Gli italiani non sono più quelli, lo scriveva Pier Paolo Pasolini sulle pagine del Corriere della Sera il 10 giugno 1974, individuando quella perdita d’innocenza delle classi incolte, quel passaggio da una società arcaica e contadina ad una nuova struttura neocapitalistica. Lo scrittore riscontrava nella popolazione italiana ‘una mutazione antropologica‘, un piegamento della società verso il mondo omologante del consumismo. La tesi in questione partiva dalla disamina di due avvenimenti accaduti il mese precedente: la vittoria del NO al referendum sul divorzio e la strage di Piazza della Loggia a Brescia.
PASOLINI E L’OMOLOGAZIONE CULTURALE DEGLI ITALIANI
Partiamo dal primo accadimento. Il 12 e 13 maggio 1974 gli italiani sono chiamati alle urne per esprimere la loro opinione circa l’abrogazione della legge che consente il divorzio, normativa approvata dal Parlamento quattro anni prima e fortemente osteggiata dalla Democrazia Cristiana e dal Vaticano. Gli italiani si recano a votare in massa, quasi l’88% degli aventi diritto si presentano alle urne; si tratta di una partecipazione quasi totale dopo una campagna referendaria serrata ed aspra. Il NO alla abrogazione della legge raggiunge quasi il 60%, suggellando una vittoria netta dello schieramento dei partiti progressisti e laicisti.
Riguardo a questo episodio cruciale della vita civile e sociale dell’Italia post ’68, Pasolini scriveva nelle colonne del Corriere della Sera che la DC ed il PCI non avevano capito e compreso fino in fondo il mutamento che si era ormai generato da tempo nella popolazione italiana. La vittoria del NO, secondo lo scrittore, stava a significare che
i «ceti medi» sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non «nominati») dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. È stato lo stesso Potere – attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo.
Il risultato del referendum indicava, pertanto, a detta di Pasolini, un avvenuto passaggio delle masse verso l’omologazione dei gusti, della cultura, del ragionamento. Un processo che Pasolini chiama di borghesizzazione del proletariato e del mondo rurale, mondo che si è dissolto, lasciando spazi da colmare con i nuovi miti del benessere e del consumo.
Il murale raffigurante l’omicidio di Pasolini sul Lungotevere a Roma
Nella seconda parte dell’articolo Pasolini si muove attraverso l’analisi del neofascismo e lo fa partendo dalla bomba nascosta in un cestino e deflagrata il 28 maggio 1974 durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista. Pasolini nell’articolo si interroga sul significato del nuovo movimento fascista e si chiede se quegli ultimi gruppi eversivi che si richiamano al Ventennio abbiano la stessa matrice culturale ed ideologica del movimento mussoliniano.
Pasolini è convinto che il neofascismo non si richiami più alla triade sacra di Patria, Dio e Famiglia, ritenendo che la rappresentazione di un’Italia rurale, autarchica, sobria, parsimoniosa idolatrata all’epoca da Mussolini non appartenga all’immaginario dei giovani fascisti degli anni Settanta. Intravede piuttosto una omologazione di tutta la società, un appiattimento delle classi sociali, delle categorie politiche che oramai abbracciano, tutte, il concetto di consumo, capitalismo e benessere.
Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili.
Gli ultimi dieci anni hanno prodotto un radicale cambiamento negli italiani, una trasformazione psichica che ha alterato l’essenza di una popolazione oramai attratta dal capitalismo e dalla promessa di un’Italia benestante. Questo ha avuto come conseguenza diretta il processo di uniformazione degli individui, formando dei soggetti aventi le stesse aspirazioni e gli stessi miti importati dagli Stati Uniti.
Tale salto «qualitativo» riguarda dunque sia i fascisti che gli antifascisti: si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della «cultura di massa».
IL GIUDIZIO DI PASOLINI SULLA TELEVISIONE
Per Pasolini il mezzo utilizzato per esercitare e realizzare il processo di omologazione della società è la televisione. Tre anni prima lo scrittore-regista aveva lucidamente definito la TV come uno strumento antidemocratico che assoggettava le menti e le persone conducendole all’alienazione, all’essere altro da sé.
Il 29 maggio 1971 Pasolini partecipa ad una trasmissione televisiva condotta dal giornalista Enzo Biagi dal titolo III B: facciamo l’appello. Il programma prevedeva la realizzazione di un’intervista ad un personaggio famoso e contestualmente ai suoi ex compagni di classe. Il programma andrà in onda soltanto il 3 novembre 1975, subito dopo la sua morte, poiché in quel periodo lo scrittore, in qualità di direttore di Lotta continua, era imputato in un processo per istigazione a delinquere e propaganda antinazionale e la censura ne aveva impedito la messa in onda.
In quel programma va in scena uno scontro tra Pasolini e Biagi in relazione alla libertà di espressione in televisione e al potere che il medium esercita. La TV diviene mezzo che veicola il cambiamento antropologico degli italiani.
La televisione è un medium di massa e un medium di massa non può che alienarci e mercificarci… Nel momento in cui qualcuno ti ascolta nel video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.
Dunque l’alienazione, la mercificazione, il consumismo. Questo è il nuovo regime che impone subdolamente le proprie leggi, facendole accettare da coloro che ne vengono stritolati. Il 7 febbraio 1974 in Pasolini e… la forma della città, un cortometraggio di quindici minuti realizzato dallo stesso Pasolini e da Paolo Brunatto, l’intellettuale italiano, sulla spiaggia di Sabaudia con il suo cappotto blu ed i capelli scompigliati dal vento, denuncia che
il regime è un regime democratico però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, quel potere dell’attività dei consumi, invece riesce a ottenere perfettamente distruggendo le varie realtà particolari […] allora posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia.
Foto di Copertina: Pier Paolo Pasolini nella borgata del Quarticciolo a Roma. Autore sconosciuto, Public domain, via Wikimedia Commons
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