Fra gli oggetti più regalati ci sono da sempre i libri. Ma non è semplice acquistare un libro, specie se lo si deve donare a qualcuno. Saggio o romanzo? Classico o opera contemporanea? Un rebus inestricabile dal quale, però, si può uscire indenni andando sul sicuro. E allora regalate senza indugio Le Metamorfosi di Ovidio e non sbaglierete. Il motivo? Semplice. Si tratta di un libro bellissimo, l’enciclopedia di tutti i più bei miti di sempre, modello supremo di leggerezza, un’opera che Italo Calvino, non proprio uno qualunque, amava alla follia, tanto da citarla continuamente nel suo Lezioni americane. Duecentoquarantasei favole, duecentoquarantasei miti intramontabili.

UN CAPOLAVORO IMMORTALE: LE METAMORFOSI DI OVIDIO

Dallo struggente racconto di Venere e Adone, a quello di Eco e Narciso, passando per quello di Marsia, scuoiato vivo per aver sfidato nel suono del flauto Apollo. Ma anche il racconto di Ganimede, rapito da Giove perché diventasse il coppiere degli Dei, o quello di Dafne, la ninfa che si trasformò in un albero di alloro pur di sfuggire alla passione di Apollo e che Bernini rese eterna in una delle sue sculture più celebri, o ancora, la storia di Aracne, la figlia di Idmone, abilissima tessitrice che sfidò Atena. La dea le strappò la tela e Aracne disperata provò a suicidarsi. Ma Atena la salvò e la trasformò in un ragno che avrebbe per sempre tessuto tele.

"Le Metamorfosi" di Ovidio

Al centro Ovidio dipinto da Giovan Battista Benvenuti detto l’Ortolano

Centinaia di storie uniche in cui dei e dee, giovinette o ragazzi, eroi e eroine o semplicemente comuni uomini e donne, sono protagonisti di racconti indimenticabili, in cui il filo conduttore è rappresentato dalle trasformazioni, dalle metamorfosi, per l’appunto. E allora il sangue vermiglio sgorgato dal corpo senza vita di Adone si trasforma nel delicatissimo anemone, mentre il diadema di Arianna, realizzato da Vulcano, verrà trasformato, una volta lanciato in cielo da Bacco, in una costellazione, quella della Corona Boreale.

Miti bellissimi come quello di Salmace che amò invano Ermafrodito, figlio di Ermes e Afrodite, e che dopo averlo avvinghiato ottenne dagli dei che i loro corpi uniti si fondessero «annullandosi in un’unica figura». Da quel momento «non furono più due, ma un essere ambiguo che femmina non è o giovinetto, che ha l’aspetto di entrambi e di nessuno dei due». Ma anche la struggente vicenda di Piramo e Tisbe, antesignana del capolavoro scespiriano Romeo e Giulietta o il terribile mito di Niobe che pagò l’affronto di aver deriso la dea Latona, con l’uccisione di tutti i suoi quattordici figli da parte di Diana e del suo fratello gemello Apollo, sempre lui, onnipresente nel poema.

Il mito di Narciso

John William Waterhouse, Eco e Narciso, 1903

Le Metamorfosi di Ovidio si compongono di quindici libri e furono scritte fra il 2 e l’8 d.C. Un libro straordinario che ha influenzato tutta la letteratura successiva, fino ai nostri giorni ma che all’epoca, insieme anche all’Ars Amatoria, costarono care al poeta originario di Sulmona.

L’imperatore Augusto, infatti, nell’8 d.C. condannò Ovidio, di cui quest’anno ricorre il bimillenario della morte, alla relegatio, una sorta di esilio, nella lontana e gelida Tomi, nell’odierna Romania dove, il poeta, scriverà la sua ultima opera, i Trista. Ovidio, a detta del moralista Augusto, aveva con le sue opere offeso la religione e i costumi di Roma, offrendo modelli pericolosi e inaccettabili.

Ma la relegatio non affossò la poesia di Ovidio e, tanto meno, il suo capolavoro, Le Metamorfosi che, come, vaticinato dallo stesso autore, «né l’ira di Giove, né il fuoco o il ferro e il tempo che tutto corrode, potranno distruggere». Le Metamorfosi, infatti, saranno lette da tutti portando a ogni latitudine «l’eterna fama» di Ovidio.

La bellezza di questa opera, che i monaci amanuensi trascrissero salvandola dall’oblio nel freddo dei loro conventi, sta nella forza unica della poesia di Ovidio, nell’unicità dei miti raccontanti, nel succedersi serrato del racconto, nelle vivide immagini narrate, nella “leggerezza” calviniana.

E allora assaporiamo qualche verso, rincorriamo qualche mito e facciamoci sedurre dalle struggenti metamorfosi di figure immortali.

 

 

FETONTE, ICARO, GIOVE: VIAGGIO TRA I PROTAGONISTI DEL MITO

Ovidio: miti di Fetonte e Europa

A sinistra “La caduta di Fetonte”, di Josef Heintz il Vecchio. A destra “Il ratto di Europa” (particolare), affresco di Carlo Cignani


Partiamo da Fetonte e dal suo folle desiderio di guidare il carro del Sole, suo padre: «Balza il figlio col suo giovane corpo sul cocchio volante, ritto in piedi, felice di stringere nelle mani le briglie, e di lassù ringrazia il genitore contrariato». Ma quando Fetonte raggiunse la volta celeste e vide improvvisamente gli animali dello Zodiaco «impallidì, di fulmineo sgomento gli tremarono i ginocchi e pur fra tanta luce un velo di tenebra gli calò sugli occhi». Perse il controllo del carro e iniziò a precipitare verso il basso con il rischio di ardere con il prezioso carico il mondo intero. Giove, allora, lo colpì con un fulmine. Fetonte cadde nel fiume Eridano, l’odierno Po. A lungo le sorelle di Fetonte, le Eliadi, piansero la sua morte e le loro infinite lacrime si trasformarono in ambra mentre loro stesse si trasformarono per sempre negli alberi di pioppo.

In tema di voli disperati sotto lo sguardo paterno, impossibile non raccontare uno dei miti più conosciuti, quello di Icaro e Dedalo. Per fuggire dal labirinto in cui il perfido Minosse li aveva rinchiusi, Dedalo, valente architetto e scultore, costruì per lui e suo figlio delle ali, fissando penne d’uccello con spago e cera. Con quell’invenzione i due si librarono in volo, liberi dall’eterna punizione di Minosse. Ma Icaro, ignorando i consigli paterni, «cominciò a gustare l’azzardo del volo, si staccò dalla sua guida e, affascinato dal cielo, si diresse verso l’alto. La vicinanza cocente del sole ammorbidì la cera odorosa, che saldava le penne, e infine la sciolse». Icaro, sotto gli occhi del padre, cadde nel mare. Pallade, patrona degli uomini d’ingegno, tramutò Icaro in una pernice, un uccello che «non si leva molto in alto e non fa il nido sui rami o in cima alle alture; svolazza raso a terra, depone le uova nelle siepi e, memore dell’antica caduta, evita le altezze».

Non solo storie di comuni uomini ma, anche, racconti che vedono protagonisti Dei e Dee. Storie che costarono care ad Ovidio ma che eternarono le bizze violente di umanissime divinità. Apollo, Diana, Venere e principalmente lui, il padre degli Dei, il peccaminoso Giove. Sono diversi i racconti nelle Metamorfosi che narrano dei travestimenti che Giove mise in atto pur di avere le sue prede. Come nel caso di Europa. Lei, figlia del re fenicio Agenore, mentre giocava sulla spiaggia fu rapita da Giove che, per l’occasione, aveva assunto le sembianze di un bellissimo toro. Europa «lo guarda meravigliata, bello com’è e senza intenti bellicosi. Prima però malgrado le appaia così mite, esita a toccarlo; ma poi gli si accosta e a quel candido muso porge dei fiori». Giove portò Europa sull’isola di Creta e dalla loro relazione nacquero tre figli: Sarpedone, Radamanto e Minosse. Il toro si dissolse e diede vita alla costellazione che porterà per sempre il suo nome.

Piccoli assaggi di magia. Poche righe per raccontare una storia infinita, per tornare bambini e ritrovare i racconti della nostra infanzia.

Il grande latinista Concetto Marchesi a proposito delle Metamorfosi scrisse:

L’arte di Ovidio non è soltanto attratta dal corpo che si tramuta, ma pure e specialmente dall’animo che inorridendo trasloca. Qui è la varietà grande e tragica del poema ovidiano. Lucrezio era stato poeta delle cause; Ovidio fu il poeta delle forme.

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