Roma è una città unica per i suoi monumenti, per il suo passato millenario, per il ruolo che da sempre recita nel mondo ma anche per le storie di alcuni animali, reali o mitologici poco importa, che sono entrati di diritto nella leggenda di questa città.
Questo è un viaggio fra lupe, oche, cavalli, elefanti, leoni e pantere, un bestiario romano, un ponte fra storia e leggenda.
LA LUPA CAPITOLINA, IL SIMBOLO DI ROMA
Questo zoofilo itinerario comincia, e non potrebbe essere altrimenti, dal simbolo di Roma, dalla mitica Lupa Capitolina.
Tutto ha inizio il giorno in cui una lupa in cerca d’acqua trova una cesta dal prezioso contenuto. Così Tito Livio, nella sua Storia di Roma racconta quel leggendario episodio:
«Persiste ancora la tradizione che, quando le acque poco profonde lasciarono in secco l’ondeggiante canestro nel quale i bimbi erano stati abbandonati, una lupa assetata, scesa dai monti circostanti, fu attratta dai loro vagiti; che essa, abbassatasi, offrì le sue poppe ai piccini con tanta mansuetudine, che il mandriano del re, dicono si chiamasse Faustolo, la trovò nell’atto di lambire i bimbi con la lingua…»
I due bambini adagiati nella cesta, placidamente trasportata dalle acque del Tevere e che si incaglia alle pendici del Palatino, sono Romolo e Remo, i figli gemelli di Rea Silvia, la vestale, figlia di Numitore, il re di Alba Longa deposto dal perfido fratello Amulio. Questi, infatti, temendo che i nipoti una volta divenuti grandi possano avanzare rivendicazioni dinastiche, decide di farli gettare nel fiume.
Ma quell’usurpatore di troni non fa i conti con la sorte che manda all’aria il perfido piano.
Un bellissimo mito al quale, però, i romani, fin da subito, stentano a credere.
La lupa capitolina
Lo stesso Tito Livio, che pure aveva eternato quella leggenda, nutriva seri dubbi sulla reale veridicità, intravedendo nella lupa del racconto le fattezze della meno romantica Larenzia, la moglie di Faustolo, che, dedita al meretricio, specie con i pastori della zona, era nota come la lupa, termine che designava, oltre il famelico animale, anche una comune prostituta.
Leggenda o no, la lupa, intendendo in questo caso il nobile animale, si impone come la madre putativa dei gemelli, diventando un simbolo non solo letterario ma anche artistico, tanto che già nel IV secolo a.C., la scena della fiera che allatta Romolo e Remo, all’interno della grotta del Lupercale, viene raffigurata nel cosiddetto Specchio di Bolsena.
Si tratta, come osservato dal noto archeologo Andrea Carandini, della più antica raffigurazione del mito, meritoria anche perché certifica la definitiva rottura della gemellarità, mostrando come il conflitto mortale, alla base della fondazione della città, fosse già iscritto nel racconto. Romolo, infatti, non guarda suo fratello Remo, bensì Latino, il re dell’omonimo popolo che, comprendendo il ruolo futuro che l’infante eserciterà, allunga la mano verso di lui, a sottolineare una sorta di naturale passaggio di consegne.
Ma la rappresentazione più celebre della lupa è senza dubbio quella che da secoli campeggia all’interno dei Musei Capitolini, la celebre scultura in bronzo, iconico stigma di Roma e della romanità.
Realizzata probabilmente nel V secolo a.C., la lupa capitolina, stando almeno alle fonti, in origine era collocata all’interno del Lupercale, la leggendaria grotta, posta alle pendici del Palatino che accolse Romolo e Remo. In seguito la statua fu spostata prima nel Laterano e, successivamente, nella chiesa di San Teodoro, dove rimase fino al 1471, quando traslocò nuovamente.
A volerlo fu papa Sisto IV che, nel donarla ai romani, la fece porre all’interno del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, da dove la lupa capitolina non si muoverà più.
Quella che videro i romani, tuttavia, non era la statua che oggi, urbe et orbi, è universalmente nota. Mancavano, infatti, i celebri gemelli, cinquecentesca aggiunta, forse per mano di Antonio del Pollaiolo.
Ma la lupa capitolina non fu solo una leggenda o una statua ma anche, purtroppo, un animale in carne e ossa.
Nel 1872, a due anni dalla Breccia di Porta Pia, l’allora sindaco Pietro Venturi, pensando di fare cosa gradita ai romani, deliberò di collocare alle pendici del Campidoglio, sul lato prospicente via del Teatro Marcello, una gabbia all’interno della quale mettere un esemplare di lupo. Fu talmente convinto di ciò che nel provvedimento, datato 28 agosto 1872, statuì anche l’ammontare delle spese per il mantenimento dell’animale, pari a 23,50 lire mensili.
L’esibizione del povero animale andò avanti per decenni, scavallando tranquillamente il secolo. In pieno fascismo, a far compagnia alla lupa capitolina, arrivò un’aquila, che occupò, debitamente divisa, la parte superiore della gabbia, aviario simbolo del nascente impero mussoliniano.
La caduta del regime e l’avvento della Repubblica non mutarono il triste destino della lupa che, rimasta orfana dell’aquila, continuò ad abitare l’angusta gabbia, percorrendola in un moto perenne, al punto da stimolare la notoria ironia dei romani che eternarono quel movimento infinito in un icastico detto: “me pari la lupa del Campidoglio” a voler significare una persona che non si ferma mai.
Ma la lupa non fu la sola a far parlare di sé.
LE OCHE DEL CAMPIDOGLIO E IL LEONE DI ANDROCLO
Roma, 390 a.C. I Galli, guidati dal loro re Brenno, dopo aver messo a ferro e fuoco Roma, decidono di assaltare il Campidoglio, il luogo più sacro della Città Eterna. Ma l’attacco non va a buon fine perché le oche sacre del tempio di Giunone, che i romani pur affamati avevano risparmiato in ossequio alla divinità, udendo dei rumori, iniziano a starnazzare. Le grida delle oche svegliano i soldati romani e in primis l’ex console Mallio che, come racconta Plutarco, noto per il suo coraggio, grazie anche all’ausilio di altri soldati romani, mette in fuga i Galli, salvando il sacro colle capitolino.
Meno nota, invece, è la storia del leone di Androclo.
La leggenda, narrata da Claudio Eliano e Aulo Gellio, probabili riadattamenti di una favola di Fedro, racconta di come un giovane schiavo di nome Androclo, dopo essere scappato dal suo padrone, si rifugia in Africa, dentro una confortante caverna.
Ma in quella grotta non è, purtroppo per lui, il solo inquilino.
C’è, infatti, anche un grosso leone che, per fortuna di Androclo, ha ben altro a cui pensare. Il felino, infatti, patisce da giorni a causa di una spina conficcatasi in una zampa. La condizione in cui versa il leone suscita la pietà dell’ex schiavo che, fattosi coraggio, decide di togliere la spina, donando un inaspettato sollievo alla dolorante fiera.
Quel bel gesto, tuttavia, non porta fortuna ad Androclo che, di lì a poco, viene catturato dai romani e condotto in ceppi nell’emiciclo del Circo Massimo.
La vita per il giovane è appesa a un filo, la sua salvezza dovrà passare attraverso un duello all’ultimo sangue con una belva feroce. Ma ecco che avviene l’imprevisto. Il leone che ruggisce al cospetto di Androclo è lo stesso che, tempo addietro, il giovane aveva conosciuto nella grotta.
Così Aulo Gello:
«Quando la belva vede Androclo da lontano, si avvicina in maniera calma e poco alla volta all’uomo sventurato, scuote la coda giocosamente, alla maniera dei cani, e, con la lingua, lambisce delicatamente il corpo dell’uomo. Androcolo, stupito e lieto, riconosce l’animale feroce. A quel punto l’imperatore libera di fronte al popolo l’uomo e l’animale.»
IL CAVALLO INCITATUS E L’ELEFANTE ANNONE
Non solo animali mitici ma anche fiere in carne e ossa, le cui gesta, però, sono divenute egualmente leggendarie.
Uno di questi è Incitatus, il cavallo preferito di Caligola. Ecco come Svetonio, non proprio un agiografo del giovane imperatore, figlio del grande Germanico, racconta dei privilegi riservati al fortunato quadrupede:
«[Caligola] era solito portarsi a cena uno dei suoi cavalli, che aveva chiamato Incitatus, e gli offriva orzo e beveva vino alla sua salute da calici dorati; giurava sulla vita e il destino dell’animale e si ripromise anche di nominarlo console, una promessa che avrebbe sicuramente mantenuto se avesse potuto vivere più a lungo.»
Ma le fortune di Incitatus si concludono precocemente il 24 gennaio del 41 d.C., quando Caligola, dopo solo quattro anni di regno, cade vittima di una congiura per mano dei pretoriani.
Due raffigurazioni del Leone di Androcolo e dell’elefante di Annone
Da un cavallo a un elefante il passo è breve.
Roma, 12 marzo 1514. Nella città eterna fa il suo trionfale ingresso uno stupendo esemplare di elefante, animale che in pochissimi possono legittimamente vantare di aver visto.
Si tratta del dono che il re del Portogallo, Manuel d’Aviz, ha voluto fare a Papa Leone X. Il pontefice è entusiasta di quel regalo ma non è il solo. Anche i romani si affezionano al pachiderma che papa Medici ha voluto chiamare Annone, riservandogli trattamenti davvero principeschi.
Per lui fa costruire una stalla speciale, collocata nei giardini vaticani ma va anche oltre, nominando il protonotario Gian Battista Branconio come preposto alle cure del pachiderma.
Ma le premure papali non sono sufficienti a lenire la malinconia dell’elefante per i grandi spazi africani. Il 16 giugno 1516 Annone muore, gettando il pontefice nello sconforto più totale. È tale il dolore che il papa decide di far sotterrare l’animale nei Giardini del Belvedere, con buona pace di coloro esterrefatti da una simile disposizione.
Nel 1962, a seguito di alcuni scavi, riemergono i resti di Annone e la fama di quel pachiderma torna, magicamente, a riecheggiare per le strade di Roma.
LA LEONESSA ITALIA E LA PANTERA STUDENTESCA
L’abitudine dei potenti di circondarsi di esotici animali non è stata una prerogativa solo di imperatori e papi. Anche Benito Mussolini non fu esente da un simile vezzo.
Nel novembre del 1923, a poco più di un anno dalla Marcia su Roma, il capo del fascismo decide di dividere il suo appartamento romano di via Rasella, che anni dopo sarà teatro di fatti ben più noti, con un cucciolo di leone, gradito dono del proprietario di un circo.
La convivenza con la fiera, tuttavia, sciovinisticamente ribattezzata Italia, non è semplice anche per le ferme e reiterate proteste della governante del duce, Cesira Carocci, indispettita dall’odore del felino.
Alla fine Mussolini cede.
Dopo essersi fatto riprendere più volte con Italia, seppur a malincuore, rinuncia al leone. La bestiola finisce in una gabbia del Giardino Zoologico di Roma ma Mussolini, anche per fini propagandistici, va spesso a trovarla. D’altra parte farsi fotografare con il felino è uno spot ideale per chi, da anni, ha fatto propria la frase «meglio un giorno da leone che cento da pecora» che anni prima, all’indomani della fatale Caporetto una voce anonima aveva pronunciato per la prima volta nelle trincee italiane.
In tema di felini l’ultimo capitolo di questo bestiario capitolino è dedicato a una pantera, anzi alla pantera, quella che divenne nel 1990 il simbolo del movimento studentesco.
Tutto ha inizio il 27 dicembre 1989 quando a Roma, sulla trafficatissima via Nomentana, viene avvista una pantera.
Nei giorni successivi gli avvistamenti del nero felino proseguono, scavallando, facilmente, il nuovo anno. La pantera che si aggira indisturbata per le vie di Roma si trasforma, grazie alla fantasia di due pubblicitari, nello slogan, “la Pantera siamo noi” motto perfetto per le ambiziose rivendicazioni del movimento studentesco che, da Palermo a Milano protesta contro la riforma universitaria.
E alla fine di questo zoologico viaggio, non resta che tornare al punto di partenza, a quella lupa capitolina, a cui il grande Trilussa dedicò questi memorabili i versi:
«Er giorno che la Lupa allattò Romolo
nun pensò né a l’onori né a la gloria:
sapeva già che, uscita da la Favola,
l’avrebbero ingabbiata ne la Storia.»
Le foto della Lupa capitolina sono di Marco Lustri.
Per approfondire:
Leggi anche: Lupa di Siena, storia di un simbolo dalle origini antiche