Milano, quartiere Lambrate, domenica 1° ottobre 1978. È l’alba quando una sessantina di carabinieri, guidati dal giovane capitano Roberto Arlati, entra in un piccolo appartamento posto al primo piano di una palazzina sita in via Monte Nevoso 8. Non si tratta di un’operazione qualsiasi, in quel monolocale di poco più di 40 metri quadrati, le forze dell’ordine sono certe di trovare qualcosa di importante, e prima di loro ne è certo il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa che, da poche settimane, dirige un nucleo speciale antiterrorismo, composto da 200 uomini e istituito con decreto del presidente del consiglio il 10 settembre.
IL COVO DELLE BR E IL MEMORIALE DI MORO
L’irruzione nell’appartamento di via Monte Nevoso è più semplice di quanto ipotizzato e come preventivato la scoperta è notevole: in quella modesta palazzina della periferia milanese ha sede un covo delle Brigate Rosse e i tre occupanti non sono proprio terroristi qualsiasi. In quel monolocale vivono Nadia Mantovani, Lauro Azzolini, l’unico che tenta invano la fuga e principalmente Franco Bonisoli, detto il Rossino, uno dei brigatisti che avevano sparato in via Fani, uccidendo i cinque uomini della scorta dell’onorevole Aldo Moro.
Sono trascorsi sette mesi dal quel 16 marzo e cinque dal quel 9 maggio quando in via Caetani era stato ritrovato il corpo dello statista democristiano. Le tensioni di quei giorni, il clima arroventato delle polemiche giornaliere sulla linea della fermezza, sulla difficoltà delle indagini, sui presunti errori sembrano un vago ricordo. Gli italiani hanno messo da parte le immagini di via Fani, il senso di sconfitta dello Stato, la discreta disperazione dei familiari delle vittime. Sembra trascorso un decennio, e la vita di tutti i giorni, complice anche la bellissima prestazione degli azzurri del calcio ai mondiali argentini e l’estate appena trascorsa, ha ripreso a scandire i propri ritmi come sempre.
Aldo Moro nel covo delle BR in Via Gradoli durante il suo rapimento
Mentre in quella giornata gli italiani ancora dormono tranquilli, il nome di Aldo Moro e dei mille misteri legati al suo sequestro e alla sua morte, torna a riecheggiare prepotentemente sui giornali e in tv. In quel piccolo appartamento le forze dell’ordine trovano, per usare le loro stesse parole, un vero e proprio “pozzo di San Patrizio”. In quelle quattro mura c’è così tanto materiale (serviranno cinque giorni per inventariarlo), da poterci fare un museo. Libri, armi, soldi, documenti strategici, manuali di guerriglia, macchine per scrivere, una fotocopiatrice, alcune lettere dei membri della RAF (la Rote Armee Fraktion, l’organizzazione terroristica tedesca) e addirittura una lampada abbronzante.
Reperti importanti, fondamentali per conoscere meglio le caratteristiche delle Brigate Rosse ma che perdono di consistenza davanti alla principale scoperta che i carabinieri fanno in quella casa. Su un tavolo al centro della stanza e all’interno di un armadietto, gli inquirenti trovano qualcosa che li lascia sbigottiti. Dentro delle anonime cartelline di colore azzurro ci sono dei fogli che da mesi, tutti in Italia stavano cercando. Davanti agli occhi sgranati del capitano Arlati e dei suoi uomini ci sono le carte di Moro, le sue lettere e, principalmente il Memoriale di Moro, cioè il corpus di scritti relativi al famoso interrogatorio a cui lo statista fu sottoposto nel corso dei 55 giorni del sequestro. Esattamente vengono rinvenuti quarantanove fogli dattiloscritti relativi al Memoriale e ventinove alle lettere di Moro, di cui quindici inedite.
Ma come sono arrivati i carabinieri a via Monte Nevoso? Ufficialmente grazie a un colpo di fortuna, uno di quelli in cui ogni investigatore vorrebbe imbattersi almeno una volta nella vita. Stando alla versione ufficiale, il 28 luglio 1978, un conducente della società comunale di trasporto di Firenze rinviene, alla fine della corsa sul tram della linea 2, un borsello da uomo “in vilpelle, di colore nero”, come descritto sul verbale. In seguito, verrà fuori il ruolo di una signora anziana a cui sarebbe spettato il merito del ritrovamento del borsello. L’oggetto arriva nelle mani della polizia che si rende immediatamente conto dell’importanza di quella scoperta. Quel borsello è una miniera incredibile. Gli inquirenti vi trovano, fra gli altri oggetti, una pistola con la matricola abrasa, un certificato di un ciclomotore marca Teti, un biglietto non obliterato della metro di Milano, una copia del libro di Giorgio Bocca Moro, una tragedia italiana evidenziato in più punti, una patente di guida intestata a Adriano Spazzoli, un promemoria di un ufficio dentistico intestato a un tale signor Gatelli e, infine, un mazzo di chiavi.
Il 31 luglio le forze dell’ordine sono riuscite a dare un nome al proprietario del borsello: si tratta di Lauro Azzolini che a Milano vive sotto il falso nome di Franco Gatelli. A collegare Lauro Azzolini a via Monte Nevoso e dunque al covo è, almeno stando alla versione ufficiale, un giovane meccanico che senza esitazione associa il volto del terrorista al motorino Teti, il cui certificato era nel borsello. Questo ragazzo, però, che ricorda di aver visto più volte quel ciclomotore parcheggiato in via Monte Nevoso – come scrive lo storico Michele Gotor, che all’intricata storia del Memoriale di Moro e non solo ha dedicato più di un libro – “è l’unico protagonista della vicenda a non avere in nessun luogo un nome, un recapito e un’utenza telefonica”, una sorta di fantasma ufficiale.
Dal momento in cui è certa l’identificazione del proprietario del borsello e il suo legame con il covo nel quartiere di Lambrate, inizia un enorme lavoro di indagine portato avanti dai carabinieri che si conclude il primo giorno di ottobre con l’operazione in codice “Jumbo”. Certo è singolare come i brigatisti non abbiamo preso nessun tipo di precauzione, a cominciare da quella elementare di lasciare il monolocale milanese, considerando che Azzolini ha ammesso di essersi accorto subito dello smarrimento del borsello che conteneva fra l’altro le preziose chiavi dell’appartamento di via Monte Nevoso. Non solo decidono di rimanere in un posto che a breve potrebbe essere scoperto, ma i primi giorni di settembre Bonisoli decide addirittura di portarci le scottanti carte di Moro. Insomma, un’incredibile, inaccettabile leggerezza, sempre che le cose siano andate davvero così.
LE CARTE DI ALDO MORO: UN RITROVAMENTO TRA MISTERI E IMBARAZZI
L’enfasi della scoperta diventa in quell’inizio di ottobre la più importante delle notizie. Ma parallelamente ai complimenti per l’operazione più di qualcuno inizia a sollevare un atroce dubbio. Si tratta di tutto il Memoriale di Moro o solo di una parte? Ad alimentare il sospetto è in particolare il quotidiano “La Repubblica”. Il 6 ottobre il giornale fondato e diretto da Eugenio Scalfari pubblica due articoli a firma di Giorgio Battistini nei quali si adombra la possibilità che il Memoriale, in fretta trasferito da Milano a Roma per farlo leggere a qualcuno, sia stato scomputato di alcuni fogli rilevanti, prima che la magistratura potesse vederli. La fonte del giornalista, il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, ucciso dalle Brigate Rosse il 31 dicembre 1980, rivela che l’insieme di quelle preziose carte era di almeno sessanta pagine, ben più delle 49 ufficiali che saranno pubblicate in quel mese di ottobre.
Alcune settimane dopo, sulla scia di questo dubbio, si colloca anche un altro giornale, “OP” di Mino Pecorelli. Quest’ultimo, ucciso in circostanze mai del tutto chiarite il 20 marzo 1979, il 31 ottobre 1978 pubblica un articolo dall’icastico titolo: Un memoriale mal confezionato. “La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale” – scrive Pecorelli – “almeno quella parte recuperata nel covo milanese non ha provocato gli effetti devastanti a lungo paventati”. Il sospetto che dalla base brigatista sia effettivamente scomparso qualcosa nelle ore successive al blitz dei carabinieri, magari pagine scottanti, viene sollevato sia dal generale Dalla Chiesa davanti alla Commissione parlamentare, che da alcuni brigatisti nel corso dei diversi processi. Bonisoli, in particolare, riferisce che “in via Monte Nevoso, oltre ai dattiloscritti, c’era un plico di fotocopie degli originali”.
Che fine hanno fatto quegli altri fogli? E cosa contenevano di così importante da essere occultati? La soluzione del giallo viene svelata l’8 ottobre 1990 e l’infinito affaire Moro si tinge ancora di mistero. Sono trascorsi dodici anni dall’operazione “Jumbo.” L’Italia, l’Europa, il mondo sono cambiati velocemente. Il Muro di Berlino e con lui quel sistema politico di divisione in blocchi, nato dalle ceneri della Seconda guerra mondiale e che sembrava sfidare i secoli, è crollato.
Alcuni protagonisti di dodici anni prima non ci sono più, a cominciare dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso a Palermo dalla Mafia il 3 settembre 1982, quattro mesi dopo essersi insediato in qualità di prefetto. Emblematiche le parole che scrive nel suo diario a proposito della sua nomina: “Io che sono certamente il depositario più informato di tutte le vicende di un passato non lontano, mi trovo ad essere richiesto di un compito davvero improbo e, perché no, anche pericoloso. Promesse, garanzie, sostegni, sono tutte cose che lasciano il tempo che trovano”. (1)
Altri, invece, sono ancora ai loro posti, inossidabili come sempre.
Milano, 9 ottobre 1990. Gennaro Bernardo, di professione muratore, sta eseguendo dei lavori per conto del signor Girolamo De Citis in un appartamento. Non si tratta di un locale qualsiasi, ma di quello sito in via Monte Nevoso 8. Da pochi giorni, infatti, è stato finalmente dissequestrato dopo una lunga querelle. Quell’anonimo operaio non sa che fra poco entrerà nella storia. Intorno alle dodici scopre, dietro una scarpiera sotto una finestra, una sorta di “nascondiglio”. Dopo aver rimosso un pannello fissato alla parete con quattro chiodi, cercando di vedere cosa ci sia dentro, scorge la canna di un mitra. Ma quell’arma non sarà l’unica cosa celata in quell’artificiosa intercapedine. Salteranno fuori una borsa con dentro sessanta milioni di lire, ormai fuori corso, altre armi e principalmente una cartella marrone sigillata da nastro adesivo che contiene quattrocentoventuno fogli. Si tratta di fotocopie di scritti originali di Moro. Lettere, disposizioni testamentarie e soprattutto pagine del cosiddetto Memoriale di Moro.
Una scoperta incredibile, che mette più di qualcuno in imbarazzo. Tuttavia, la linea ufficiale è quella di sottilizzare. Secondo le autorità, insomma, la prima perquisizione, quella del 1978, “era stata approssimativa, e ‘incompleta’, opportunamente e del tutto casualmente completata dopo dodici anni”. (2)
Aldo Moro in una scuola
Leggerezze investigative o no il contenuto della scoperta è comunque rilevante. Non si tratta, questa volta, di fogli dattiloscritti riportanti le presunte risposte di Moro a eventuali domande poste nel corso dei giorni del sequestro, ma delle fotocopie di scritti autografi dell’onorevole democristiano. Nonostante l’importante scoperta, rimane comunque il senso di incompletezza. Gli scritti ritrovati, infatti, oltre a non essere in originale, non possono costituire il verbale dell’interrogatorio a cui il prigioniero è stato sottoposto in quei cinquantacinque giorni nel covo di via Montalcini.
Mancano, e non si capirà mai perché, le domande (i brigatisti fin dal primo giorno del sequestro avevano sostenuto che tutto sarebbe stato reso pubblico), la cui presenza avrebbe permesso, come scrisse anni dopo il fratello dello statista democristiano, il giudice Alfredo Carlo Moro, la decodificazione delle “finalità proprie del ‘processo’ e [della] strategia dei sequestratori”. (3)
Mancanze a parte, i contenuti del Memoriale di Moro, specie di quella parte rinvenuta nel 1990, sono decisamente importanti. Dalle risposte dello statista democristiano gli storici hanno potuto ricostruire sedici sostanziali argomenti, oggetto di possibili specifiche domande. La strage di piazza Fontana e dell’Italicus (da cui Moro si salvò grazie all’intervento di un emissario del ministero degli Interni che lo fece scendere prima che il treno partisse); il ruolo della Dc nella cosiddetta strategia della tensione, l’affare Lockheed; la riforma dei Servizi segreti; i rapporti della Democrazia cristiana con la famiglia Agnelli e con la stampa; i contributi economici versati al partito di Moro ma anche e specialmente Gladio. L’esistenza dell’organizzazione paramilitare, promossa dalla Nato per contrastare una possibile invasione comunista in Europa e formata, nella più totale segretezza, nella seconda metà degli anni Cinquanta, fu certamente uno degli aspetti più rilevanti di tutto il Memoriale. Una “scoperta” sensazionale, che però viene fatta solo nel 1990 e non in quel 1978, nel pieno della Guerra Fredda, quando avrebbe creato a varie latitudini più di qualche imbarazzo politico.
Molto interessanti sono anche alcuni lucidi giudizi che Moro esprime su suoi colleghi di partito, in particolare su Andreotti, un uomo “chiuso nel suo cupo sogno di gloria”, interessato a portare avanti “il suo disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chi sa quant’altro ancora”. (4)
Al netto dei misteri, dei dubbi, delle omissioni, dei sospetti e delle morti, che più o meno si collegarono al ritrovamento del Memoriale, rimane il valore politico e principalmente umano di quella silloge. Il Memoriale di Moro, come ha scritto Francesco Maria Biscione, “ci restituisce un uomo vivo e pensante e ci dà il piacere di ritenere che Moro, e non è un paradosso, sia morto da uomo libero”.
Per approfondimenti:
(1) N. Dalla Chiesa, Delitto imperfetto, Mondadori, Milano, 1984, p. 48.
(2) S. Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Kaos Edizioni, Milano, 1988, p. 376.
(3) A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Editori Riuniti, Roma, 1998, 246.
(4) Ivi, p. 254.
Leggi anche: Il ruolo del Vaticano nella trattativa per liberare Moro