Il 13 maggio 1978, dopo solo venti giorni di discussione parlamentare, l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone firmò la legge 180 – nota anche come legge Basaglia – e l’Italia, a distanza di settantaquattro anni, da quel lontano 1904, aveva finalmente una nuova legislazione in materia di assistenza mentale. Fu un iter rapidissimo, in netta controtendenza con la consuetudine della politica italiana, una corsa contro il tempo, una vera e propria impresa. Quando nel dicembre del 1977 il relatore, lo psichiatra democristiano Bruno Orsini, depositò la sua proposta di legge, non immaginava certo che la stessa sarebbe stata approvata solo sei mesi dopo.
LEGGE BASAGLIA, LA GENESI
Foto tratta da “Morire di classe” (1969), il reportage realizzato da Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati
A rendere possibile quello che anche ai più ottimisti sembrava materialmente impossibile, furono essenzialmente due fatti. La minaccia del referendum promosso dai radicali per l’abrogazione della famigerata legge 36 del 1904 – che qualora fosse prevalso avrebbe lasciato un vuoto legislativo enorme non auspicato neppure dai detrattori della famigerata legge – e principalmente la pressione della storia, che fece vivere all’Italia, con trentatré anni d’anticipo, il suo 11 settembre.
Roma, 16 marzo 1978, in via Mario Fani le Brigate rosse rapiscono Aldo Moro, presidente della DC, trucidando i cinque membri della sua scorta. Da quel momento il nostro paese cade in un limbo che dura 55 drammatici giorni, con il più triste e scontato degli epiloghi.
Il 9 maggio il bagagliaio di una Renault 4, in via Caetani, a due passi dalla sede della Democrazia cristiana e da quella del PCI, spalanca le sue rosse fauci per mostrare l’inerme corpo di Moro.
In quegli incredibili giorni, in cui tutti vivono camminando su un filo sottilissimo sospeso sul baratro, anche la quotidiana attività parlamentare è duramente segnata. In quel clima di trepidante attesa e di spasmodica improvvisazione, la futura legge Basaglia – come ricorda nel suo bel libro Valeria P. Babini, Liberi tutti – è «esaminata, discussa, modificata e approvata dalle due commissioni» Sanità di Camera e Senato per poi essere votata il 4 maggio alla Camera e poi, alcuni giorni dopo al Senato, senza una vera e propria discussione. Una procedura decisamente inconsueta ma in quel drammatico 1978 – l’anno che sarà ricordato anche per aver visto ben tre papi, – il mondo politico tutto desidera, tranne che passare attraverso il vaglio delle urne referendarie.
La legge Basaglia prevedeva soli 11 articoli ma ciò che contava era l’effetto finale, assolutamente dirompente: i manicomi sarebbero stati chiusi.
La norma estendeva perentoriamente il diritto costituzionale della volontarietà del trattamento sanitario, sancito dall’articolo 32, anche ai malati di mente, prevedendo, salvo i casi previsti dal TSO, che «gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali [siano] attuati di norma dai servizi psichiatrici extraospedalieri».
Al netto delle critiche, che non furono poche specie fra i fautori della chiusura dei manicomi (Pannella la definì «un mediocre processo kafkiano»), la legge Basaglia ebbe il merito di affrontare una drammatica questione, seppur con un impianto troppo lacunoso che, infatti, creerà non poche problematiche in seguito.
FRANCO BASAGLIA E LA BATTAGLIA PER LA CHIUSURA DEI MANICOMI
Padre putativo di questa legge, che non a caso i media, seppur impropriamente, ribattezzano legge Basaglia, fu proprio lo psichiatra veneziano Franco Basaglia che alla trasformazione prima e alla chiusura dei manicomi poi, dedicò buona parte della sua vita.
L’incredibile avventura di questo medico, nato nel 1923, inizia nel 1961, quando sceglie di rinunciare alla carriera universitaria e presentare la domanda per il posto di direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, città di frontiera, lembo quasi dimenticato in quell’Italia che sta vivendo ancora il suo boom economico.
Quando Basaglia entra nel nosocomio friulano, costruito nella seconda metà dell’Ottocento dall’amministrazione asburgica da cui all’epoca Gorizia dipendeva, rimane letteralmente inorridito, definendolo «una discarica per i poveri e i devianti, un luogo di esclusione, dove c’erano cinquecento internati ma nessuna persona».
Ma Gorizia non è un unicum, purtroppo. I manicomi italiani, da nord a sud, sono la riproposizione in terra dell’inferno dantesco, dove la disperazione regna sovrana fra urla assordanti e un fetore insopportabile, gabbie dove sono rinchiusi lacerti di umanità.
Così Ada Merini ricordò anni dopo nel libro L’Altra verità il “suo” manicomio, dove trascorse dieci interminabili anni: «Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava canzoni sconce. Noi soli, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là».
Museo Laboratorio della Mente a Roma, dedicato alla storia dell’Ospedale Santa Maria della Pietà
Nella stragrande maggioranza degli ospedali psichiatrici italiani le cure sono pressoché limitate al temutissimo e discutibilissimo elettroshock, a trattamenti insulinici, a farmaci antipsicotici e ai disumani sistemi di contenzione a cui vengono costretti, anche per diverse ore, gli eterni ospiti dei manicomi. Perché nei manicomi è ancora facilissimo entrare ma è difficilissimo uscirne. Ma più della mancanza di vere e proprie cure, l’aspetto peggiore è la sistematica distruzione dell’identità che avviene dietro le sbarre del manicomio.
Adalgisa Conti così scrisse a proposito della sua esperienza manicomiale: «Esso condanna la donna alla perdita di ogni suo spazio privato e ad una vita collettiva, a violazioni continue di quella riservatezza e di quel pudore cui una “matta” non ha più alcun diritto e che tuttavia le vengono continuamente indicati come elementi indispensabili della sua normalità».
Franco Basaglia accoglie la sfida che quella tetra e sinistra istituzione gli lancia, cercando di ridare dignità a semplici esseri umani. Con il contributo di uomini e donne straordinari, prova a rendere umano un luogo di terribile terrore, attraverso piccoli ma fondamentali passi. Alla base della “rivoluzione goriziana” vi è il concetto di “istituzione aperta” che rompa il devastante isolamento a cui sono costretti la maggior parte dei pazienti con il solo risultato di annullarli del tutto. Gli spazi interni vanno aperti, magari abbattuti. Gli internati hanno il diritto di vedere il cielo, di sentire il calore del sole, il soffio del vento, la forza di un abbraccio, il sostegno di una parola, emozioni minime, ma a molti malati del tutto negate.
Basaglia tenta di trasformare l’ospedale di Gorizia sulla base dell’esempio della comunità terapeutica di Dingleton in Scozia, un remoto luogo dove lo psichiatra Maxwell Jones, nei primi anni Sessanta, aveva sperimentato la “follia” del manicomio aperto. A Gorizia in poco tempo è permesso ai malati di uscire dai reparti, di passare alcune ore insieme in giardino, di parlare fra loro, di incontrare i parenti, di comunicare perfino con gli infermieri.
Ricompaiono i pettini e principalmente le posate e i malati tornano a mangiare in maniera dignitosa, senza usare le sole mani o al massimo dei cucchiai in legno. I bagni ritrovano le porte che garantiscono un minimo di intimità e gli specchi ricollocati sopra i lavabi, restituiscono immagini di volti ormai sconosciuti. Le inferriate spariscono dalle finestre e dei semplici, comuni e colorati vestiti, sostituiscono le lugubri e informi uniformi. Basaglia, attraverso queste piccole trasformazioni, restituisce dignità, personalizzando la vita di esseri umani che le istituzioni avevano disumanizzato, trasformandoli in automi, in numeri, in nomi dimenticati utili solo per riempire degli spazi sulle schede mediche.
Viene aperto un bar gestito dai pazienti, colorate le sale dell’ospedale, inaugurata una biblioteca, organizzate delle feste e degli eventi, creato un giornale interno “Il Picchio” ma principalmente tornano a echeggiare le parole, che fendono il silenzio rotto solo da infinite urla. In pochi mesi nasce il sogno goriziano, l’inferno non è diventato un sogno ma ha dei contorni umani e i malati tornano ad essere persone e non brandelli di diversa umanità. Ma non tutti sono contenti.
Gorizia in quegli anni non è l’unico caso di un altro possibile manicomio. Esistono negli anni Sessanta altre isole felici nel disperato arcipelago manicomiale, dove psichiatri illuminati sperimentano un nuovo modo di affrontare la malattia mentale. Perugia, Reggio Emilia e principalmente Colorno. Qui, in questo lembo della pianura parmense, esiste un manicomio fra i più lugubri dello stivale. Quando l’assessore alla sanità Mario Tomassini lo visita ne rimane inorridito. Da semplice operaio, con la sola licenza elementare, Tomassini capisce un dramma che illustri cattedratici italiani fanno finta di non vedere. Vede corpi stipati come bestie, sente l’odore acre dell’urina, quello fetido delle feci, vede, principalmente, dei dannati fagocitati da quelle che dovrebbero essere soltanto delle istituzioni sanitarie.
Lo scandalo di Colorno viene fotografato, finisce sui giornali, crea scandalo e il nome di quello sconosciuto paese in provincia di Parma diviene, in poco tempo, noto in tutta Italia che, fatalmente, si accorge che, a due passi dalla civiltà, esiste l’orrore.
Foto tratta da “Morire di classe” (1969)
Tomassini affida l’incarico a Basaglia, che nel frattempo aveva lasciato Gorizia, travolto dalle furiose polemiche giornalistiche e giudiziarie seguite al caso Miklus. Questi è un “ospite” della struttura goriziana diretta da Basaglia che, il 26 settembre 1968, gode di una giornata di libera uscita, una delle più rivoluzionarie novità introdotte dallo psichiatra veneziano e dalla sua équipe. Ma Giovanni Miklus, un ex bracciante di origini slave internato nel manicomio nel 1951 per un tentato suicidio, quella mattina non la passa serenamente, godendosi appieno del ritrovato fascino di una breve libertà. Decide, al contrario, di uccidere a colpi di martello la moglie. Lo scandalo è totale; i giornali locali, con in testa “Il Piccolo”, mai tenero verso l’esperimento goriziano, parlano di fallimento del folle progetto di Basaglia. Per i denigratori del sogno goriziano quel dramma rappresenta l’inevitabile dimostrazione che le politiche promosse dal quel visionario medico siano inutili e pericolose.
Basaglia è devastato da quel fatto anche se le trasformazioni apportate a Gorizia non possono essere vanificate da un solo episodio, seppur gravissimo. È sul punto di lasciare tutto, avvertendo il peso di quell’omicidio. Alla fine rimane alla guida dell’ospedale di Gorizia ma per poco ancora; ormai, infatti, il suo tempo in quella struttura sembra aver raggiunto irrimediabilmente il capolinea.
Basaglia lascia, allora, Gorizia per Colorno e poi per l’ospedale psichiatrico di Trieste ma i tempi sono maturi per qualcosa di ancora più rivoluzionario dei manicomi aperti: la loro definitiva chiusura.
Per Basaglia e per gli altri psichiatri riformisti questi cambiamenti, seppur importanti, non sono più sufficienti. Rappresentano delle tappe di avvicinamento all’unico vero obiettivo che non può che declinare il superamento del manicomio attraverso la sua definitiva soppressione. D’altra parte, come affermò lo scienziato Giulio Alfredo Maccararo, «La liberazione dell’uomo non è un progetto, è un processo».
Nel frattempo, nel 1969, in piena contestazione studentesca, la casa editrice Einaudi pubblica Morire di classe. La condizione manicomiale, un libro fotografico, con l’aggiunta di testi di Basaglia, che mostra senza remore la realtà di quegli inferni in terra, «ciò che resta di un uomo dopo che l’istituzione, deputata alla sua cura, lo ha sistematicamente distrutto, annientato».
Il sogno di Basaglia – anche grazie all’effetto dirompente del libro e di un documentario, I Giardini di Abele di Sergio Zavoli, in cui si racconta la straordinaria avventura di Gorizia – si materializza in una fredda giornata del gennaio 1977.
Nel corso di una conferenza stampa annuncia che «l’impossibile [diventava] possibile» e che in quello stesso anno il San Giovanni di Trieste sarebbe stato definitivamente chiuso. Il caso triestino spinge politica e media ad occuparsi della questione dei manicomi italiani, cercando soluzioni diverse al problema della malattia mentale.
Quegli input fondamentali si traducono nella legge Basaglia, una legge imperfetta. Basaglia la definisce un provvedimento transitorio, nato per evitare il referendum, che, però, ha il merito di serrare per sempre i cancelli di quegli inferni in terra, quello spazio «chiuso e spalancato» – come lo definirà anni dopo Giorgio Manganelli – dove «il tempo stesso viene meno, le notti si dilatano, i giorni non hanno limite né scansione, gli eventi, mossi unicamente dalla violenza del nume, continuamente accadono, lo stesso gesto, l’accadimento ripete se medesimo in una sorta di sublime balbuzie».
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