A leggere gli ultimi giorni di vita di Nicolae Ceausescu, il dittatore rumeno giustiziato il giorno di Natale del 1989, sembra di sfogliare le pagine di un romanzo di Gabriel Garcìa Marquez, quasi si trattasse di una versione rivisitata e corretta del suo celebre L’autunno del patriarca.

Ma la realtà spesso supera la fantasia, costringendo la storia a raccontare fatti che ai più possono sembrare assurdi, inconcepibili. Eppure bastarono cinque soli giorni, dal 21 al 25 dicembre 1989, per cancellare ventiquattro anni di “regno” incontrastato; meno di una settimana per picconare il culto di chi sembrava destinato a governare in eterno.

I PRIMI PASSI DI NICOLAE CEAUSESCU

La biografia dell’uomo più potente della Romania del secolo scorso, quello che per la sua atrocità verrà ribattezzato “il Mastino di Bucarest”, sembra uscita da un racconto dickensiano. Terzo di dieci figli di un sarto alcolizzato e di una contadina analfabeta, il futuro dittatore nel 1929, all’età di undici anni, lascia il villaggio natio di Scornicest, nel distretto di Olt, per la capitale.

A Bucarest il piccolo Nicolae va a bottega dal calzolaio Sandulescu che, oltre a insegnargli i rudimenti di una professione che, di fatto, non eserciterà mai, lo introduce nei circoli comunisti. Ceausescu subisce il fascino della politica e di quel partito comunista rumeno che, pur nella clandestinità, fa sentire la sua voce nella dispotica Romania dei primi anni Trenta.

All’interno di quella forza politica, in cui entra nel 1932, a soli 14 anni, Nicolae Ceausescu si fa rapidamente notare.

Coraggio e abnegazione non gli mancano, le cause dei lavoratori, specie quelle dei ferrovieri, diventano la ragione del suo impegno che lo porta a partecipare a scioperi e manifestazioni.

In un regime che non tollera simili proteste le porte della prigione sono inevitabili e si aprono più volte.

Nel 1939, proprio in una delle tante patrie galere dove viene rinchiuso, mentre l’Europa sta per conoscere la ferocia nazista, il futuro dittatore incontra quella che sarà la compagna di una vita, la donna che lo seguirà fino alla morte: Elena Petrescu.

Più grande del futuro marito di due anni, è nata il 7 gennaio 1916, Elena, che in seguito sarà un’eminenza grigia nella Romania comunista, è di umilissime origini. Pur non avendo mai studiato (ha lasciato le scuole elementari senza conseguire la licenza), ha carisma da vendere, qualità che la caratterizzerà fino alla fine dei suoi giorni.

La guerra è alle porte e sarà proprio il secondo conflitto mondiale a segnare la svolta per Ceausescu. Con la caduta della monarchia nel 1948, la Romania diventa una repubblica “rossa” e al giovane e ambizioso Nicolae a spalancarsi, questa volta, sono le porte del potere.

L’ASCESA DEL DITTATORE RUMENO

Ceausescu

Ceausescu

A partire dal 1948 inizia la personale, inarrestabile scalata politica che lo porta a inanellare incarichi. È prima ministro dell’Agricoltura, poi viceministro delle Forze Armate, infine, nel 1965, segretario del partito rumeno dei lavoratori.

È l’inizio di una irresistibile ascesa che solo il piombo dei fucili arresterà per sempre.

Il nuovo segretario vuole lasciare il segno e in modo indelebile nella sua Romania. Cambia prima il nome del partito, recuperando quello storico comunista, poi trasforma la repubblica da popolare in socialista, ma nel solco dell’indipendenza, soprattutto dall’URSS.

Per Ceausescu la Romania non può essere un pallido tassello nel mosaico sovietico. La storia e la tradizione del paese, fieramente anti russo, meritano un ruolo ben diverso nello scacchiere internazionale. La rigida logica dei blocchi contrapposti, che soffoca altre realtà territoriali, non gli appartiene. Vuole contare, esercitare un ruolo, avere un peso. L’idea di sopravvivere nel cono d’ombra dell’ingombrante orso sovietico non lo persuade. Oltre quella cortina di ferro, di churchilliana memoria, ci sono possibilità da sfruttare, occasioni da prendere al volo.

Il segno che non sta scherzando e che l’affrancamento dall’URSS non è solo un efficace slogan, si materializza nel 1968 quando il leader rumeno, nel frattempo divenuto Presidente del Consiglio di Stato, decide di non inviare delle truppe in Cecoslovacchia per reprimere la nascente rivoluzione.

Lo strappo con Mosca è netto, il Rubicone è passato, Ceausescu non è più l’esangue capo di un paese satellite dell’URSS, ma un leader apprezzato oltre cortina, ammirato da quel mondo occidentale che gli riconosce coraggio e strategia politica.

Il “Mastino di Bucarest” che, il 29 aprile 1974, diventa Presidente della Repubblica Socialista di Romania, carica che manterrà fino alla fine, è visto ormai dalle varie diplomazie occidentali con simpatia.

Quell’uomo, nel cristallizzato mondo comunista, rappresenta una piacevole, inaspettata eccezione. Le sue manie non allarmano più di tanto, men che mai quel culto della personalità, divenuto ormai ipertrofico.

Ma la realtà è ben diversa e dietro la maschera del politico controcorrente, moderno e innovatore, capace di mettersi contro Mosca, si cela un dittatore spietato, che controlla il popolo rumeno con efferatezza degna dei peggiori tiranni. La Securitate, la temutissima polizia politica, soffoca, attraverso un capillare controllo sociale, ogni anelito di libertà, ogni speranza di cambiamento.

Come la potentissima Stasi, anche la Securitate occupa ogni settore della società rumena. Nulla sfugge al Grande Fratello rumeno. Chi dissente, anche in modo sommesso, rischia di essere eliminato e nel peggiore dei modi.

Ma le lancette della storia stanno correndo anche per il Genio dei Carpazi, uno dei tanti appellativi che mitizza Nicolae Ceausescu.

IL VENTO DELLA RIVOLUZIONE E LA FINE DI UN DITTATORE

Ceausescu, dittatore della Romania

Ceausescu nel 1976 (Ion Chibzii from Chisinau, Republic of Moldova, via Wikimedia Commons)

Il sogno di una Romania forte, indipendente, autarchica, in cui ogni oggetto, dal più piccolo al più grande, deve necessariamente essere prodotto in Romania, sta per dissolversi.

La politica dell’urbanizzazione di massa, che passa anche per la drammatica distruzione di ben 7000 villaggi agricoli, non porta i risultati sperati. La Romania, a cui Ceausescu ha imposto un rigido cambiamento, non è diventata sul finire degli anni Settanta quel paese ricco e autonomo che sperava.

La povertà che dilania le campagne, spingendo migliaia di contadini verso le città, non risparmia neppure queste ultime. Dietro la sfavillante architettura dei grandi palazzi, che eternano il potere di Ceausescu, si cela una verità ben diversa.

Quando il vento della rivoluzione inizia a soffiare anche in Romania, Ceausescu, da buon dittatore, sulle prime non se ne accorge, derubricando quelle potenti raffiche a timidi refoli. Ma il corso della storia ha intrapreso una strada a senso unico e per l’uomo più potente della Romania il conto alla rovescia è cominciato.

Il 24 novembre 1989, un mese prima della catastrofe, mentre il Muro di Berlino è caduto e le frontiere dell’est sono state pacificamente spazzate via, a Bucarest va in scena la raffigurazione del ridicolo, il teatro dell’assurdo.

Come in un dramma di Eugène Ionescu, ecco sollevarsi il sipario sul XIV congresso del Partito comunista rumeno che, insensibile alla forza della storia, incorona nuovamente Nicolae Ceausescu come suo leader incontrastato, ma è solo una stanca rappresentazione, l’ultima penosissima recita.

Il grido “Ceausescu è il popolo” che i membri del congresso ritmano battendo le mani, è un ululato che si perde nell’eco della grande sala, intrappolato da spesse mura. Fuori Nicolae Ceausescu non è più il popolo, ma il volto di un dittatore sanguinario, a un passo dalla fine.

Quel popolo, che la miopia politica di un potere pensa ancora di controllare, sta per spezzare le catene di un’insopportabile schiavitù, bramando la libertà che i vicini ungheresi e non solo, stanno già pacificamente assaporando.

Il richiamo al nazionalismo, per decenni sguainato da Ceausescu per tacitare le tante, troppe difficoltà, non basta più. Gli echi della rivoluzione, come gelidi spifferi, penetrano nell’ingessata Romania e per l’uomo che sognava di diventare il Mao europeo, il gong sta fatalmente per suonare.

GLI ULTIMI GIORNI DI CEAUSESCU

Timisoara, 16 dicembre 1989. La scintilla della rivoluzione rumena, quella che poi deflagrerà incendiando tutto il paese portando alla drammatica caduta di Ceausescu e del suo regime, scoppia nella città più multietnica della Romania, nella prima città in Europa a dotarsi di illuminazione pubblica elettrica.

Tutto nasce dalle critiche che il pastore calvinista, l’ungherese Laszlo Tokes, muove nei confronti del regime di Ceausescu che vuole limitare ancora di più i diritti della minoranza ungherese. Il religioso chiama in difesa i suoi fedeli che accorrono in massa così come la polizia. Si accendono i primi scontri che in poco tempo si allargano a buona parte della città.

A fine giornata si contano 73 morti e decine di feriti ma le notizie che vengono diffuse per screditare Ceausescu e il suo regime, prontamente propagandate dai media stranieri, in particolare dall’emittente radiofonica Free Europe, parlano di migliaia di morti e di fosse comuni dove vengono in fretta seppelliti i corpi dei manifestanti. Notizie false, diffuse ad arte dagli oppositori interni del leader rumeno, che hanno l’effetto, però, di far divampare la protesta anche in altre parti del paese, specie a Bucarest.

Nel pieno della protesta di Timisoara, Ceausescu è in Iran, per una visita ufficiale. Da Bucarest, dove è rimasta la moglie, in qualità di vice primo ministro, il dittatore riceve ampie rassicurazioni. Non c’è ragione di allarmarsi, è tutto sotto controllo, ma è versione costruita ad usum delphini.

Il 20 dicembre, intanto, Ceacescu rientrato in patria, compare alla TV di stato e in un discorso ufficiale derubrica gli scontri di Timisoara a episodi legati a provocatori, a teppisti, per respingere i quali la polizia è stata costretta a intervenire «per difendere l’ordine e i beni della città».

Il giorno dopo decide di parlare direttamente alla gente, dal suo palazzo di Bucarest. Fa freddo quel giovedì 21 dicembre, l’aria natalizia ha lasciato il passo all’attualità, al desiderio di riforme ma anche alla netta opposizione a quello che non è più ritenuto il capo del popolo. In piazza, sotto il palazzo presidenziale, si riuniscono in più di centomila per ascoltare l’uomo più potente di Romania. Sembra uno dei tanti, soliti comizi, una delle tante rappresentazioni statiche di quel potere, ma non sarà così.

Mentre il dittatore sta parlando dalla folla si alzano i primi, sonori mugugni. Le grida di protesta soffocano oramai le ovazioni, i fischi gli applausi. Ceausescu, intabarrato nel suo cappotto con il colbacco ben piantato in testa, sulle prime fa finta di nulla, salmodiando il suo discorso. Ma le espressioni di disapprovazione sovrastano la sua voce. Ceausescu tenta di calmare la folla ma invano. L’uomo forte di Bucarest appare spaesato, preoccupato. Ha gli occhi sbarrati, la voce tremolante. Uno del suo seguito gli si avvicina sussurrandogli qualcosa. Poi la diretta televisiva si interrompe e all’immagine di Ceausescu si sostituisce quella di uno sfondo rosso.

La reazione della polizia sulle prime è dura, ma non fa desistere quella folla che aumenta a dismisura. Gli scontri proseguono nella notte e minacciano direttamente il palazzo presidenziale che, intorno a mezzogiorno, viene occupato dai manifestanti, senza che vi sia una vera e propria resistenza da parte delle forze dell’ordine che passano rapidamente dalla parte dei manifestanti.

Pochi minuti dopo le 12 di quel fatale 22 dicembre, Ceausescu, la moglie e pochi stretti collaboratori, lasciano il palazzo in elicottero per quella che è, a tutti gli effetti, una fuga in piena regola. Il tutto avviene in diretta televisiva, la TV di stato, la cui sede è stata occupata dai manifestanti, irrompe nelle case di milioni di rumeni per raccontare la storia, l’agonia di un regime.

Quel tentativo di fuga dura poco. Dall’elicottero, atterrato nei pressi della città di Targoviste, il dittatore e sua moglie scendono in manette. Sarà un tribunale speciale a decidere le sorti dei due. Dentro un’aula di scuola, il giorno di Natale, andrà in scena l’ultimo atto di quella tragedia.

La cronaca di quegli ultimi aneliti è narrata dalla TV nazionale, cinica novelliera della fine di un dittatore. Se le televisioni dei paesi vicini hanno trasmesso la gioia della rivoluzione, i sorrisi della libertà ritrovata, quella rumena porta in scena la fine di un uomo che si credeva invincibile.

La diretta del sommario processo a cui Ceausescu e la moglie Elena vengono sottoposti il 25 dicembre 1989, ha il sapore della nemesi. In quella piccola stanza, adibita a tribunale della storia, Nicolae Ceausescu, intabarrato in un umile pastrano, con in testa un cappello di pelliccia, sembra tornato il contadino di decenni fa. Si oppone con stanca fierezza ai suoi giudici, ripete ossessivamente che non riconosce quel tribunale, tanto meno il suo avvocato che, all’apice di una grottesca difesa, chiede per il suo assistito la pena capitale.

Ceausescu in un impeto di orgoglio, che lo fa assomigliare al Berenger del Rinoceronte di Ionescu, ribatte che lui è il presidente della Romania, il capo delle Forze Armate e che parlerà solo alla Grande Assemblea nazionale. Ma sono parole che si perdono nel vuoto, afone testimonianze di un potere ormai giunto alla fine. A quelle immagini, poco dopo, si sovrapporranno quelle dei cadaveri di Ceausescu e della moglie e di un muro crivellato dai colpi.

Oggi a distanza di trent’anni di Ceausescu rimane un ricordo sbiadito: la sua casa natia nel villaggio di Scornicest e un busto, l’ultimo probabilmente, di colui che sognava di vivere in eterno.

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