Il viaggio del Milite Ignoto, la salma del soldato senza nome caduto durante la Prima Guerra Mondiale, fu un vero e proprio evento nazionale, l’episodio identitario più rappresentativo di quel giovane Stato, ancora lacerato da divisioni ataviche e uscito a pezzi dal conflitto mondiale.
Questo è il racconto di quel viaggio e di quell’Italia del 1921, sospesa fra una vittoria mutilata e un futuro incerto, dietro il quale si intravedevano i neri contorni di una prossima dittatura.
STORIA DEL MILITE IGNOTO A ROMA
Il culto dei caduti, termine che si impose fin da subito in luogo di altri, specie fra gli ex commilitoni, fu un fenomeno che interessò tutte le nazioni che presero parte al conflitto mondiale.
Il motivo fu semplice: quella guerra, da poco conclusasi, era sempre stata vista come una guerra della nazione, del popolo, la guerra degli eserciti della leva di massa, un evento a cui tutti avevano preso tragicamente parte.
A ogni latitudine si sviluppò, seppur con tempistiche differenti, l’esigenza di onorare i milioni di morti, triste eredità di quella lunga contesa. Il culto dei caduti fu, come osservato dallo storico Michel Vovelle, «la più impressionante celebrazione collettiva della morte», un’esperienza che accomunò persone diverse per età, ceto, cultura, religione, ideali politici. Differenze che, però, al cospetto di quel rito collettivo, trovarono un’unità mai conosciuta prima.
In Italia il bisogno di onorare i caduti della Prima guerra mondiale, una tragedia che aveva causato 650.000 morti e 984.000 feriti, tra cui moltissimi menomati per sempre, non si affermò immediatamente, come sarebbe stato per certi aspetti prevedibile e auspicabile.
Cimeli della Grande Guerra
L’eco della vittoria, prima, e la profonda delusione, mista a rabbia, per le decisioni prese alla Conferenza di pace di Parigi, poi, anestetizzarono la questione, rimandando sine die il come e quando onorare i morti in battaglia.
LA PROPOSTA DI GIULIO DOUHET
Fu solo nell’estate del 1920 che l’argomento venne posto con l’attenzione che meritava. A farlo fu il colonnello Giulio Douhet, uno dei maggiori artefici dell’aviazione militare italiana.
L’ufficiale lanciò l’idea di onorare, nel migliore dei modi, il sacrificio di milioni di soldati, attraverso la sepoltura, con tutti gli onori possibili, di uno dei tantissimi soldati morti e rimasti ignoti sui campi di combattimento.
Per Douhet omaggiare il soldato caduto non coincideva con una postuma e poco sostenibile esaltazione della guerra, come qualcuno aveva polemicamente sostenuto, ma consisteva, al contrario, nella doverosa riconoscenza del Paese al cittadino-soldato, a colui che aveva sacrificato con la vita la difesa della nazione, perché, come affermò in più di un’occasione lo stesso Douhet, «chiunque sacrifica sé stesso per l’esplicazione di un dovere è degno di onore.»
Seppellendo un soldato privo di nome si voleva non solo confermare il carattere popolare di quella guerra, ma anche risarcire simbolicamente tutte quelle famiglie di soldati caduti e rimasti ignoti, alle quali si tentava di offrire la convinzione che quel corpo, inumato con tutti gli onori, potesse essere quello di un loro figlio, di un loro fratello, di un loro marito, il corpo, comunque, non più di un disperso ma, da quel momento in poi, quello di un figlio della nazione.
L’accoglienza di quella proposta lanciata da Douhet non fu affatto univoca.
Se le organizzazioni patriottiche e dei combattenti la salutarono con estremo piacere, dopo anni di inaccettabile silenzio, e medesimo entusiasmo fu espresso dalla gente comune, la reazione della vecchia politica fu ben altra.
Il Vittoriano
L’OMAGGIO AL SACRIFICIO DEL CITTADINO-SOLDATO
I paludati politici liberali, usciti decisamente malconci dalle elezioni del 1919 che avevano premiato i partiti di massa, temevano che un simile omaggio avrebbe potuto rinfocolare le critiche verso una classe dirigente che non aveva portato quei vantaggi economici e sociali promessi all’indomani della vittoria nel novembre 1918.
Ma l’inatteso successo mediatico della proposta di Douhet, che valicò facilmente i confini nazionali, venendo recepita e soprattutto realizzata in realtà diverse quali la Francia, il Belgio, l’Inghilterra e persino negli Stati Uniti, spinse anche la riottosa politica italiana a prendere, finalmente, una decisione.
Nell’agosto 1921 il deputato Cesare Maria De Vecchi presentò alla Camera dei Deputati un disegno di legge per rendere effettiva la proposta di Douhet.
Ecco come il futuro quadrumviro della Marcia su Roma spiegò la sua proposta di legge:
«Il disegno di legge che il Parlamento discute è frutto del sentimento italico, dolce ed ardente ad un tempo. Deve essere rivendicata ai nostri uomini d’arme la priorità del proposito di trasportare solennemente a Roma i resti di un caduto ignoto, perché ivi ricevano i più alti onori dovuti a loro e a seicentomila fratelli.»
L’iter del disegno di legge fu sorprendentemente rapido.
L’11 agosto, a pochi giorni dalla presentazione, quella proposta diveniva legge e il 20 agosto, il ministro della Guerra, Luigi Gasparotto, dava le prime disposizioni in merito all’organizzazione delle «solenni onoranze da tributare alla salma senza nome di un caduto in combattimento sul fronte italiano nella guerra italoaustriaca 1915-1918.»
LA TOMBA DEL MILITE IGNOTO AL VITTORIANO
Varata la legge bisognava, però, organizzare ogni singolo aspetto, nel minor tempo possibile e soprattutto nel modo più appropriato.
Per prima cosa occorreva trovare un luogo che fosse il più degno a ospitare il corpo del soldato senza nome.
Sulle prime si pensò al Pantheon, l’antico monumento augusteo ricostruito sotto l’imperatore Adriano dopo due devastanti incendi, divenuto da alcuni decenni il luogo di sepoltura dei re di Italia. Ai promotori, Douhet in primis, il Pantheon appariva il luogo migliore, anche per la presenza dei feretri reali.
L’idea del Pantheon, tuttavia, fu ben presto accantonata.
Dell’antico tempio pagano non piaceva la cupezza, l’idea che la tomba del soldato non sarebbe stata visibile nelle ore in cui il Pantheon fosse stato chiuso.
Si cercò nella capitale un luogo che fosse monumentale e al tempo stesso aperto alla vista di ognuno e in qualsiasi momento della giornata.
E la scelta, inevitabilmente, cadde sul Vittoriano.
Il monumento costruito nella centralissima piazza Venezia, in onore del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II, inaugurato il 4 gennaio 1911, dopo anni di lavori e polemiche, sembrò a tutti il posto perfetto, l’ara sacra che avrebbe custodito, per sempre, la salma dell’ignoto soldato.
Trovato il luogo bisognava, tuttavia, scegliere il posto esatto dove tumulare il corpo, un’eventualità non facile vista la maestosità del Vittoriano.
L’Altare della Patria (Vittoriano)
IL SOLDATO SCONOSCIUTO ALL’ALTARE DELLA PATRIA
Scartata, fin da subito, la possibilità di inumare la salma all’interno, i resti del soldato avrebbero meritato di essere sempre illuminati dal sole di Roma, come ebbe a dire il generale Fochetti, si iniziò la ricognizione di un posto idoneo che fosse rigorosamente all’esterno.
Ecco come Lorenzo Cadeddu, nel suo libro La leggenda del soldato sconosciuto all’Altare della Patria, descrisse quella meticolosa ricerca:
«Vennero allora prese in considerazione le due sistemazioni esterne: la prima situata tra le statue che rappresentavano le città liberate di Trento, Trieste, Gorizia, Pola e Zara (oggi sostituite da are che rappresentano anch’esse città liberate); l’altra ai piedi della statua della Dea Roma, situata al centro dell’Altare della Patria e che è la parte più significativa del monumento.»
Prevalse, al fine, la scelta della Dea Roma.
I promotori deliberarono che il sacello sarebbe stato creato all’interno dello zoccolo su cui poggia il piedistallo della statua, su cui sarebbe stata posta semplicemente una lastra, con epigrafe latina Ignoto Militi.
Trovato il luogo non rimaneva che scegliere la salma da inumare nel Vittoriano, un compito arduo visto il numero elevatissimo di soldati senza nome periti nel corso della guerra.
CHI È IL MILITE IGNOTO?
A decidere quali dovessero essere le modalità per individuare quelle salme tra cui, poi, scegliere quella da portare a Roma, fu un’apposita commissione, istituita dal Ministero della Guerra e formata da soli militari, tra cui anche il soldato semplice Massimo Moro.
La ricerca delle undici salme iniziò il 3 ottobre 1921.
I teatri di quelle pietose indagini furono quelli delle battaglie più cruente della Prima Guerra mondiale; Rovereto, Gorizia, il monte Grappa o Castagnevizza del Carso, la località dove furono combattute la nona e la decima battaglia dell’Isonzo.
L’unico criterio che i componenti della commissione adottarono nell’individuazione delle salme, fu l’assoluto anonimato. Per questo motivo non furono presi in considerazione quei corpi che, pur sconosciuti, erano assimilabili a oggetti quali un elmetto, una mostrina o un qualsiasi altro oggetto collegabile.
L’ultima salma fu ritrovata il 24 ottobre 1921, all’interno di una fossa comune nella quale erano stati contati almeno dieci caduti, circostanza che rese non semplice il compito di assemblare un cadavere, incarico che venne dato al medico militare Fabrizzi.
La tomba del Milite Ignoto e la statua equestre dedicata a Vittorio Emanuele II
LE UNDICI SALME DI SOLDATI IGNOTI E IL GRAVOSO COMPITO DI MARIA BERGAMAS
L’improbo compito di ritrovare undici salme di soldati ignoti, a tre settimane dall’inizio di quella missione, si era concluso. Ora, non restava che individuare, fra quei corpi, quello che sarebbe stato tumulato al Vittoriano.
Quel misericordioso compito spettò a Maria Bergamas. La donna, nata a Gradisca d’Isonzo nel 1867, aveva perso il figlio Antonio, per tutti Toni, in quella carneficina chiamata guerra.
Antonio, volontario irredento, essendo di nazionalità austroungarica, era partito per il fronte nel giugno 1915, senza sapere la destinazione, quasi certo, come aveva scritto alla madre, di andare incontro alla morte.
E la morte arrivò in un mattino di un’estate troppo breve; il tempo di una sventagliata di un mitra e poi fu solo un tenue ricordo da barattare con una giovane vita.
Era il 18 giugno 1916. Il corpo di Toni non fu mai ritrovato.
La mattina del 28 ottobre 1921 Maria Bergamas, che era stata scelta in rappresentanza delle migliaia di madri di soldati caduti senza un nome, entrò nella basilica di Aquileia, scortata dal silenzio delle migliaia di persone presenti.
Avvolta da un manto nero che le copriva anche il capo, Maria avanzò lenta verso le undici bare, affiancate una all’altra, misurando i suoi passi, tenendo nella mano sinistra un semplice mazzo di fiori.
Ecco come il tenente Tognasso, presente quel giorno, raccontò la scelta operata dalla Bergamas:
«Così, trascinandosi a fatica, raccolti l’anima e il cuore nelle pupille che scrutavano le bare, trattenendo il respiro, giunse di fronte alla penultima, davanti alla quale, oscillando sul corpo che più non la reggeva e lasciando un grido acuto che si ripercosse nel tempio, chiamando per nome il suo figliolo, si piegò, cadde prostata e ansimante in ginocchio abbracciando con passione quel feretro.»
L’EPICO VIAGGIO DA AQUILEIA A ROMA
L’indomani la salma del Milite Ignoto lasciò, accompagnata dalle note dell’Inno del Piave, la città di Aquileia. Iniziava, così, il trasferimento in treno verso Roma, un viaggio lento e caritatevole, scandito dal passaggio in decine di stazioni, dove folle sempre immense erano pronte a tributare il saluto al simbolo di tutti i soldati caduti e rimasti senza nome.
Per l’occasione la bara fu sistemata su un affusto di cannone, in modo che da qualsiasi lato la si guardasse, poteva essere vista.
Le tappe di quel percorso furono diverse. Dall’iniziale Aquileia alla piccola Cervignano, dove il treno giunse alle 8.20, passando per Udine, Venezia, Bologna, dove il convoglio, formato da sedici vagoni, arrivò alle 16.30.
Dalla stazione di Bologna, che decenni dopo, il 2 agosto 1980, sarà teatro della più disumana delle stragi, il treno militare partì alla volta di Arezzo, valicando gli Appennini e attraversando decine di piccole stazioni dove, però, non mancò il calore della gente.
La sera del 2 novembre il treno del Milite Ignoto fece ingresso a Roma.
Non arrivò nella centralissima stazione Termini, bensì in quella secondaria di Portonaccio, la futura stazione Tiburtina, nella periferia capitolina. Erano le 10 di sera e, nonostante la notte incipiente, anche nella Capitale non mancò l’affetto per il feretro.
Il viaggio iniziato il 29 ottobre, dopo centinaia di chilometri e ben centoventi stazioni attraversate, terminava nella Città eterna, dove quella ignota salma, di lì a poco, sarebbe stata tumulata al Vittoriano.
Visualizza questo post su Instagram
UN VERO E PROPRIO EVENTO NAZIONALE
Era stato un viaggio lento, scandito dal genuino affetto di migliaia di italiani che, messa da parte ogni ideologia, avevano con sincerità tributato l’onore a quella salma, simbolo di un’unità nata sui campi di battaglia.
Così il giornalista del “Corriere della Sera” Vito Labita, in un articolo apparso il 5 novembre 1921, sottolineò la ritrovata coesione nazionale durante il transito del treno da Arezzo verso Roma: «tra due ali di gente prona, tra cui erano in fascisti in giubba nera, cattolici con il nastrino tricolore e socialisti con i distintivi della falce e martello.»
Un anno dopo quel clima di inaspettata unità sarà spazzato via dalla violenza fascista e dall’improvvida decisione di Vittorio Emanuele III.
LE SOLENNI ESEQUIE ALL’ALTARE DELLA PATRIA
La mattina del 3 novembre il Milite Ignoto iniziò un nuovo viaggio, l’ultimo e il più breve. Dalla stazione di Portonaccio il feretro fu trasferito a quella di Termini, dove, ad attenderlo, c’erano le più alte cariche dello Stato, con in testa il re.
Dalla stazione ferroviaria il feretro fu trasferito alla vicina basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, la chiesa che il genio di Michelangelo aveva creato riadattando l’aula centrale delle maestose Terme di Diocleziano, per volontà di papa Pio IV.
Nella basilica si svolsero le solenni esequie, presiedute dal vescovo di Trieste Angelo Bartolomasi, lo stesso che ad Aquileia aveva benedetto le undici bare dei militi ignoti. Per l’occasione Bartolomasi officiò assistito dall’intero capitolo dei parroci romani.
Terminata la funzione il feretro fu lasciato esposto nella chiesa per l’omaggio di migliaia di persone, tra cui, anche l’ambasciatore inglese, che depose una corona in rappresentanza del re Giorgio.
La mattina del 4 novembre, il giorno che ricordava la vittoria italiana nella Prima guerra mondiale, la salma lasciò la basilica destinazione Vittoriano che, dal momento della definitiva tumulazione, sarebbe divenuto l’Altare della Patria.
Il Vittoriano, vista su Piazza Venezia
4 NOVEMBRE 1921: LA TUMULAZIONE DEL MILITE IGNOTO
Il corteo che si mosse da piazza Esedra, l’attuale piazza della Repubblica, fu lungo e lentissimo, in modo da permettere a chiunque un ultimo omaggio. Mentre in tutte le città italiane si svolgevano celebrazioni in onore del Milite Ignoto, il corteo giunse in piazza Venezia: il viaggio cominciato ad Aquileia stava per terminare.
Alle dieci in punto la bara del Milite Ignoto salì la bianca scalea del Vittoriano, fra due ali di soldati, al suono ritmato dei tamburi. Dopo aver sistemato sul feretro la medaglia d’oro al valor militare e l’elmetto di un fante, la bara, alle 10.36 di quel 4 novembre 1921, fu seppellita per sempre sotto la Dea Roma.
«La cerimonia del Milite Ignoto, dal viaggio fino alla tumulazione – come sottolineato dallo storico Emilio Gentile – fu una delle più straordinarie manifestazioni di patriottismo che unì gli italiani per la prima volta dall’unificazione del 1861.»
Quell’unità appena trovata, seppur in una circostanza decisamente dolorosa, durerà meno di un anno. Altre folle riempiranno piazza Venezia negli anni a seguire ma questa è davvero un’altra storia.
Per approfondire:
Leggi anche: Disfatta di Caporetto, il crollo dell’esercito italiano nella Grande Guerra 11 novembre 1918, l’ultimo giorno della Prima Guerra Mondiale