Al tempo in cui Roma era governata dai Papi, o meglio dal Papa re, l’ultimo fu Pio IX fino al 1870, le pubbliche esecuzioni rappresentavano uno spettacolo per il popolo romano. Il più noto esecutore di sentenze capitali fu Giovanni Battista Bugatti, meglio conosciuto come il boia di Roma, “Mastro Titta”. Il nomignolo “mastro” derivava dal termine “maestro di giustizia” e Titta era il diminutivo del suo nome. 

RITRATTO DI MASTRO TITTA, IL BOIA DI ROMA

A quel tempo le decapitazioni pubbliche erano per gli spettatori motivo di divertimento ed erano considerate un momento educativo importante, tanto che i romani portavano i propri figli ad assistere, in particolar modo i maschi. Infatti, nel momento in cui cadeva la lama, e quindi la testa del condannato, il genitore dava uno schiaffo dietro la nuca del figlio, a monito e prova tangibile di quello a cui si sarebbe andato incontro se si fosse finiti in guai con la giustizia. Bisogna pensare che le leggi pontificie erano un misto tra il codice civile, penale e codice religioso e venivano applicate con estrema durezza sul popolo e maggiore elasticità sulla nobiltà, a cui appartenevano, d’altronde, i giudici, i ministri e i massimi esponenti della gendarmeria.

Ma chi era Mastro Titta? Nato a Senigallia il 6 Marzo del 1779, il boia di Roma iniziò la sua prolifica carriera all’età di 17 anni, a Foligno. Lo sfortunato condannato era Nicola Gentilucci, reo di aver ucciso un sacerdote, il suo cocchiere e due frati. La testimonianza di tale esecuzione è conservata presso l’archivio storico del comune di Valentano (Viterbo). Tra il 1796 e il 1864 il boia Mastro Titta eseguì 514 condanne o, meglio definite secondo lo spirito dell’epoca, giustizie. Con estrema cura egli annotava su un taccuino tutte le sentenze che andava ad eseguire, indicando data, nome del condannato e crimine da lui commesso. In realtà ne annotò 516, ma da queste ne vanno sottratte le ultime due, perché un condannato fu fucilato e l’ultimo fu giustiziato dal suo aiutante.

Castel Sant'Angelo, il luogo delle esecuzioni

Castel Sant’Angelo, il luogo delle esecuzioni

Mastro Titta praticava il suo lavoro con grande impegno e dedizione, tanto che la sua “professionalità” era apprezzata anche al di fuori della città. Talvolta, infatti, veniva chiamato anche nelle province per eseguire le sentenze capitali. La sua abilità nell’eseguire le decapitazioni è testimoniata dal ritrovamento di alcuni teschi conservati presso la Chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte, a via Giulia. Le teste, sotto il colpo di scure del boia, venivano staccate di netto, evitando, quindi, lunghe agonie per il condannato.

Molta cura dedicava anche alla preparazione, tagliando capelli e colletto della camicia del condannato. Talvolta applicava anche dei pesi ai lati delle lame, affinché tutto si consumasse nel minor tempo possibile. Con garbo e cortesia, Mastro Titta offriva al condannato una presa di tabacco o un sorso di vino. Le cronache raccontano anche che, quando la sentenza era di impiccagione e la morte tardava a sopraggiungere al malcapitato, il boia di Roma si appendeva al corpo per rendere più brevi i tempi dell’agonia.

Le esecuzioni venivano precedute da una processione, in cui il condannato veniva scortato da frati, appartenenti alla Confraternita della Misericordia, che aveva sede presso la Chiesa di San Giovanni Decollato. Lungo la processione i frati confortavano il malcapitato, gli offrivano vino e chiedevano elemosine ai presenti per la sua anima, invitando il condannato a baciare immagini sacre.

Dal taccuino di Mastro Titta, un autore anonimo del XIX secolo – i più ritengono si tratti del giornalista e scrittore Ernesto Mezzabotta – prese spunto per scrivere una falsa autobiografia del boia, di stampo anticlericale, intitolata Mastro Titta, il boia di Roma: Memorie di un carnefice, scritte da lui stesso. Scritta e pubblicata svariati anni dopo la morte di Mastro Titta, l’opera dipinge il boia come uno spietato e crudele assassino. Le cronache dell’epoca, invece, ci riportano un’immagine ben distante, descrivendo un uomo dall’aspetto “bonaccione”, dallo sguardo bonario, dimesso nel vestire e di non alta statura.
Certo è che, a causa del suo mestiere, come si può immaginare, Mastro Titta non era per nulla amato dai suoi concittadini e quindi costretto ad abitare fuori città, in una sorta di esilio forzato. Noto il proverbio, da qui derivato, “boia nun passa ponte”, vale a dire ciascuno se ne resti nel suo.

La casa di Mastro Titta, tuttora esistente, si trovava all’interno della cinta vaticana, alla destra del Tevere, nel Rione Borgo, al n°2 di Vicolo del Campanile. Qui il Bugatti viveva e lavorava, nella vicinissima bottega, dedicandosi a quello che era il suo principale mestiere. Infatti, quando non doveva eseguire condanne, svolgeva l’attività di verniciatore di ombrelli. Gli era concesso di attraversare il Ponte Sant’Angelo, per recarsi in città, solo il giorno dell’esecuzione. Si confessava, si comunicava, indossava il suo mantello scarlatto, con il cappuccio tirato sulla testa e si incamminava verso il luogo dell’esecuzione. Da qui il noto detto “boia passa ponte”, ad intendere che qualcuno stava per “rimetterci la testa”.

LE ESECUZIONI CAPITALI A ROMA

La decapitazione non era però l’unica forma di condanna. Infatti, a seconda del crimine commesso dal condannato e la conseguente pena emessa in tribunale, Mastro Titta eseguiva mazzolamento (rottura di ossa per mezzo di una mazza), impiccagione e, nel peggiore dei casi, squartamento, che veniva eseguito però a morte sopraggiunta. In quest’ultimo caso, i quarti del corpo venivano esposti ai quattro angoli del patibolo, a monito per il popolo. Stessa sorte anche in caso di decapitazione, dove la testa veniva mostrata dal boia.

Due illustri spettatori delle decapitazioni a Roma: a sinistra Charles Dickens, a destra Lord Byron

Due illustri spettatori delle decapitazioni a Roma: a sinistra Charles Dickens, a destra Lord Byron

Nel maggio del 1817 George Gordon Byron, mentre si trovava in vacanza a Roma, si trovò ad assistere ad un’esecuzione di tre ladri. Ne rimase sconvolto e turbato. In una lettera al suo editore John Murray raccontò quanto fosse stato terribile essere lì. Anche lo scrittore Charles Dickens, capitato a Roma durante l’esecuzione di un ragazzo, si trovò a descrivere questa esperienza come ”uno spettacolo brutto, sporco, ripugnante”.

I cimeli di Mastro Titta sono conservati presso il Museo di criminologia a via Giulia. Qui è possibile ammirare il mantello scarlatto, alcuni cappi, la scure che il boia utilizzava prima dell’introduzione della ghigliottina, la cesta in cui cadeva la testa del condannato e il coltello utilizzato per le mutilazioni in caso di pena relativa al furto.

Il Bugatti, dopo 70 anni di “onorato servizio”, verrà messo in pensione da Papa Pio IX con un vitalizio di 30 scudi mensili. Morirà novantenne, il 18 giugno 1869, sereno nel suo letto, convinto, da buon cattolico osservante, di aver agito nell’interesse del Papato e, quindi, secondo la volontà di Dio.

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