L’11 febbraio 1929, con la firma dei Patti lateranensi, si concludeva un lungo e travagliato percorso storico, diplomatico e politico che portava al duplice riconoscimento tra Stato italiano e Santa Sede. In tal modo la cosiddetta Questione romana veniva dichiarata “definitivamente e irrevocabilmente” superata. La storia dei rapporti fra i due Stati inizia in pieno Risorgimento, allorché le istanze espansionistiche del piccolo ma ambizioso Regno di Sardegna, vengono necessariamente a confliggere con quelle temporalistiche dello Stato Pontificio.
LE LEGGI GUARENTIGIE
Se per i padri risorgimentali, con Cavour in testa, la conquista di Roma rappresentava la normale e inevitabile conclusione della politica indipendentista promossa dal regno sabaudo, questo non poteva valere per Pio IX. Per il pontefice, infatti, la città eterna non poteva che appartenere alla Chiesa e la sua conquista, di qualunque origine fosse, era da considerarsi inaccettabile. Per questo, all’indomani della Breccia di Porta Pia, la reazione vaticana fu di totale chiusura verso quelli che venivano ritenuti degli usurpatori che con le armi in pugno avevano “cancellato un diritto inalienabile della Santa Sede”.
A nulla, infatti, servì l’emanazione, nel maggio 1871, delle Leggi Guarentigie, con le quali i vertici politici italiani speravano di risolvere la controversa questione dei rapporti fra i due stati. La risposta pontificia fu ancora una volta di piena opposizione. Il 15 maggio 1871, a soli due giorni dalla pubblicazione delle Guarentigie, papa Pio IX promulgò l’enciclica Ubi nos, la risposta ufficiale della Santa Sede all’atto unilateralmente promosso dal Regno italiano.
Fin dall’incipit dell’enciclica appariva evidente come fosse ancora fortissimo lo sdegno per la giornata del XX settembre, che aveva determinato attraverso “un’invasione armata la triste e amara sorte di Roma e il civile Principato della Sede Apostolica”.
Per questo motivo ogni tentativo promosso da quello che, non senza disprezzo, veniva definito Governo Subalpino, non poteva che essere fermamente respinto, a cominciare dalle Guarentigie che, al solo “scopo di gettar polvere negli occhi dei cattolici e di sopire le loro ansie” apportavano, a detta del papa, soltanto “inconsistenti immunità e alcuni privilegi”, mettendo fine al potere temporale del papa, strumento indispensabile, a detta di Pio IX, per garantire la reale indipendenza del pontefice e l’effettivo esercizio della sua missione.
In realtà le Guarentigie (26 articoli, suddivisi in due parti, la prima più specificatamente riguardante la persona del pontefice, la seconda destinata a regolamentare i rapporti fra i due stati), prevedevano il riconoscimento di importanti diritti da parte del Regno italiano a quello papale. In particolare veniva riconosciuta l’inviolabilità del papa, la possibilità di avere delle forze armate, il regime di extraterritorialità per i palazzi vaticani, per il Laterano nonché per la residenza di Castel Gandolfo ma anche lo stanziamento di 3.225.000 lire, un introito annuo erogato dallo stato italiano e finalizzato a sostentare il mantenimento del pontefice, del Sacro Collegio e dei palazzi apostolici. Sul piano più prettamente diplomatico le Guarentigie prevedevano l’assoluta indipendenza dello Stato vaticano, nonché, tema quest’ultimo piuttosto discusso in parlamento, l’esenzione per i vescovi del giuramento al re.
IL NON EXPEDIT DI PIO IX
A maggior sostegno della posizione di netto rifiuto del papa ad ogni possibile riconciliazione con il Regno d’Italia vi fu la formulazione del Non Expedit, cioè dell’assoluto divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica italiana, sia in forma attiva che passiva. In realtà tale proibizione non riguardava la politica locale. La presenza di cattolici, infatti, nelle amministrazioni locali, a partire da quella di Roma, rappresentavano un’importante garanzia per il Vaticano.
LA POLITICA DI MUSSOLINI VERSO LA SANTA SEDE
La necessità, tuttavia, di superare lo stallo diplomatico fra i due stati fu avvertita a partire dal nuovo secolo, quando le istanze antirisorgimentali da una parte e quelle anticlericali dall’altra erano tramontate, lasciando spazio a una maggiore e pragmatica possibilità di dialogo. L’avvicinarsi fra le due entità sembrò fattibile in occasione della Conferenza di Pace di Parigi, che si tenne nella capitale francese a partire dal gennaio 1919 e che avrebbe dovuto ridisegnare l’Europa dopo il primo conflitto mondiale. In quel consesso internazionale il rappresentante italiano e quello vaticano fecero le prove per intavolare un lento dialogo che, tuttavia, nonostante auspicabili premesse, non portò a nessun reale miglioramento delle relazioni interstatali.
Alla base del mantenimento dello status quo c’era, in particolare, la diffidenza della Santa Sede verso i vertici politici italiani, un atteggiamento che comprese perfettamente Benito Mussolini, una volta salito al potere.
Il leader fascista, infatti, fin dai primissimi mesi di governo, avviò una politica riconciliante con il Vaticano, volta a superare il principio cavouriano della libera chiesa in libero stato, attraverso l’attuazione, in senso unilaterale, di una serie di importanti provvedimenti che non poterono non far contente le gerarchie cattoliche. Fra questi l’erogazione di 3 milioni di lire per il restauro delle chiese danneggiate dalla guerra, sostanziose sovvenzioni concesse alle scuole italiane gestite all’estero da congregazioni religiose, l’introduzione del crocifisso nei luoghi pubblici e, principalmente, la riforma scolastica, quella che notoriamente viene chiamata Riforma Gentile.
Uno dei pilastri di questa riforma, oltre a importanti concessioni economiche alle scuole cattoliche, era l’introduzione dell’insegnamento della religione nelle scuole primarie, un provvedimento che fu salutato entusiasticamente, non solo dalle gerarchie cattoliche, ma anche da tutti i cattolici italiani e che, invece, trovò profonda avversione da parte dei liberali e dei socialcomunisti che ritenevano quell’atto in contrasto con il principio cardine dell’aconfessionalità dello stato italiano.
L’atteggiamento benevolo di Mussolini, preannunciato già in un discorso alla Camera dei Deputati il 21 giugno 1921, in cui sottolineava come “la tradizione latina e imperiale di Roma oggi [fosse] rappresentata dal cattolicesimo”, era più figlio di un preciso calcolo politico, che di una conversione sulla via di Damasco dell’ex mangiapreti socialista.
Il capo del fascismo era conscio che il suo successo personale e politico passasse necessariamente attraverso la benevola accondiscendenza vaticana, senza la quale governare sarebbe stato arduo, e non si sbagliava, anche se all’interno del partito non tutti furono concordi con la strategia della mano tesa alla Chiesa Cattolica, rivendicando, invece, lo spirito materialista e antireligioso del primo fascismo. Ma l’ideologia era una cosa e il governo un’altra.
La politica unilaterale promossa da Mussolini verso la Santa Sede piacque e non poco, anche se si preferiva non mostrare un eccessivo entusiasmo. Per il Vaticano il fascismo, al netto delle violenze e di modi politici non certo ortodossi, rappresentava, comunque, come ricorda lo storico Giovanni Sale, “l’unica forza politica capace di riportare l’ordine nel Paese e soprattutto di tenere a bada le forze eversive (socialisti e comunisti) e i nemici della chiesa (massoneria)”.
A preoccupare il papa e la curia erano più le forze di sinistra, quelle che si ispiravo a ideali laici, antireligiosi, che il fascismo, verso il quale, però, prudentemente si continuava a mantenere un atteggiamento ancora cauto e diffidente. In sostanza, a partire da Pio XI e passando per altri importanti esponenti curiali, si riteneva che i tempi per affrontare e risolvere la Questione Romana non fossero ancora del tutto maturi, e che bisognasse continuare a monitorare i fascisti e i loro comportamenti.
Parallelamente alla politica dell’avvicinamento a piccoli passi al Vaticano, il fascismo intraprese in quello stesso periodo un’azione energica e violenta, non solo a parole, contro il Partito Popolare e questo nel sostanziale silenzio della Santa Sede, per la quale Don Sturzo, verso cui non aveva mai manifestato grandi simpatie, stava diventando sempre più un problema, specie in questa intensa fase diplomatica. Un problema che andava definitivamente risolto.
Il 10 luglio 1923 don Sturzo rassegnò le dimissioni da segretario, di fatto obbedendo all’esplicita richiesta pervenuta “indirettamente” dal Papa con una lettera del Cardinal Gasparri a Padre Tacchi Venturi, nella quale si invitava il prete siciliano a fare cosa gradita al Santo Padre nel prendere in considerazione la possibilità di ritirarsi “senza ulteriore dilazione da segretario politico del Partito Popolare”.
Tolto di mezzo don Sturzo e decapitato così il Partito Popolare, che Mussolini per certi aspetti temeva più dei socialisti e comunisti, i rapporti fra governo e Santa Sede non poterono che migliorare e neppure la drammatica vicenda del delitto Matteotti incrinò il dialogo.
Nel corso delle settimane, seguite alla scomparsa del segretario del Partito Socialista (ritrovato morto nell’agosto del 1924), la chiesa, seppur indirettamente, non fece mai mancare l’appoggio al governo di Mussolini. E fu un sostegno importante che, unito a quello del re, permise al Duce di superare indenne il momento più difficile della sua pur breve esperienza politica.
A minare il carsico lavorio diplomatico per l’agognata riconciliazione, fu, semmai, la nascita dell’Opera nazionale Balilla, che irritò e non poco i vertici vaticani. La Santa Sede, infatti, riteneva un’inaccettabile invasione di campo la nascita dell’ONB in un ambito, quello dell’educazione giovanile, da sempre monopolio cattolico. Inoltre destava più di una preoccupazione il tipo di educazione naturalistica e totalitaria che la nuova istituzione, che avrebbe interessato una fascia d’età dai 6 ai 18 anni, avrebbe promosso, interferendo inevitabilmente con i tradizionali modelli educativi cattolici.
LA FIRMA DEI PATTI LATERANENSI
La firma dei Patti Lateranensi
Superato, seppur non del tutto, l’impasse sulla questione educativa, i lavori fra le due diplomazie proseguirono, sfociando nella storica firma dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929. Quel giorno Benito Mussolini, per conto dello Stato italiano e il cardinal Gasparri, rappresentante vaticano, sottoscrissero nel palazzo Laterano, da qui il nome dell’accordo, tre distinti documenti: un trattato, un concordato e, infine, una convenzione finanziaria. Con il primo i due stati finalmente si riconoscevano reciprocamente. Il trattato sanciva la nascita del piccolo stato della Città del Vaticano, comprendente, oltre alla Basilica del Vaticano, i palazzi apostolici, nonché le basiliche romane e la residenza estiva di Castel Gandolfo. Da questo elenco fu escluso il palazzo del Santo Uffizio e una porzione di piazza San Pietro, una non concessione, quest’ultima che, seppur minima, rappresentava per Mussolini una significativa vittoria morale. Infatti, come ricorda lo storico Pietro Scoppola, “la sovranità della Santa Sede restava nei confini del territorio di fatto non occupato dalle truppe italiane al momento della presa di Roma”. In sostanza non si verificava nessuna cessione di territorio italiano alla Santa Sede. Inoltre il trattato prevedeva anche la facoltà, da parte della Santa Sede, “di continuare a intrattenere rapporti diplomatici con quei paesi con cui l’Italia fosse eventualmente entrata in guerra”.
Più complesso, invece, il concordato, l’elemento più corposo e politico di tutti i Patti Lateranensi, il vero e proprio asse portante di tutto l’accordo, la cui stesura impegnò fino agli ultimi giorni prima della firma le parti. I punti più qualificanti di questo accordo riguardavano in primis il sostanziale recupero ipso facto dell’articolo 1 dello Statuto Albertino, che sanciva una posizione di privilegio della religione cattolica che, d’ora in poi, sarebbe stata l’unica dello Stato italiano, pur in un contesto di sostanziale tolleranza delle altre confessioni religiose.
Sulla base della stipula del concordato erano riconosciuti dal nostro ordinamento gli effetti civili del matrimonio religioso, veniva esteso l’insegnamento della religione cattolica a tutte le scuole di ogni ordine e grado, eccezion fatta per quello universitario e garantita la libertà scolastica. Inoltre lo Stato italiano si impegnava ad escludere dai pubblici uffici quei sacerdoti colpiti da censura ecclesiastica e a prevedere, anche per la figura del Romano Pontefice, il reato di oltraggio, finora immaginato solo per la persona del re.
A corredo dei Patti Lateranensi vi fu poi la firma dell’accordo finanziario in base al quale venivano elargite cospicue somme da parte dell’Italia a favore del Vaticano.
Se nella stipula del trattato la posizione di Mussolini era stata sulla Chiesa di Roma decisamente dominante, diverso fu il rapporto di forza nella stesura del concordato, in cui furono non poche le concessioni governative riservate al papa.
Le reazioni in Italia ai Patti Lateranensi furono diverse. Dal sostanziale entusiasmo di cattolici e fascisti moderati per una ferita pluridecennale finalmente sanata, si passava alle critiche di quei fascisti più intransigenti, fra cui anche il ministro Gentile, che ritenevano che attraverso da quell’accordo il fascismo usciva indebolito, senza dimenticare, ovviamente, la netta opposizione delle forze di sinistra e di quelle liberali, che rivendicavano il principio dello stato aconfessionale.
Se in patria il giudizio sulla storica firma dell’11 febbraio fu complesso e contraddittorio, all’estero, invece, fu di univoco consenso. Mussolini ricevette il plauso della stampa e della politica straniera che riconosceva al Duce il merito di aver risolto un’annosa questione che si trascinava da anni. La Conciliazione, come osservò in seguito Renzo De Felice, fu per Mussolini “il più vero e importante successo di tutta la sua carriera politica”.
L’INSERIMENTO IN COSTITUZIONE E LA REVISIONE DEL 1984
I Patti Lateranensi furono ratificati nel mese di maggio del 1929, prima alla Camera dei Deputati e poi al Senato, dove ben sei furono i contrari, fra questi Luigi Albertini e principalmente Benedetto Croce, che motivò la sua ferma opposizione all’accordo con il timore di assistere al “risorgere in Italia dello Stato confessionale”.
Nel 1947, dopo un acceso dibattito che vide coinvolti i cattolici da una parte e i liberali, i socialisti e i comunisti dall’altra, i Patti entrarono ufficialmente nella Costituzione italiana, in vigore il 1 gennaio dell’anno successivo. La discussione fu inevitabilmente intensa e a tratti drammatica. Molti esponenti delle sinistre ritenevano inaccettabile che una Carta, dichiaratamente antifascista, potesse contemplare sic et simpliciter uno dei provvedimenti più significativi del regime mussoliniano. Prevalse, alla fine, la linea di Togliatti ispirata ai dettami della realpolitik, per cui l’insieme dello storico accordo entrò di fatto nell’articolo 7 della Costituzione italiana.
Nel 1984, infine, i Patti lateranensi, seppur limitatamente al solo concordato, furono rivisti. Dopo una lunga e complessa trattativa, che vide coinvolto in prima persona l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi, fu rimossa quella clausola, da sempre la più discussa, che faceva della religione cattolica, una religione di stato.
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