Lyndon Johnson fu il 36° presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1963 al 1969. Il suo nome, però, è da sempre inevitabilmente legato all’assassinio di John Kennedy e alla guerra in Vietnam. Ridurre, tuttavia, la presidenza di Lyndon Johnson a quei soli due avvenimenti, seppur drammatici e nodali per la storia americana, non è soltanto sbagliato ma anche fuorviante, perché, come scritto da Massimo Gaggi, editorialista di punta del Corriere della Sera, Johnson è stato «il più grande riformatore del Dopoguerra americano».
Questo è il racconto di un presidente per caso.
I PRIMI PASSI IN POLITICA DI LYNDON JOHNSON
Lyndon Baines Johnson nasce a Stonewall, in Texas, il 27 agosto 1908. La sua è una tipica famiglia del Sud degli Stati Uniti, contadina e povera, una condizione di cui il futuro presidente non si vergognerà mai e che, anzi, sarà spesso la molla per il suo impegno per i diritti civili, di cui fu, al netto di ogni considerazione politica sulla sua figura, un assoluto e convinto protagonista.
Prima di entrare in politica Johnson svolge diversi lavori per mantenersi, tutti decisamente umili, tra cui il lavapavimenti o il custode. Il grande salto avvenne quando il deputato democratico, il texano Richard M. Kleberg, gli offre un posto come segretario. Con quell’impiego Johnson non solo può iscriversi all’università, scegliendo la facoltà di Legge alla Georgetown University, ma riesce anche entrare in politica, un mondo che lo affascina immediatamente.
Conosce il presidente degli Stati Uniti Roosevelt ed entra nello staff che si occupa del New Deal, il grande programma di investimenti economici promosso per risollevare l’America dopo la terribile crisi del 1929.
Nel 1937 è eletto nelle file dei democratici alla Camera dei Rappresentanti, non ha neppure trent’anni ma è ambizioso e desideroso a raggiungere il potere con ogni mezzo, anche quello meno “lecito”.
Nel 1941 Johnson si candida alle primarie democratiche per il seggio senatoriale dello stato del Texas. La vittoria sembra scontata, anche per la scarsa rilevanza politica dell’altro sfidante, il semisconosciuto Wilbert Lee O’Daniel, ma l’esito delle urne riserva un risultato ben diverso da quello sperato.
Lyndon Johnson, nonostante l’impegno profuso e una notevole quantità di denaro spesa, viene battuto, ma quella disfatta, l’unica di tutta la carriera politica del futuro 36° presidente degli Stati Uniti, rappresenterà una vera e propria svolta.
Quell’inattesa sconfitta non lo deprime, tanto che sette anni dopo si ricandida per un seggio al Senato e questa volta la vittoria non gli sfugge. Quel ragazzo, nato nei primi anni del XX secolo, di strada ne ha fatta, anche grazie all’esperienza come soldato nel secondo conflitto mondiale. Si è fatto più audace, più scaltro, decisamente smaliziato e molto spregiudicato.
Il risultato di questo mutamento arriva nel 1948 quando Lyndon Johnson vince su Coke Stevenson nell’elezione per un posto in Senato. La vittoria, come più di qualche commentatore fa subito notare, non è delle più limpide. In corso di scrutinio, infatti, compaiono improvvisamente più di 200 schede, su cui campeggia, ovviamente, il nome di Lyndon Johnson e che, alla fine, fanno la differenza, regalando all’ex ragazzo di Stonewall la desiderata vittoria.
A proposito di quell’affermazione, il giornalista Robert Allan Caro, che a Johnson dedicò una corposa biografia, così si espresse:
«Lyndon Johnson aveva provato a comprare uno Stato e, nonostante avesse pagato il prezzo più alto nella storia del Texas, aveva fallito. Quindi, ora era il tempo di rubarlo.»
Il successo del 1948 proietta Johnson nelle alte sfere del partito democratico, dove, in virtù anche di opportuni rapporti politici e lobbystici, nel frattempo intessuti, si muove con naturalezza e agilità, doti che non passano inosservate e che lo rendono un politico invidiato e al tempo stesso temuto.
Nel 1960 ecco arrivare per Johnson un regalo del tutto inatteso. Il candidato democratico alle elezioni presidenziali, il giovane e fascinoso John F. Kennedy, lo sceglie come suo vice.
Si tratta di una scelta apparentemente inspiegabile.
I due sono profondamente diversi per personalità, estrazione sociale, educazione ed esperienze politiche. Oltretutto i rapporti fra il clan dei Kennedy, con in testa Robert, e Johnson non sono certo idilliaci ma Parigi val bene una messa e quell’accordo, alla fine, viene stipulato.
Per il giovane Kennedy il ticket elettorale con Johnson, per quanto indigesto, è strategico per ottenere la Casa Bianca. Johnson, infatti, può portare in dote i “pesanti” voti degli stati del Sud, specie quelli Texas, che nel segreto dell’urna possono fare la differenza.
1963: LYNDON B. JOHNSON DIVENTA PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI
Le presidenziali del 1960 arridono a Kennedy e Johnson si ritrova vicepresidente degli Stati Uniti, una carica che quando era un giovane manovale, non avrebbe mai neppure immaginato.
Ma le tensioni fra Kennedy e Johnson, che la dura campagna elettorale contro Nixon avevano solo sospeso, riesplodono all’indomani della vittoria. Il nuovo presidente relega il suo vice in un angolo, circondandosi di collaboratori di fiducia, tra cui, soprattutto, il fratello Robert.
Johnson mastica amaro, quel ridimensionamento non gli piace, ma non può fare più di tanto e, obtorto collo, deve accettare.
L’attenzione dei media e della gente è tutta per il giovane presidente, mentre le luci della ribalta nemmeno sfiorano il volto sempre più cupo del politico texano. Ma questa situazione muta in un batter d’occhio il 22 novembre 1963 quando a Dallas, durante l’ultima tappa di un viaggio in Florida e Texas, organizzato da Kennedy per raccogliere consensi al suo programma per i diritti civili, il presidente americano viene ucciso.
A sparare a Kennedy, mentre la limousine presidenziale scoperta attraversa lentamente Dealey Plaza, è Lee Harvey Oswald, un soggetto psichicamente instabile e dal passato oscuro.
La morte di Kennedy, al netto delle diverse tesi su un presunto complotto (si ipotizza il ruolo di Fidel Castro, quello dell’Unione Sovietica, addirittura quello dello stesso Johnson che a Dallas era di casa) proietta quel dimenticato vice sul tetto del mondo, il primo presidente meridionale nella storia americana, un uomo che, come ebbe a dire il celebre corrispondente Rai da New York, Ruggero Orlando, la mitica voce dell’allunaggio, «è un western e al tempo stesso un washingtoniano, un uomo saturo di esperienza politica ed è al tempo stesso ancorato a questo cuore dell’America agricola e petroliera che è il Texas.».
Il 22 novembre 1963, mentre l’America piange John Kennedy, Lyndon Baines Johnson, sull’aereo che sta riportando la bara con dentro il corpo di Kennedy, giura davanti al giudice Sarah Hughes come nuovo presidente degli Stati Uniti. Lo fa ponendo la mano non sull’abituale bibbia, come la tradizione vuole ma su un messale cattolico, quello utilizzato dai Kennedy visto che sull’aereo presidenziale una bibbia non si trova ma per l’ultracinquantenne figlio del Sud va benissimo anche un messale cattolico, anche quello del poco amato, per Johnson, ex presidente degli Stati Uniti.
Fin dalle prime ore successive al giuramento Johnson si spende come non mai per rassicurare gli americani che la sua politica sarà nel solco di quella del suo predecessore, come conferma ufficialmente l’8 gennaio 1964, in occasione del tradizionale messaggio sullo stato dell’Unione:
«Intendiamo realizzare i piani e i programmi di J.F. Kennedy non per onorarne la memoria ma perché sono ciò di cui il paese ha bisogno.»
Alcuni mesi dopo, il 22 maggio 1964 all’università del Michigan, Johnson presenta la Great Society, l’ambizioso programma di riforme, basato su diverse, fondamentali direttrici: la lotta alla povertà, l’estensione del diritto alla salute a tutti i cittadini americani, il miglioramento dell’istruzione pubblica l’impegno per la tutela ambientale e, soprattutto, la fine delle ingiustizie sociali, tutti aspetti che Johnson pone nella sua agenda politica volta a migliorare sensibilmente la vita degli americani, il vero, grande obiettivo della Great Society.
A quelle parole seguono, nel giro di poco tempo, significativi fatti, innanzitutto nell’ambito del contrasto alla povertà che vedrà alleato con il presidente il Congresso americano. Così lo storico Giuseppe Mammarella, nel suo “Storia degli Stati Uniti dal 1945 ad oggi“, sull’attivismo di questi primi mesi e sul ruolo determinante dell’organo legislativo:
«A Johnson, maestro nell’arte di convincere, perfezionata nel corso di un trentennio di vita parlamentare, il Congresso concesse quasi tutto. Nell’arco di pochi mesi passavano la legge sui finanziamenti sui finanziamenti federali all’università, quella per la riduzione delle tasse, anch’essa proposta da Kennedy, che prevedeva tagli per 7.7 miliardi nel ’64 e 11 e mezzo nel ’65.»
La politica di drastica riduzione fiscale determinerà, già nel 1965, l’aumento del PIL del 10% uno dei dati migliori mai ottenuti dall’economia americana.
Ma questi primi provvedimenti sono solo l’inizio.
Sul piatto rimane l’annosa questione dei diritti civili, un argomento che in un’America ancora troppo segregazionista, nonostante alcuni significativi passi avanti specie all’indomani della protesta messa in atto da Rosa Parks, è ancora considerato da molti un “non problema”.
Il 2 luglio 1964 arriva la svolta. Johnson mette la sua firma in calce al Civil Rights Act, la legge federale che dichiara illegali non solo le disparità di registrazione nelle elezioni ma anche e soprattutto la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche in generale.
Una legge, frutto di un complesso compromesso, partorita dopo 83 giorni di serrato dibattito (al Senato passò con 73 voti a favore contro 27) e che viene salutata dai leader della comunità nera, con l’eccezione dell’ala radicale legata a Malcom X, come «una delle più importanti misure legislative degli ultimi decenni» un «gigantesco passo avanti a vantaggio non solo dei cittadini neri ma di tutto il paese.»
LA STORICA VITTORIA CONTRO BARRY GOLDWATER
Approvato il Civil Rights Act c’è ora una campagna elettorale da approntare, vista l’imminenza del voto. A sfidare Johnson, la cui candidatura nelle file democratiche non viene mai messa in discussione, sarà Barry Goldwater, il senatore repubblicano dell’Arizona ed esponente di punta dell’area più conservatrice del partito, fermo oppositore della legge sui diritti civili a cui si era opposto, motivando il suo voto contrario con il fatto che non si potesse «legiferare sulla moralità.»
Goldwater aveva inaspettatamente primeggiato nelle primarie repubblicane sul favorito Nelson Rockefeller, il governatore di New York, leader della fazione più moderata del partito e che aveva pagato, oltre al suo essere forse troppo moderato, quasi una copia in salsa repubblicana di Johnson, anche la decisione di sposare, lui che era già divorziato, la divorziata Margaretta Large Fitler, una scelta che il bigotto elettorato repubblicano poco condivide.
La vittoria di Goldwater, pur netta (stacca Rockefeller di oltre 960 mila voti), spacca, tuttavia, il partito repubblicano, i cui iscritti non si riconoscono totalmente nella politica aggressiva del senatore dell’Arizona.
A non piacere all’ala più moderata dei repubblicani sono gli accenni razzisti, la politica economica eccessivamente liberista, con tanto di proposta di smantellamento del Welfare State e, soprattutto, le idee di Goldwater riguardo alla guerra nucleare, posizioni che avevano allarmato lo stesso Rockefeller che nel corso delle primarie aveva più volte sottolineato il rischio per la stabilità mondiale se a vincere fosse stato Goldwater.
I timori sull’animus pugnandi di Goldwater erano in buona parte legati a un discorso che il candidato repubblicano aveva fatto nel maggio del 1964 nel quale aveva sostenuto come le armi nucleari dovessero essere riconsiderate, in un’ottica più ampia, come armi convenzionali da usare in Vietnam e magari anche in altri contesti dove la libertà e la supremazia statunitense fosse stata messa a rischio.
In questo clima da ultima crociata si arriva al fatidico giorno delle votazioni. Il 3 novembre 1964 il verdetto che esce dalle urne ha davvero dell’incredibile, con contorni storici.
Alla base dell’incredibile vittoria c’è la maggiore autorevolezza di Lyndon Johnson, l’eccessivo conservatorismo di Goldwater, la netta posizione della comunità nera a favore di Johnson (oltre l’85% voterà per l’ex vice di Kennedy) ma anche l’aggressiva campagna elettorale condotta da quest’ultimo e che toccò l’apice con il celebre e controverso spot “Daisy” che giocava sulla paura di un conflitto nucleare, lasciando intendere come la politica militare aggressiva e spregiudicata promossa da Goldwater avrebbe portato il Paese alla catastrofe.
Lo spot, ideato dall’agenzia DDB e che rompe gli ingessati schemi della pubblicità politica dell’epoca, va in onda in tv una sola volta, durante un film in prima serata, scatenando le dure reazioni dei repubblicani, ma l’effetto dirompente di quel cortometraggio non si attenua e “Daisy” fa parlare di sé per diversi giorni, nonostante il suo immediato ritiro.
L’affermazione di Johnson, la più schiacciante mai riportata da un presidente americano dal 1820, ha numeri da record: oltre 43 milioni di voti, pari al 61%, 486 grandi elettori e la quasi totalità degli stati americani, 44 su 50, compresi quegli Stati, da sempre repubblicani, come il Vermont, il Kansas, l’Indiana e il Nebraska che vengono conquistati per la prima volta da un candidato democratico.
Al rivale Goldwater rimangono davvero le briciole, ovvero i 27 milioni di voti, una manciata di stati del Sud, che come lo stesso Johnson aveva pronosticato al momento di porre la firma sul Civil Rights Act avevano rotto con i democratici passando ai repubblicani e, ovviamente, l’Arizona, lo stato di Goldwater.
IL SECONDO MANDATO DI JOHNSON, IL DECLINO DI UN PRESIDENTE
Da buon texano Johnson dopo aver appreso l’esito del voto si concede a favore delle telecamere prima una breve cavalcata e, poi, un gustoso barbecue in compagnia del suo vice Hubert Humphrey. Le prime dichiarazioni che rilascia sono scevre da trionfalismo ma tutte improntate a riconoscere l’eredità di John Kennedy.
Anche questo secondo mandato si apre, dunque, nel segno del presidente ucciso a Dallas, ma la realtà sarà per Johnson ben più difficile di quanto potesse realisticamente immaginare.
Sarà l’escalation della guerra in Vietnam e l’aggravarsi della questione razziale, con l’esplosione in vari sobborghi urbani della violenza nera, a minare la popolarità di Johnson e ad affondare in corso d’opera un suo terzo mandato.
La questione vietnamita, ereditata da Johnson, già a partire dall’estate del 1964 si era acuita, assumendo i toni più netti di un vero e proprio conflitto. L’aumento degli attacchi aerei sul Nord del Vietnam, unitamente all’invio immediato di 50 mila soldati erano i segni evidenti di come la strategia militare americana fosse decisamente mutata, di fatto gli Stati Uniti, come osservato da Giuseppe Mammarella, «si ritrovarono inequivocabilmente in guerra senza che il paese, dove già si manifestavano le prime azioni di protesta contro i bombardamenti, avesse tempo e modo di acquistarne coscienza.»
L’intervento militare americano in Vietnam, inizialmente concepito nell’alveo di una strategia difensiva volta a contenere l’espansione comunista, era mutato in corso d’opera, proiettando gli americani in una guerra lunga, insidiosa e costellata di inattese e cocenti sconfitte che avranno risvolti politici e sociali determinanti.
L’andamento del conflitto in Vietnam, via via sempre più disastroso, scava intorno alla presidenza Johnson un fossato enorme, invalicabile. Il presidente che le folle acclamavano all’indomani della trionfale vittoria su Goldwater è ora sempre più isolato, incompreso, perfino odiato.
Gli americani gli imputano la conduzione insensata di una guerra, una colpa solo in parte riconducibile a Johnson, i tantissimi morti, il pantano in cui sembrano trovarsi gli Stati Uniti, una condizione resa perfettamente dalle parole che lo stesso presidente pronuncia all’indomani dell’ennesimo fallimento delle trattative per una pace con i rappresentanti del Vietnam del Nord:
«Mi sento come un autostoppista colto da una grandinata su un’autostrada del Texas. Non posso scappare. Non posso nascondermi. E non posso farla cessare.»
Ma gli anni del secondo mandato di Johnson sono segnati anche dall’intensificarsi della protesta nera, un fronte che si apre ufficialmente nell’agosto del 1965 assumendo forme sempre più intense e drammatiche.
LO SCOPPIO DELLA QUESTIONE RAZZIALE E L’USCITA DI SCENA DI JOHNSON
Watts, sobborgo di Los Angeles, 11 agosto 1965. È l’alba quando Marquette Frye viene arrestato dall’agente di polizia Lee Minikus per guida in stato di ebrezza. Poco dopo si presentano alla stazione di polizia i parenti di Minikus per chiedere la restituzione del veicolo, ottenendo un esplicito diniego.
La notizia di quel fermo rifiuto fa il giro del sobborgo, abitato per il 97% da neri. La gente inizia a scendere in strada e in breve tempo il quartiere, da sempre una polveriera, diviene teatro di saccheggi, distruzioni, sparatorie. La protesta va avanti per diversi giorni, arrestandosi solo il 16 agosto, quando la Guardia Nazionale, intervenuta per sostenere la polizia locale, non reprime la rivolta riportando a fatica la calma.
Ma a carissimo prezzo.
Sulle strade di Watts rimangono i corpi di 34 persone, di cui 28 neri. Gli arresti sono quasi quattromila, mentre i feriti sono più di ottocento. Per le vie del sobborgo il senso di devastazione è evidente, tra vetrine infrante, auto bruciate e molti altri danni il cui ammontare supera varie decine di milioni di dollari.
I fatti di Watts sono la punta di un immenso iceberg, la dolorosa conferma di come la questione razziale sia, in America, ancora un problema ben lungi dall’essere risolto.
La protesta dei neri si ripete anche negli anni a seguire segnando realtà quali Cleveland, Chicago, Atlanta, Newark e perfino Detroit.
Il dramma vietnamita unito all’escalation sociale minano le fondamenta del potere di Johnson che il 31 marzo 1968 annuncia ufficialmente la sua decisione di non presentare la sua candidatura per un terzo mandato, nonostante costituzionalmente possibile, visto che il primo mandato, quello seguito alla morte di Kennedy era durato meno di due anni.
Alla base della decisione c’è la consapevolezza di aver fatto il suo tempo, di non essere più un nome aggregante all’interno del partito democratico. Il presidente agli occhi di molti democratici è il rappresentante di una politica vecchia, superata, specie ora che sulla scena si sono affacciati personaggi quali Eugene McCarthy, espressione di quella Nuova Sinistra che invoca il pacifismo e soprattutto Robert Kennedy, il fratello del celebre John, da molti ritenuto il candidato più autorevole per la Casa Bianca ma che sarà ucciso il 6 giugno di quel fatale 1968 che, due mesi prima, aveva visto anche l’assassinio, a Memphis di Martin Luther King.
Il 29 gennaio 1969 Lyndon Baines Johnson lascia definitivamente la politica passando le consegne al nuovo presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Richard Nixon che, nove anni prima, era stato sconfitto da John Kennedy nelle trionfali elezioni del 1960.
Lasciata la Casa Bianca, Lyndon Johnson si ritira nella sua Stonewall dove muore il 22 gennaio 1973, stroncato da un infarto all’età di sessantaquattro anni.
A proposito della sua battaglia per i diritti civili una volta disse:
«Fino a quando la giustizia non sarà cieca al colore, fino a quando l’istruzione non sarà inconsapevole della razza, fino a quando l’opportunità non sarà indifferente al colore della pelle degli uomini, l’emancipazione sarà un proclama ma non un fatto.»
Foto di copertina: “Lyndon B. Johnson at National Portrait Gallery” di Billy Hathorn, CC0, via Wikimedia Commons [dimensioni 1140*600]
Per approfondire:
Leggi anche: “Ero stanca di cedere”. Il gesto rivoluzionario di Rosa Parks Una notte da immortalare, quella dello sbarco sulla Luna