“Il primo amore di Febo [Apollo] fu Dafne, figlia di Peneo, e non fu dovuto al caso ma all’ira implacabile di Cupido”. Così ha inizio uno dei miti più belli e conosciuti, quello di Apollo e Dafne. A raccontarcelo Publio Ovidio Nasone nel libro primo delle Metamorfosi, una delle più belle opere mai scritte da un essere umano, il “poema della rapidità, [dove] tutto deve succedersi a ritmo serrato, imporsi all’immaginazione”, come scrisse Italo Calvino.
IL MITO DI APOLLO E DAFNE
Apollo e Dafne
La vicenda che vede protagonisti il dio Apollo e la naiade Dafne (Dáphnē in greco significa “lauro”, il comune alloro) è il frutto della rivalsa di Cupido che, come tutte le divinità, è permaloso, collerico, astioso, vendicativo. D’altra parte, gli inquilini dell’Olimpo, erano come gli uomini, possedevano diversi difetti che superavano molto spesso gli stessi pregi. Tradivano, epici i travestimenti di Giove per spassarsela eludendo il controllo di Giunone, scatenavano reazioni belliche solo per invidia, si innamoravano e soffrivano ed erano terribilmente vanitosi, esattamente come i comuni mortali.
Ma torniamo al nostro paffuto Cupido. Il figlio di Venere è furibondo con Apollo. Questi, “vedendolo che piegava l’arco per tendere la corda” lo deride. “Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative? (…) Tu accontentati di fomentare con la tua fiaccola, non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi”. Un affronto inaccettabile, da vendicare assolutamente. «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà, ma il mio trafigge te.» Il piano è semplice ma astuto. Cupido estrae dalla faretra due frecce “d’opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita l’amore”. La prima colpisce l’incolpevole Dafne, la seconda, dalla punta dorata e sfolgorante, trafigge Apollo. E la rivalsa è servita.
Il più bello fra gli dei immediatamente si innamora di Dafne che, invece, “il nome d’amore” neppure lo vuol sentire pronunciare. A prescindere dalla freccia scagliata, da anni la figlia di Peneo respinge i focosi pretendenti, avvinti dalla sua bellezza. Il padre è disperato, vorrebbe un genero, ancor di più dei nipoti ma Dafne, “odiando come una colpa la fiaccola nuziale”, implora l’amato genitore di concederle una “verginità perpetua”. Ma ad Apollo dei propositi della ninfa poco importa. Lui la desidera e “vuole unirsi a lei”. Per questo la insegue ma Dafne fugge “più rapida d’un alito di vento e non s’arresta al suo richiamo”.
Ma scappare da un dio è impresa improba. Apollo, dopo essersi lodato, “ho inventato la medicina, sono colui che rivela il futuro e che accorda il canto al suono della cetra”, raggiunge la fanciulla e la cinge a sé. Sembra la fine e a Dafne disperata, non rimane che la preghiera. Implora il genitore Peneo, che è pur sempre un dio, anche se non fra i più celebri, di aiutarla. “Dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui”. E il padre cede alla supplica. E qui la descrizione di Ovidio si fa poesia, assumendo i contorni dell’incanto.
Un torpore profondo pervade le membra di Dafne, “il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva”. La metamorfosi si completa e la mano di Apollo, che prima stringeva un corpo caldo, ora afferra un tronco di alloro e la disperazione del dio è assoluta e viene urlata al vento: “Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei(…) Qui Febo tacque; e l’alloro annuì con i suoi rami appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo”.
IL CAPOLAVORO DI BERNINI: LA SCULTURA DI APOLLO E DAFNE
Gian Lorenzo Bernini, molti secoli dopo queste meravigliose parole, rimase affascinato dal mito di Apollo e Dafne e volle eternare il racconto di Ovidio con un’opera che, come quel racconto, rimanesse eterna, scolpita nel marmo e nel cuore.
Roma, agosto 1622. Lo scultore napoletano ha ricevuto il marmo per realizzare una nuova opera. A commissionargliela è ancora una volta il suo mentore, il cardinale Scipione Borghese. Grande collezionista, amante del bello e scopritore di talenti, il porporato ha già verificato l’indubbia bravura del giovane Bernini che per lui ha già realizzato Enea, Anchise e Ascanio e il ratto di Proserpina.
Sulle prime lo scultore pensa di realizzare solo Apollo ma rapidamente cambia idea. Già in occasione del primo pagamento, avvenuto un anno dopo, l’opera ha assunto la sua veste definitiva. Bernini scolpirà Apollo e Dafne, una novità perché prima di lui il mito ovidiano era stato tradotto solo in pittura da Tiepolo e Poussin.
Nell’Apollo e Dafne, come già nelle già altre opere commissionate dal Borghese e custodite fin dall’inizio nell’omonima galleria, Bernini coinvolge lo spettatore non nel modo classico ma in una forma del tutto nuova, per certi aspetti rivoluzionaria. Lo scultore non chiede la semplice ammirazione per la scultura ma pretende da chi guarda la diretta partecipazione, costringendolo, di fatto, a immedesimarsi con l’opera stessa. Non fermarsi alla sola estatica bellezza delle sculture ma farle proprie per sentirle completamente.
Nell’Apollo e Dafne il dio greco non ci appare come un nemico, come uno che usa violenza, al contrario di Plutone nel Ratto di Proserpina. Il dramma dell’inseguimento, la violenza del tentativo di afferrare la ragazza svaniscono nell’armonia di due figure che si fondono fra loro, in un mirabile afflato che prima sensoriale che scultoreo. Bernini scolpisce un Apollo disperato, nel momento in cui ha preso coscienza che non potrà mai avere Dafne e, fissa per sempre, l’attimo in cui la giovane ninfa si sta trasformando. Le sue dita diventano fragili foglie, le gambe solido tronco, i piedi salde radici.
Sono due giovani bellissimi, immuni da qualsiasi forma di volgarità e chi guarda partecipa del loro singolare amore fatto di fuga, resistenza, trasformazione, disillusione. Nell’imponente ma al tempo stesso delicata scultura di Apollo e Dafne, alta 2 metri e 43 centimetri, le influenze classiche sono evidenti, d’altra parte Bernini, come altri scultori, aveva studiato da vicino la statuaria antica. In particolare, lo storico dell’arte Piero Adorno ha ritrovato nell’atteggiamento ballettistico che domina il gruppo scultoreo beniniano, l’eleganza della figura di una danzatrice antica, conservata nel Museo Nazionale Romano.
Bernini, Apollo e Dafne – particolare
Apollo e Dafne è uno dei capolavori della scultura di tutti i tempi, un impareggiabile esempio unico di virtuosismo. Dalla perfetta levigazione del marmo, che sembra quasi trasparente, annullando la durezza della pietra, a particolari come i morbidi riccioli della chioma di Apollo o le dita tese di Dafne, che si stanno definitivamente trasformando in foglie. Lo scultore Pietro Canova, quando nel 1780 vide per la prima volta l’opera, rimase stupefatto, affermando come il marmo fosse stato “lavorato con tanta delicatezza che sembra impossibile, vi sono le foglie dell’alloro di meraviglioso lavoro”.
Proprio l’esecuzione delle foglioline, e non solo, ha scatenato nel corso dei secoli un fitto e mai risolto dibattito. Secondo la storica dell’arte Jennifer Montagu la “metamorfosi del blocco di marmo in delicate radici e ramoscelli, e in volteggianti trecce, fu in larga misura opera di Giuliano Finelli”, uno scultore di Carrara che collaborò con Bernini. Per altri storici dell’arte, invece, il contributo del Finellli sarebbe stato assolutamente minimo, se non del tutto irrilevante.
Originariamente la scultura all’interno di Galleria Borghese era collocata sul lato di una stanza contiguo alla cappella, addossata a una parete e poggiata su un basamento più basso dell’attuale. Come altre sculture di Bernini, anche questa era stata concepita come un proscenio teatrale da collocare nello spazio, un concetto tipicamente barocco, che, attraverso questa vera e propria installazione, principio tanto caro all’arte contemporanea, avrebbe esaltato il punto massimo dell’azione come raccontato dal critico Wittkower.
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Agli inizi dell’Ottocento si decise di collocarla al centro della stanza, in modo da poterla ammirare totalmente, anche girandole intorno, anche se questa nuova disposizione museale tradiva, di fatto, l’intento originario di Bernini.
Fin dalla sua primissima esposizione Apollo e Dafne riscosse grandi consensi. Uno dei primi biografi del Bernini, Pierre Cureau de la Chambre, così descrisse l’opera: “La sua Dafne che si vede nella Vigna dei Borghese è unanimemente considerata il suo capolavoro”.
Ma non tutti erano concordi nell’apprezzare Apollo e Dafne. La bellezza unica di quei corpi nudi, nella Roma della Controriforma, suscitò non poche reazioni, alcune delle quali di assoluto sbigottimento. Non solo si contestava il tema tipicamente pagano, ma anche quella esuberante, lasciva, scandalosa nudità. Il cardinale di Sourdis Francois d’Escoubleau confidò a Scipione Borghese che non avrebbe mai esposto Apollo e Dafne nella sua dimora. Troppo conturbante per un ecclesiastico. Ma Scipione fu di tutt’altro avviso.
Per evitare, tuttavia, inopportune critiche fu deciso di far incidere sul basamento del gruppo scultoreo un distico in latino, pensato dal cardinale Maffeo Barberini, amico del Borghese, e futuro pontefice con il nome di Urbano VIII. Un modo per giustificare quella giovanile nudità attraverso un precetto morale, secondo la consuetudine dell’epoca ma anche di età passate.
Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae
Fronde manus implet baccas seu carpit amaras
(L’amante che insegue le gioie della bellezza effimera
Alla fine si trova foglie e bacche amare nella mano)
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