Di una possibile marcia su Roma si iniziò a parlare negli ambienti fascisti a partire dall’agosto del 1922. Nel mese usualmente dedicato dagli italiani al riposo fisico e mentale – una tradizione che affondava le radici addirittura nell’impero romano con le celebre Feriae Augusti, istituite dall’imperatore proprio per concedere un breve riposo dopo le fatiche della coltivazione e della mietitura – alcuni importanti esponenti fascisti cominciarono a ragionare sulla possibilità di realizzare un’azione eclatante, da compiere nella capitale nelle prime settimane d’autunno.

MARCIA SU ROMA, LE PRIME AVVISAGLIE

Al netto di secche smentite, di timide ammissioni o anche di goffe interpretazioni esegetiche, la voce di una possibile marcia su Roma si diffuse rapidamente negli ambienti politici e non solo, tanto che, dopo l’occupazione fascista di Rimini, Palmiro Togliatti scrisse un articolo che, a partire dall’icastico titolo, rendeva palesi alcune idee dei sostenitori di Mussolini: Il Fascismo alla conquista della capitale (“L’Avanti”, 6 agosto 1922).

Il dibattito su come affrontare la situazione politica era nel Partito Nazionale Fascista piuttosto acceso. La preoccupazione dei fascisti della prima ora era proiettata sull’immediato futuro. Il timore di alcuni era che la trasformazione dell’originario movimento in partito, avvenuta non senza discussione nel corso del terzo congresso nel novembre del 1921, avesse snaturato la stessa organizzazione politica che, era sì cresciuta dal punto di vista degli iscritti (superavano abbondantemente le trecentomila tessere), ma ora rischiava di perdere quell’originario carattere movimentista, che da sempre l’aveva contraddistinta specie nell’ingessato panorama politico italiano.

Serviva, dunque, un’azione clamorosa, superiore per importanza e partecipazione a quelle che nei mesi precedenti avevano interessato città diverse città del Nord, dove migliaia di fascisti provenienti da più parti avevano letteralmente preso d’assalto Ferrara, Bologna o Cremona, con reazioni istituzionali non sempre pronte ed adeguate.

Un gesto che al tempo stesso rinvigorisse il partito e mettesse all’angolo la vecchia politica, che annaspava e che era perfettamente rappresentata dall’esitante governo Facta, di fatto sfiduciato dal mese di luglio, la cui nascita era figlia di un compromesso a perdere, partorito all’indomani di un risultato elettorale che aveva penalizzato le forze politiche tradizionali. Non a caso Mussolini nei diversi comizi che tenne in varie città italiane – specie nel mese di settembre di quel fatidico 1922, quando la politica ufficiale era ancora beatamente in vacanza, il Parlamento, chiuso il 17 agosto, sarebbe stato riaperto solo il 7 novembre – aveva posto sempre l’accento sulla cronica impotenza dello Stato liberale da contrapporre, invece, alla sicura efficienza di un futuro Stato fascista.

L’ADUNATA A NAPOLI E IL DISCORSO DI MUSSOLINI

Mussolini in Piazza del Plebiscito a Napoli

Mussolini in Piazza del Plebiscito a Napoli

La decisione sulla marcia fu presa a Roma, il 24 settembre a via Montedoro 28, nella storica sede del Sindacato Italiano delle Cooperative. Undici i fascisti presenti fra cui Mussolini, Bianchi, Costanzo Ciano, Italo Balbo e De Vecchi, che discussero innanzitutto dell’organizzazione del partito. Proprio in questa ottica si inserì l’idea, probabilmente più figlia di Michele Bianchi che di Mussolini, di un grande evento dimostrativo da tenere a Roma, qualcosa di molto evidente, da imbarazzare e al tempo stesso scuotere il fragile governo e le principali istituzioni statali.

Quasi un mese dopo, quel prototipo di azione, partorito a Roma, divenne realtà. Il 23 e il 24 ottobre arrivarono a Napoli più di 40.000 fascisti, provenienti da tutta Italia, con il solo scopo di sentire Mussolini. Al teatro San Carlo, davanti a una platea di oltre settemila persone, molto più di quante la struttura lirica potesse realmente contenere, Mussolini, con quell’oratoria che negli anni successivi fu il suo marchio di fabbrica, prima attaccò il “deficiente” governo di Facta, definito un galantuomo bonario ma inutile, poi perentoriamente chiese lo scioglimento del parlamento, l’adozione di una nuova legge elettorale di stampo proporzionale, che avrebbe messo fine ai bizantinismi giolittiani e, alla fine, in un crescendo rossiniano e nel generale tripudio, invocò nuove elezioni che, di certo, avrebbero consacrato la vittoria fascista.

Temi già noti ed esplicitati in precedenti adunate, come a Udine e Cremona, così come il refrain sulla monarchia, alla quale Mussolini riconosceva strumentalmente la funzione unitaria ma che, comunque, avrebbe dovuto permettere il naturale e inevitabile decorso istituzionale dallo stato liberale a quello fascista.

Di fatto nulla di nuovo. La sorpresa, però, Mussolini la riservò poche ore dopo in un consesso decisamente diverso e più popolare. Il pomeriggio di quel 24 agosto 1922 nella centralissima Piazza del Plebiscito a Napoli, il futuro capo del governo davanti agli squadristi presenti in massa, pronunciò una frase che sarebbe rimasta storica: «O ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma».

Il Rubicone era stato attraversato. Mai una forza politica – il partito fascista era pur sempre rappresentato in parlamento – aveva, nella pur breve storia dell’Italia, osato tanto, lanciando un guanto di sfida alle istituzioni. La risposta, ora che anche l’ultimo sospetto era definitivamente caduto, spettava solo e soltanto allo Stato. Questa arrivò ma fu blanda, ondivaga e del tutto inconsistente anche perché minata alla base da una sostanziale sottovalutazione di tutta la situazione. L’assise napoletana, seppur eterodossa rispetto ai rigidi e stantii protocolli politici, era stata derubricata da molti osservatori come una fragile minaccia, come una chiassosa e folkloristica manifestazione dagli esiti inutili e scontati.

MARCIA SU ROMA, I PREPARATIVI

Nelle intenzioni di Benito Mussolini, d’altra parte, l’annuncio di una presa della capitale, con tanto di calata dei fascisti in una sorta di nuovo sacco di Roma, non avrebbe dovuto avere un carattere davvero insurrezionale ma perlopiù simbolico. Anche per i fascisti più duri la marcia su Roma non avrebbe dovuto mettere a ferro a fuoco la città eterna, ma semmai spaventare il più possibile la politica ufficiale, mettendola semplicemente spalle al muro. L’obiettivo era quello di ottenere il potere, l’ingresso nell’agognata stanza dei bottoni e l’ideale sarebbe stato di arrivarci senza colpo ferire, solo per effetto di una minaccia sguaiatamente urlata, mentre carsicamente si muoveva la macchina della trattativa.

Parallelamente all’organizzazione della marcia, Mussolini si muoveva nel fitto sottobosco politico per negoziare, forte anche dell’appoggio di quei fascisti moderati, sostanzialmente contrari a quella azione risoluta. L’ex socialista sperava che la sola minaccia di una calata su Roma avrebbe animato gli spenti governanti nazionali, portandoli a trattare, ad avanzare proposte, a tessere trame sottili di complessi intrecci politici, al centro delle quali ci sarebbe stato inevitabilmente lui.

La trattativa tramontò, anche per eccessive rigidità da entrambe le parti e la marcia su Roma divenne l’unica possibile via d’uscita. Bianchi, a questo punto, tornò nuovamente in auge ricevendo da Mussolini il via libera per la definitiva azione. Questi, insieme a Balbo, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi, il celebre quadrumvirato, si collocò a Perugia, presso l’Hotel Brufani, e nel capoluogo umbro organizzò le ultime e decisive linee della marcia su Roma, diffondendo la mattina del 27 ottobre il proclama che i fascisti in tutta Italia accolsero con entusiasmo. Le prime reazioni all’appello perugino furono l’occupazione delle sedi prefettizie in alcune città del Nord e la presa d’assalto dei treni destinazione Roma. Nessuno, in quel 28 ottobre 1922 che rapidamente si avvicinava, avrebbe voluto mancare all’appuntamento con la storia.

Il resto della vicenda è piuttosto nota, quasi cronaca se vogliamo.

LE DIMISSIONI DI LUIGI FACTA ED IL RUOLO DI VITTORIO EMANUELE III

Mussolini, Facta, Vittorio Emanuele III

A sinistra Luigi Facta, al centro Benito Mussolini, a destra Vittorio Emanuele III

Luigi Facta, davanti all’evidenza di una possibile azione militare dei fascisti su Roma, decide, seppur tardivamente, di muoversi. Telegrafa al sovrano, ancora in vacanza nella tenuta reale di San Rossore non lontano da Pisa, per metterlo al corrente della situazione, invitandolo a rientrare. Successivamente ordina ai circa 28.000 soldati di stanza a Roma di fermare in qualsiasi modo l’ingresso dei fascisti in Roma. Viene, di fatto, seppur informalmente, istituito lo stato d’assedio, precocemente comunicato alle diverse prefetture, che, però, per essere tale necessita della firma del sovrano, un fatto che il presidente del consiglio dà per scontato, specie dopo aver parlato con lo stesso al suo arrivo nella sera del 27 alla stazione Termini.

Il tempo stringe. Facta convoca in piena notte il consiglio dei ministri. Alle 4.30 iniziano ad arrivare al Viminale, allora sede della presidenza del consiglio, i ministri che, pur insonnoliti, capiscono la gravità del momento. Tutti concordano sulla necessità di votare lo stato d’assedio. Il testo viene rapidamente steso, prendendo a modello quello che anni addietro, nel 1898, aveva dato pieni poteri al generale Pelloux per reprimere nel sangue i moti milanesi. Le rotative stampano i proclami che nelle ore successive sarebbero stati affissi in vari punti della città. Alle 9, senza aver praticamente chiuso occhio, Facta si presenta a Villa Savoia con in tasca il testo del decreto su cui manca solo il prezioso e fondamentale autografo ma questo incredibilmente non arriva. Il re Vittorio Emanuele III ha cambiato idea, teme spargimenti di sangue, addirittura la guerra civile, preferisce l’arma della trattativa ad oltranza al pericolo di uno scontro militare.

Stante questa situazione Facta non può che dimettersi, riponendo nelle mani del sovrano il suo mandato. Il re, allora, probabilmente anche sollevato dalla decisione di un politico che non ha mai realmente apprezzato e che ha dovuto chiamare solo per fattori contingenti, inizia a pensare a soluzioni alternative, fra cui la possibilità concreta di cooptare nel futuro governo il giovane Mussolini. Nel frattempo il ministro dell’Interno Paolino Taddei, non senza un palpabile imbarazzo, telegrafa ai prefetti, ai comandi di corpo d’armata nonché di divisione. Il testo è chiaro: lo stato d’assedio, precedentemente stabilito, è da ritenersi annullato.

29 OTTOBRE 1922, MUSSOLINI ARRIVA A ROMA

Il re, intanto, inizia le consultazioni. Incontra prima Antonio Salandra e poi De Vecchi. L’esponente fascista, uno dei moderati del partito, mostra di gradire la soluzione Salandra, anche se si riserva di parlare di questo con Mussolini. Alle 18 in punto il politico foggiano ottiene dal sovrano l’incarico di formare il futuro governo nel quale dovranno ovviamente entrare i fascisti.

Da queste trattative è rimasto fuori Giolitti, forse il candidato migliore per Mussolini. L’ottuagenario statista è lontano da Roma, è nella sua Torino. Ufficialmente raffreddato, in realtà irritato per il ruolo marginale riservatogli dal sovrano. Lui, nonostante l’età, è ancora un cavallo di razza e in questa nuova commedia politica non può certo recitare un ruolo da comprimario. Quando tutto sembra ormai definito arriva un nuovo e roboante colpo di scena. Mussolini chiude drasticamente alla possibilità di una sua partecipazione al nuovo governo con un’altra frase che rimane celebre: «Non ho fatto quello che ho fatto per provocare la risurrezione di don Antonio Salandra».

Il re è spiazzato, a questo punto rimane solo e soltanto una possibilità: l’incarico a Benito Mussolini. Questi, che è ancora a Milano, alle 20.30 del 29 ottobre 1922 sale sul treno per Roma, dopo aver ricevuto, a firma del generale Cittadini, il telegramma sul conferimento dell’incarico. Alle 10.50 del 30 ottobre 1922 Mussolini arriva a Roma. Alle 11.15, accompagnato da Acerbo e Bianchi, se indossasse o meno la camicia nera rimane ancora una vexata questio, è al Quirinale per ricevere dalle mani del re l’agognato incarico.

16 NOVEMBRE 1922, IL GOVERNO MUSSOLINI OTTIENE LA FIDUCIA

La marcia su Roma, «un’esercitazione di guerriglia psicologica, un gioco politico d’azzardo, con una posta altissima, in cui ciascun giocatore» – come scrive Alexander J. De Grand nella sua Breve Storia del Fascismo – «cercò di spaventare gli avversari bluffando» aveva, nonostante tutto, avuto successo. Il recondito obiettivo era stato ottenuto, tanto che il 31 ottobre 1922, mentre carovane di fascisti imperversavano per Roma inneggiando al re e a Mussolini senza scontri, eccezione fatta per il quartiere di San Lorenzo, il nuovo capo del governo presentava al sovrano la lista dei ministri, un governo di coalizione (erano presenti giolittiani, nazionalisti, liberali, popolari e democratici-sociali, nonché tecnici) in cui i ministri fascisti erano soltanto tre e scelti, oltretutto, fra i più moderati. Il compromesso era fatto.

Il governo Mussolini il 16 novembre 1922 ottenne l’ambita fiducia: 306 voti favorevoli contro 116 contrari e 7 astensioni. Una larga maggioranza, confortata dagli autorevoli voti di protagonisti passati e futuri della politica italiana quali Giolitti, Salandra, Bonomi, Orlando, De Gasperi e Gronchi. Un ampio voto che fece da levatrice a un esperimento che nella testa dei più sarebbe stato di breve durata, una parentesi prima che la politica si riprendesse necessariamente la scena. La realtà, come è noto, fu ben diversa, quel rapido intervallo, quel lasso temporale si chiuse soltanto il 25 luglio 1943, ben ventuno anni dopo, ma questa è davvero un’altra storia.

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