La Deposizione del Pontormo è una di quelle opere che, al netto della passione per la storia dell’arte, non può lasciare indifferenti e questo per la drammaticità della narrazione, per la struttura stessa della composizione pittorica, per la cromia rivoluzionaria, ma, anche, per la disposizione degli undici personaggi che animano una delle vette più alte del Manierismo fiorentino.

JACOPO CARUCCI, IL TORMENTO DI UN UOMO SOLITARIO

Autore della Deposizione è uno dei pittori più eclettici e rivoluzionari del primo Cinquecento: Jacopo Carucci, meglio noto come Pontormo, soprannome derivante da Pontorme, il paese, oggi un quartiere di Empoli, dove il pittore nacque nel 1494.

Jacopo Carucci, che lo storico dell’arte Piero Adorno definì «uomo tormentato, scontroso, solitario» e che la società dell’epoca, pur apprezzandone l’immenso talento, considerò un lunatico asociale, legò la sua formazione artistica ad alcuni dei più grandi nomi del Rinascimento.

Fu, infatti, seppur per un tempo brevissimo, allievo di Leonardo da Vinci e, poi, di Piero di Cosimo, Mariotto Albertelli, Frà Bartolomeo e di Andrea del Sarto. Ma quel ragazzo inquieto, di cui Michelangelo disse «questo giovane sarà anco tale per quanto si vede, che se vive e seguita porrà quest’arte in cielo» fu, fin dall’inizio, un artista non integrato, dominato da quell’angoscia esistenziale che caratterizzerà la sua tormentata esistenza e che troverà la sua massima espressione proprio nella sua produzione artistica.

L’ORIGINALITÀ STILISTICA DEL PONTORMO

La sua assoluta indipendenza pittorica, nonostante il legame con l’arte di Michelangelo, Leonardo, Raffaello e, soprattutto, con quella di Andrea Del Sarto, emerse preponderante, mostrando la sua innata inquietudine, plasticamente resa dai movimenti contrastati, dai volti agitati, dai colori accesi, tutti elementi che furono la vera e propria cifra artistica del Carucci.

Una scelta stilistica, un’originalità di linguaggio che non tutti compresero, specie dopo i primi esordi che avevano palesato lo stigma di un genio. Vasari, in particolare, sottolineò come la decisione di abbandonare i “buoni modelli”, quelli per intenderci legati alla pittura dei giganti rinascimentali, a favore di nuove sperimentazioni, determinò risultati discutibili, bizzarri, smodati e, spesso, eccessivi.

Ma Vasari, che non comprese neppure la passione di Pontormo per Durer, che assimilò a mera imitazione, si sbagliò e molto perché quegli eccessi furono, invece, la firma di un genio che, proprio, con la Deposizione della Cappella Capponi, mostrò tutto il rivoluzionario talento di un pittore che scelse, cosa praticamente unica per la sua epoca, di non integrarsi mai, preferendo rimanere ai margini della società artistica e non solo.

LA CAPPELLA CAPPONI NELLA CHIESA DI SANTA FELICITA A FIRENZE

La chiesa di Santa Felicita come la vediamo noi oggi è il prodotto settecentesco della ricostruzione operata dall’architetto Ferdinando Ruggieri sulle fondamenta della precedente chiesa romanica eretta, a sua volta, su un’area cimiteriale cristiana.

Dedicata a Felicita, la santa che fu martirizzata insieme ai suoi sette figli per volontà del prefetto Publio nel 165 d.C., la chiesa che si erge, quasi timidamente, nel quartiere di Oltrarno, tra Ponte Vecchio e Palazzo Pitti, mostra una facciata a capanna e un interno a navata unica con una tipica pianta a croce latina.

La Chiesa di Santa Felicita a Firenze

La Chiesa di Santa Felicita a Firenze

Santa Felicita, oltre la pala del Pontormo, ha molti motivi per essere visitata, a cominciare dalla Sala Capitolare, unica testimonianza dell’originario edificio romanico. Da vedere è anche la Sagrestia d’impronta brunelleschiana, dove si possono ammirare opere di Taddeo Gaddi, sua la Madonna col Bambino e i Santi ma anche la quattrocentesca tavola di Neri di Bicci, Santa Felicita e i suoi sette figli.

La chiesa fiorentina si caratterizza, anche, per la presenza di diverse cappelle tra cui la Cappella Capponi, lo scrigno che racchiude il capolavoro del Pontormo.

Chiamata anche Cappella Barbadori, dal nome del suo primo proprietario, questo luogo, progettato dal Brunelleschi, passò nei primi anni del Cinquecento alla famiglia Capponi e fu proprio un suo discendente, Ludovico di Gino Capponi, a commissionare a Jacopo Carucci la decorazione della cappella.

Siamo nel 1525 e l’artista originario di Pontorme ha già all’attivo diverse opere tra cui la splendida Cena in Emmaus, oggi agli Uffizi ma in origine destinata al refettorio della foresteria della Certosa del Galluzzo, monastero cistercense non lontano da Firenze.

Pontormo lavora ben cinque anni per decorare la cappella, lasciando, oltre alla Deposizione, anche gli Evangelisti nei pennacchi e la Vergine Annunziata e l’Angelo Annunziante sulla parete laterale, mentre, purtroppo, è andata perduta la decorazione della volta.

Ma la protagonista assoluta della Cappella Capponi, impreziosita anche dalla splendida vetrata, copia di un’opera di Guillaume de Marcillat (forse il più importante autore di vetrate policrome), è senza dubbio lei, la Deposizione del Pontormo.

LA DEPOSIZIONE DEL PONTORMO, IL SIMBOLO DEL MANIERISMO

Quando nel 1525 Ludovico di Gino Capponi chiama Jacopo Carucci per decorare la cappella di famiglia, il pittore ha trentuno anni e un curriculum di tutto rispetto, sia nell’ambito dei dipinti che in quello degli affreschi. Ha realizzato diverse opere che hanno palesato il suo straordinario talento, come nel caso della Visitazione, affresco realizzato tra il 1514 e il 1516 o l’enigmatico Ritratto di Cosimo il Vecchio, dipinto compiuto per Goro Gheri e che secoli dopo lo scrittore Carlo Emilio Gadda citerà nel suo Quer Pasticciaccio Brutto de via Merulana.

Manca, ancora, tuttavia, l’opera capace di eternare Pontormo tra i grandi di sempre e quel capolavoro, per fortuna nostra, arriverà.

Pontormo lavora alla sua Deposizione, che in realtà, in origine si chiama Trasporto di Cristo, ben tre anni e nella più totale segretezza, tanto che fa innalzare una paratia in legno in modo da tenere l’opera lontana da occhi indiscreti, perfino da quelli del munifico committente.

La Cappella Capponi e la Deposizione del Pontormo

La Cappella Capponi e la Deposizione del Pontormo

Quando nel 1528 la Deposizione viene, infine, svelata, lo stupore dei fiorentini è totale. Ma a molti quella tavola non piace, come a Vasari che critica e non poco la scelta cromatica operata dal Pontormo.

La scena ritratta è quella classica di una deposizione di Cristo dalla croce, un soggetto ampiamente raffigurato nella storia dell’arte ma Pontormo, a partire già dalla composizione dei soggetti, sceglie e in modo netto, di rompere con la tradizione, scardinando come un carpentiere al cospetto di una nave, ogni convenzione pittorica.

QUAL È LA CARATTERISTICA DELLA DEPOSIZIONE DEL PONTORMO?

Gli undici soggetti racchiusi nella scena (d’acchito se intravedono subito dieci, più difficile scorgere la figura girata dietro Cristo) sono tutti raffigurati in posizione decisamente innaturale, in un equilibrio precario, poggianti, perlopiù, sulle punte delle dita dei piedi, quasi non percepissero il loro peso, la loro dimensione reale.

L’armonia, la concezione dello spazio che animano molte opere rinascimentali qui, nel capolavoro di Pontormo, tendono a liquefarsi, a favore di un’atmosfera dominata dalla sospensione, perché tutto nella Deposizione appare sospeso, quasi innaturale, un fattore che rende quest’opera rivoluzionaria, decisamente in anticipo sui tempi, scelte che saranno apprezzate e molto nel Novecento.

Quel nodo inestricabile di figure, come ebbe a dire lo storico dell’arte Adolfo Venturi, annulla lo spazio prospettico che, a eccezione per la nuvoletta in alto a sinistra, è praticamente assente.

GLI UNDICI PERSONAGGI RAFFIGURATI NELLA LORO ANGOSCIA

Si tratta di personaggi che non hanno difficoltà a mostrare la loro insicurezza, la loro angoscia, disperazione per quanto accaduto, la morte di Cristo e la paura per quello che dovrà avvenire.

Questi sentimenti, queste sensazioni vengono resi da Pontormo evidenti attraverso i visi spauriti, gli occhi spalancati e fissi su una realtà dolorosa e inaccettabile ma, soprattutto, con l’instabilità dei loro corpi, con quella disposizione l’uno sull’altro che, in taluni casi, come per la figura di Nicodemo (secondo alcuni riproducenti le fattezze di Pontormo stesso) non permette a chi osserva neppure di percepire la loro stessa collocazione.

Deposizione del Portormo, particolare del ragazzo che sorregge le gambe di Cristo

Deposizione del Portormo, particolare del ragazzo che sorregge le gambe di Cristo

Ma tra tutti gli undici personaggi quello che richiama immediatamente l’attenzione dello spettatore, quasi rapendo il suo sguardo, è senza dubbio il ragazzo in basso, quello che sorregge le gambe del corpo esanime di Cristo.

Non solo è il più instabile fra tutti, ma è anche quello più spaurito, rivestito con una maglia aderentissima, quasi una seconda pelle, che lo rende praticamente nudo al cospetto di chi guarda.

PONTORMO E L’INNOVATIVA TECNICA PITTORICA DELLA TEMPERA A UOVO

Ma forse ciò che colpisce maggiormente del capolavoro di Jacopo Carucci è la scelta cromatica, un colore che, come ha scritto Piero Adorno, «con la sua chiarezza contribuisce alla levità delle figure, un colore manieristico, ossia intellettuale, non naturale», un’innaturalezza che Pontormo restituisce rivestendo alcune figure, come nel già menzionato caso del ragazzo che sorregge le gambe di Cristo, «di una maglia aderentissima (quasi una calzamaglia), che le fa apparire come fossero nude, ma il cui colore, invece che quello di un corpo umano, è viola-rosato, azzurro, verde».

Una scelta cromatica che desterà più di qualche critica tra i contemporanei di Pontormo, una pittura che fece storcere il naso a Vasari per il quale Pontormo «la condusse senz’ombre e con un colorito chiaro e tanto unito, che a pena si conosce il lume dal mezzo et il mezzo dagli scuri».

Ma, proprio quella rivoluzionaria cromia, quasi cangiante che insieme alla composizione e alle forme determinano una visione allucinata, onirica, in cui non è più narrata una storia secondo i canoni del primo Rinascimento ma la rappresentazione di un fatto presente, seppur in una chiave fuori del tempo e dello spazio, sarà l’origine del successo della Deposizione del Pontormo.

Un’opera straordinaria, nel senso primo del termine, che Pontormo realizza magistralmente, ricorrendo, come scoperto di recente a seguito di accurate ricerche, non alla tradizionale tecnica a olio bensì a un’altra decisamente innovativa e poco praticata all’epoca.

LA “VOLUTA INCONSISTENZA” DELLE FIGURE

Affidiamoci, allora, alle parole di Daniele Rossi, uno dei restauratori della Deposizione del Pontormo:

«Attraverso una serie di indagini diagnostiche e di analisi chimiche, condotte da Mirella Baldan nel laboratorio R&C Art di Vicenza, abbiamo individuato i pigmenti e i leganti che Pontormo ha usato per dipingere. L’artista, per creare questo cromatismo che oggi ha riacquistato una leggibilità e un vigore impressionante e sconvolgente, non ha dipinto a olio come si credeva fino ad ora. Ha usato invece la tempera a uovo, ovvero ha impastato i pigmenti e le polveri con le uova fresche, mescolando ad esempio l’albume con il bianco di piombo, vale a dire la biacca, per dipingere le trasparenze in maniera più lieve dove gli serviva per rendere gli incarnati più chiari. Non sappiamo il luogo preciso dove abbia dipinto questo grande tavolato in legno di pioppo, congiunto da sette assi verticali e tre traverse di larice, ma siamo sicuri che Pontormo aveva a disposizione uova fresche tutti i giorni. Una tecnica antica quella della tempera a uovo, ancora diffusa a quel tempo».

A proposito delle figure dipinte dal Pontormo nella sua Deposizione, Giulio Carlo Argan ebbe a dire:

«il pathos non si localizza nei gesti e nelle espressioni delle figure, ma si manifesta proprio nella loro voluta inconsistenza, nel loro trapassare dalla concretezza della forma all’astrattezza dell’immagine.»



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