anche dai corridori che si rendono ben presto conto di avere accanto una donna, fa la sua gara. Anche gli spettatori, dopo che si è tolta la pesante felpa, riconoscono le sue linee femminili e la incitano.
Mentre corre vede gli occhi delle donne incollati su di sé e sente il peso di dovere tagliare il traguardo perché ora non può più fallire l’obiettivo. Deve dimostrare a se stessa e alle altre ragazze che la stanno guardando che una donna può correre i 42 chilometri e 195 metri. Così sul finale rallenta un po’ per essere sicura di terminare la gara e la conclude in 3 ore 21 minuti e 40 secondi.
La sua storia fa il giro del mondo. Il giorno successivo i giornali riportano l’impresa di questa ragazza che ha cambiato per sempre il modo in cui le donne vedevano se stesse.
KATHERINE VIRGINIA SWITZER: UNA MARATONETA ENTRATA NELLA STORIA
L’anno dopo Bobbi Gibb partecipa nuovamente alla maratona di Boston, ovviamente sempre senza pettorale perché le norme non sono cambiate ed il regolamento non prevede la presenza femminile, nonostante la dimostrazione di forza dell’anno precedente. Ma in quell’edizione è presente anche una certa Kathrine Virginia Switzer, una studentessa di 20 anni, che ha eluso i severi controlli dell’organizzazione, iscrivendosi alla competizione solo con le iniziali del nome: K.V. Switzer. Con questo stratagemma ottiene il pettorale numero 261, una cifra storica per le donne, e riesce a partire insieme con gli altri podisti. Lei è di fatto la prima ed unica donna ufficialmente iscritta a quella competizione.
La corsa ha inizio ma, dopo quattro chilometri, il direttore di gara Jocke Semple la intercetta. Corre verso di lei e prova a fermarla strattonandola, l’uomo cerca di strapparle il pettorale gridandole: “Vattene dalla mia corsa e dammi quel numero”. Da dietro intervengono altri corridori per proteggere la ragazza, uno è il suo ragazzo Tom Miller, che spintona il giudice, dandogli una poderosa spallata e facendolo rotolare a terra.
Arnie Briggs, il suo allenatore, le urla di correre come il diavolo, lei accelera con il cuore in gola per quanto successo. Nella colluttazione ha perso un guanto ed è sconvolta ma, comunque, continua la gara e la conclude in 4 ore e 20 minuti. La foto di lei, in bianco e nero, con il giudice che la spintona è diventata un’icona, il paradigma della forza di volontà che sfida le regole.
Al traguardo di quella gara arriva anche Roberta Gibb, senza pettorale, ma sempre prima tra le donne, sfiorando il tempo dell’anno precedente (3 ore 27 minuti e 17 secondi).
Questi risultati ottenuti dalle due ragazze statunitensi aprono la strada all’inclusione del genere femminile nelle competizioni di lunga distanza e così nel 1971 la maratona di New York accoglie le iscrizioni delle donne, seguita da Boston l’anno successivo. Oggi sono sempre più le donne che corrono le maratone ed i loro passi hanno avuto inizio su quell’asfalto di Boston del 1966.
[1] Gibb B., To Boston with love (2016) [2] Switzer K., Marathon Woman (2007)
Foto di copertina: “Kathrine Switzer, una delle prime donne partecipanti a una maratona (Boston 1967)” – di Recuerdos de Pandora, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons
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