La notizia che in molti, da quel drammatico 16 marzo 1978 non avrebbero mai voluto ricevere, arrivò per bocca di Valerio Morucci. Fu proprio uno dei terroristi di via Fani, uno di quei quattro travestiti da aviere che aveva trucidato la scorta di Aldo Moro, a comporre il numero del professor Franco Tritto, dopo aver tentato, invano, di contattare Saverio Fortuna. Roma, 9 maggio 1978, in casa Tritto poco dopo mezzogiorno il telefono suona. Uno, due, tre squilli. Morucci dall’altra parte della cornetta, in una cabina telefonica alla stazione Termini, freme e sta per attaccare. Al terzo squillo però, mentre il brigatista, che è in compagnia di Adriana Faranda, teme che anche questa chiamata sarà vana, qualcuno dall’altra parte del telefono risponde.

MORTE DI ALDO MORO: LA TELEFONATA DELLE BR

Memoriale di Moro

Lo statista Aldo Moro

È Franco Tritto, che quattro anni prima si era laureato proprio con Moro in Giurisprudenza, divenendo in poco tempo non solo un affidabile assistente universitario, ma anche fraterno amico del politico pugliese. Alle ripetute richieste di Tritto su chi sia al telefono, Valerio Morucci, dopo essersi definito tal dottor Niccolai, brutalmente risponde: “Brigate rosse”, lasciando dietro quelle due parole un gelido silenzio, rotto, successivamente dal più ferale dei messaggi: “adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro”. 

La decisione di uccidere Moro fu presa il 15 aprile, quando – come ricorda la terrorista Anna Laura Braghetti che comperò e arredò la casa di via Camillo Montalcini – nella “prigione del popolo” fu pronunciato il verdetto. Aldo Moro, ritenuto colpevole dopo il processo a cui è stato sottoposto, “viene pertanto condannato a morte”. A spingere i brigatisti a questa decisione è una “valutazione politica”. A loro avviso, non avrebbero potuto ottenere più nulla dal sequestro, lo stallo era tale che “l’uccisione del prigioniero” rappresentava l’unica via d’uscita.

Mentre Morucci prosegue la telefonata – comunicando che sarà possibile ritrovare il corpo di Moro in via Caetani, la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure, all’interno del bagagliaio di una Renault 4 rossa, i cui primi numeri della targa sono N5 – poco distante, nella sede della Democrazia Cristiana va in onda l’ultima, grottesca recita. In palazzo Cenci-Bolognetti, ridisegnato nel corso del Settecento dall’architetto Ferdinando Fuga e sede della DC, quel 9 maggio 1978 è stata convocata la direzione nazionale, proprio l’organo di cui Moro è ancora formalmente presidente.

Nelle stanze del palazzo appartenuto ai discendenti di Beatrice Cenci e che il 5 giugno 1944 fu occupato da De Gasperi, Scelba, Tupi e Pastore (Andreotti arrivò solo ad occupazione conclusa), i notabili democristiani devono verificare la possibilità di una trattativa, formalizzando, in tal modo, il dissenso verso quella linea della fermezza che, dal 16 marzo, è l’imperativo categorico della DC e non solo. Alla testa di questo gruppo vi è il Presidente del Senato Amintore Fanfani, che il giorno prima, l’8 maggio, ha incontrato la famiglia dello statista pugliese, garantendo il suo personale impegno per chiedere al suo partito “un approfondimento della proposta del PSI”, cioè quella di uno scambio di prigionieri.

Ma all’esito di quella riunione nessuno crede, tantomeno i brigatisti, per i quali si tratta di “un’ennesima manovra dilatoria, decisa soprattutto per salvare l’anima”. E, infatti, faranno la famosa telefonata. La speranza che giorni addietro la famiglia e gli amici di Moro avevano legato a quel flebile “eseguendo la sentenza“, che chiudeva il comunicato n. 9 delle Br del 5 maggio 1978, è definitivamente tramontata.

Nessun gerundio, ma solo uno spietato presente: Aldo Moro è morto e questa volta non si tratta di un macabro falso, come nel caso del famigerato finto comunicato, confezionato il 18 aprile scorso, ma dell’agghiacciante verità. Moro è stato giustiziato e il suo corpo, in posizione quasi fetale, giace inerme sotto un plaid, dentro una macchina rossa, parcheggiata in una via, Michelangelo Caetani, a due passi dalla sede della Democrazia Cristiana, in piazza del Gesù e da quella del Partito Comunista in via delle Botteghe oscure.

LE ULTIME ORE DI VITA DI MORO: QUALCOSA NON TORNA

Aldo Moro nel covo delle BR in Via Gradoli durante il suo rapimento

Aldo Moro nel covo delle BR in Via Gradoli durante il suo rapimento

La Renault 4, precedentemente rubata, è dalla sera dell’8 maggio parcheggiata nel box di via Montalcini e lì, in quel luogo angusto e sotterraneo, stando almeno all’unanime ricostruzione dei brigatisti, Moro viene assassinato. “Al mattino alle sei Mario (Moretti n.d.r.)” – racconta Anna Laura Braghetti – “entrò da Moro. Lo svegliò e gli disse che bisognava andare via”. L’onorevole chiede il permesso di sbarbarsi, ma Moretti gli risponde che non c’è tempo, e che deve uscire così. Moro, che molto probabilmente comprende la ragione di quella improvvisa fretta, viene fatto sistemare in una grossa cesta di vimini e dentro quella raggiunge il box, dove si trova la macchina rossa.

Ma qualcosa rischia di andare storto, subito dopo che Moro è stato fatto “accomodare” nel bagagliaio della R4. “Poi vidi l’inquilina dell’ultimo piano. Sapevo – racconta ancora la Braghetti – che era una professoressa. La salutai, chiesi come mai fosse in piedi così di buon’ora. Rispose che insegnava fuori Roma e impiegava molto tempo per arrivare a scuola”.La professoressa non può non vedere il fascione anteriore della Renault, nonostante la serranda del box fosse in parte abbassata. Ma non dice nulla, sale a bordo della sua vettura ed esce dall’area dei box. Il piano è salvo, e i terroristi, (oltre alla Braghetti e a Moretti c’era anche Germano Maccari), tirano un sospiro di sollievo.

Perché Moro, pur sentendo il breve dialogo fra la terrorista e l’inquilina, non urla? Perché “era una persona mitissima” – sostiene la Braghetti – “in cinquantacinque giorni non aveva dato neppure un calcio alla porta. Penso che fosse, ormai, stanchissimo e rassegnato”. Quando la calma torna la sentenza viene portata a termine. Una prima, sorda raffica di spari silenziati e, subito dopo, una seconda, più breve però. L’eseguendo è diventato eseguito. Ancora una volta le armi tacitano ogni flebile speranza.

Tutta la vicenda appare inverosimile, perché inutilmente azzardata. Come mai, infatti, i brigatisti uccidono Aldo Moro nel box, con il rischio di essere visti da qualcuno nel corso del trasporto dell’onorevole democristiano dentro la cesta, e non nella cosiddetta prigione del popolo, oltretutto insonorizzata?

Decidendo di trasportare Moro vivo e sveglio i terroristi si espongono al rischio che Moro possa urlare, dubbio che, ragionevolmente, è stato sollevato anche dalla sentenza della Corte d’Assise di Roma del 16 luglio 1996. Per i giudici, infatti, appare incredibile che i brigatisti potessero “ritenere in anticipo che l’onorevole Moro, chiuso in un cesta da dove poteva avere una discreta percezione della situazione ambientale, non essendo né narcotizzato, né imbavagliato, avrebbe continuato remissivamente a tacere senza chiedere aiuto nemmeno lungo il tragitto per le scale fino al box e pur percependo voci come quella della Braghetti e della Ciccotti” (l’inquilina dell’ultimo piano, n.d.r.).

Oltre a queste logiche supposizioni, c’è un dato incontrovertibile che inficia pesantemente il racconto dei brigatisti ed è quello della scienza. Sulla base dell’indagine autoptica Moro non sarebbe morto poco prima delle 7, come indicato dalle BR, bensì fra le 9 e le 10 del mattino.

Poco convincente appare pure il racconto di come la R4, con il corpo di Moro, abbia raggiunto via Caetani. Stando a quanto dichiarato dai terroristi la Renault rossa, probabilmente condotta da Moretti, esce dal box di via Montalcini alle 9 circa, due ore dopo la supposta uccisione. Percorre vie secondarie della Magliana, di Monteverde e, infine, di Trastevere.

Quindi passa ponte Garibaldi e si infila nelle strette vie del Ghetto, attraversa piazza Mattei, piazza Paganica per arrivare in via delle Botteghe Oscure dove svolta a destra, destinazione via Caetani. Qui, poco prima, una Simca di colore verde, guidata da Bruno Seghetti, è stata già parcheggiata in via Caetani per tenere il “posto” alla R4. Insomma una vettura dal fiammeggiante colore rosso, attraversa una Roma da cinquantacinque giorni blindata. Entra in pieno centro, a pochi passi dai palazzi storici, dalle sede dei partiti e delle istituzioni, portando nel bagagliaio “semplicemente” il corpo di Aldo Moro.

Ancora dubbi, incertezze, tasselli di un complesso mosaico che mancano o che, inevitabilmente, suggeriscono domande. Rimane, però, al netto di questo lungo, infinito racconto che, purtroppo a distanza di quarant’anni ancora lascia perplessi, il dramma umano di Moro, la sua prigionia, la sua morte, la disperazione dei familiari, che vissero quei cinquantacinque giorni illudendosi e, poi, accettando, con una dignità unica, l’inevitabile verdetto.

Restano le parole intime che l’uomo Moro, ormai privo di speranze e consapevole della propria fine, scrisse nella sua ultima lettera, quella all’amata Noretta. Il modo migliore, forse,  per ricordarlo a distanza di quarant’anni:

Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto.

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