Non fu il primo monarca a essere decapitato ma fu senza dubbio quello più famoso. Stiamo parlando di Luigi XVI, l’ultimo sovrano assoluto di Francia, pallida controfigura di quell’Ancien Régime che la Rivoluzione ghigliottinò in una gelida mattina d’inverno. Questa la storia di un uomo che non avrebbe dovuto regnare e che per colpa della sorte si trovò su uno dei troni più importanti del globo, ultimo protagonista di un mondo destinato a scomparire.
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LUIGI XVI: L’ULTIMO SIMBOLO DEL POTERE ASSOLUTO
Parigi, 21 gennaio 1793. Sono da poco passate le otto di un grigio e freddo mattino, quando una carrozza esce dalla prigione della Torre del Tempio, l’edificio costruito per volontà dei Templari nel lontano 1240 e diventata prigione, nel 1314, dopo la soppressione dell’ordine. Dentro quel cocchio coperto che lentamente attraversa le strade della capitale francese, si trova l’ultimo re di Francia e Navarra, quel Luigi XVI che, da quando è stato detronizzato, il 21 settembre 1792, è diventato soltanto il cittadino Luigi Capeto.
Ancora pochi metri e poi quell’uomo che fino a pochi anni prima era stato il simbolo vivente dell’assolutismo, salirà sul patibolo, scenograficamente collocato al centro di piazza della Rivoluzione francese, un tempo dedicata a Luigi XV, il nonno di colui che di lì a poco sarà decollato.
I parigini che assiepano la piazza, mantengono un religioso silenzio, un ultimo, incondizionato retaggio della loro sedimentata sudditanza. I loro occhi sono fissi sulla ghigliottina, su quello strumento di morte che da mesi anima le piazze di Parigi, spiccando teste in ossequio ai desiderata della Rivoluzione. Un congegno semplice, una perfetta macchina per decapitare in modo rapido e democratico i condannati a morte. La tradizione vuole che sia stata inventata dal medico francese Joseph Ignace Guillotin. In realtà, all’illustre clinico, uno dei primi ad adottare il metodo della vaccinazione preventiva, spettò solo il merito, condiviso con altri politici francesi, di presentare all’Assemblea Nazionale, il 9 ottobre 1789, un progetto di legge di sei articoli con il quale si chiedeva, tra le altre cose, di adottare un metodo di esecuzione capitale meno cruento e, se possibile indolore.
Prima dell’introduzione della ghigliottina, le esecuzioni a morte erano le più disparate e mutavano in base allo status sociale del condannato. Per i nobili c’era la decapitazione, per i plebei la più comune forca, per i nemici della chiesa, invece, si ricorreva, fin dal Medioevo, al rogo, una pratica decisamente dolorosa. Per i regicidi era previsto lo squartamento, ottenuto legando gli arti del malcapitato a quattro cavalli che, debitamente spronati, iniziavano a galoppare in direzioni diverse, con atroci conseguenze facilmente immaginabili. La ghigliottina, invece, con la sua ingegnosa rapidità, avrebbe dovuto garantire una morte indolore ma non sempre fu così, come accadde proprio a Luigi XVI, il ghigliottinato più celebre della storia di quella macchina di morte.
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LUIGI XVI, UN RE CHE NON AVREBBE DOVUTO REGNARE
Luigi Augusto di Borbone nasce a Versailles il 23 agosto 1754, alle sei e quarantacinque di un caldo mattino. Quarto figlio e secondo maschio dell’erede al trono di Francia Luigi Ferdinando, il piccolo Luigi, a cui viene dato il titolo di duca di Barry, cresce sano e robusto, trascorrendo gran parte del tempo nella tenuta di Meudon. Più simile nell’aspetto alla madre, Maria Giuseppina di Sassonia, il giovane Luigi ha un fisico robusto, la mascella squadrata e gli occhi grandi e azzurri.
Dal padre, invece, eredita la timidezza e una naturale inclinazione alla riservatezza. Ama la meccanica, i complessi ingegni degli orologi, la geografia e la storia. Divora le biografie dei grandi del passato, specie quella del re Carlo I Stuart, anche se lo incupisce e non poco il capitolo dedicato al morte del sovrano, decapitato per volere dei repubblicani di Oliver Cromwell, il 30 gennaio del 1649. Non sembra avere le stimmate del perfetto sovrano, ma non è poi così rilevante visto che Luigi XV è in buona salute e comunque, prima di lui, nella linea dinastica per la successione al trono, ci sono il padre e il fratello maggiore. Ma la storia ha in serbo un destino ben diverso per il piccolo Luigi.
Il 22 marzo 1761 il fratello maggiore Luigi Saverio muore a seguito dei postumi di una tubercolosi ossea. Quattro anni dopo la morte bussa nuovamente a corte. Il 20 dicembre 1765 muore anche il padre Luigi Ferdinando, l’erede al trono, dopo un’agonia di alcuni mesi seguita a un malore occorso durante un’esercitazione militare nei pressi di Compiegne, località che nel 1918 sarà teatro della resa tedesca a conclusione della Prima Guerra mondiale.
Il giovane Luigi Augusto, appena undicenne, è il nuovo Delfino di Francia, sarà lui a succedere a Luigi XV. Il 19 aprile 1770 sposa per procura Maria Antonietta d’Austria, una delle figlie dell’imperatrice Maria Teresa. I due ragazzi neppure si conoscono ma quel matrimonio è necessario per suggellare un’alleanza memorabile che dovrà riscrivere i destini dei due grandi paesi.
La storia, però, con il suo gravame di responsabilità, sta per presentare il conto al giovane Luigi. Dopo un regno durato ben cinquantanove anni, cominciato alla tenerissima età di cinque anni, quando è succeduto a Luigi XIV, il 10 maggio 1774, all’età di sessantaquattro anni, muore Luigi XV. Luigi Augusto di Borbone ora, per volere divino, è Luigi XVI, il nuovo re di Francia e Navarra.
Un quarto di secolo dopo la Francia viene scossa da un moto rivoluzionario di cui Luigi XVI non comprende la destabilizzante portata. Sul suo diario, il 14 luglio 1789, il giorno della Presa della Bastiglia, semplicemente scrive: «oggi nulla di nuovo», peccato che il suo regno abbia i giorni contati. Gli eventi si susseguono rapidi, il fiume rivoluzionario rompe gli argini, inondando tutto e tutti.
Il Terzo Stato fa sentire la sua voce, contrastando lo strapotere di nobiltà e clero, fino a quel momento inattaccabile. Il popolo, stremato dalla fame, vuole cibo, lavoro, dignità e, imbracciate le armi, minaccia secoli di incontrastato potere. La miopia del sovrano e quella ancor più inaccettabile della sua corte, accelera il processo della storia, spalancando le porte del baratro. A Versailles, però, mentre fuori tutto crolla, si continua a far finta di nulla, ma quel mondo fatto di crinoline, sontuosi ricevimenti e titoli nobiliari è a un passo dall’abisso, l’ultimo giro di ballo prima della definitiva catastrofe.
Il 1 ottobre 1791 Luigi XVI viene proclamato re dei francesi. Non si tratta di una mera differenza terminologica ma del segno dei tempi, lo stigma definitivo sul tramonto dell’assolutismo. Il 10 agosto 1792 l’Assemblea Nazionale decide di sospendere da ogni funzione Luigi XVI. Tre giorni dopo, il 13 agosto, il re, i suoi figli e la regina Maria Antonietta, vengono arrestati e condotti nelle tetre prigioni della Torre del Tempio.
L’orologio della storia ha iniziato a battere gli ultimi, fatali rintocchi. Per Luigi si aprono le porte del tribunale, la Convenzione, l’assemblea legislativa ed esecutiva istituita il 20 settembre 1792, ha deciso di processarlo. Ma alla sbarra non andrà un re, bensì un comune cittadino, visto che dal 22 settembre 1792 la Francia è una repubblica. Sulla millenaria storia della monarchia francese è calato il sipario.
IL PROCESSO A LUIGI XVI
La decapitazione di Luigi XVI
Fin dall’inizio appare chiaro che non sarà un processo qualsiasi. Non solo le accuse, formulate nei confronti di quello che fino a pochi anni prima era l’unto del signore, risultano fumose, prive di un reale fondamento ma soprattutto non è stato mai condotto un re davanti a un giudice e non esistono leggi specifiche in tal senso. Fra i membri della Convenzione non tutti sono certi della giustezza storica, prima ancora che giudiziaria, di processare un re. I girondini, il fronte più moderato, preferirebbe rimandare il processo e ogni possibile condanna, specie quella capitale.
Di diverso avviso sono i montagnardi, l’ala più radicale della Convenzione che spinge, invece, per una soluzione radicale, uccidendo colui che incarna quel regime che la rivoluzione vuole definitivamente seppellire. Per questo, il 3 dicembre 1792, Robespierre pronuncia, al cospetto dei membri della Convenzione, un discorso che suona come una condanna anticipata di colui che, in quanto re, «è condannato dalla natura», perché, aggiunge, «non si può regnare innocentemente, ogni re è un ribelle, un usurpatore». Robespierre quel giorno, forte del suo indubbio carisma, che tuttavia non lo salverà poco dopo dalla medesima ghigliottina, rivendicherà la natura squisitamente politica di quel processo che porta alla sbarra non un cittadino qualsiasi ma il re, il potere, la storia, la Francia.
Pur avendo in più di una circostanza ammesso la sua formale contrarietà alla pena capitale, Robespierre ritiene tuttavia inevitabile la morte del tiranno per il bene della Rivoluzione, per il futuro della Francia. Per lui la decisione, che di lì a poco i deputati dovranno prendere, non prevede l’emanazione di una semplice sentenza a favore o contro un uomo, ma, al contrario, l’adozione di «una misura di salute pubblica, un atto di provvidenza nazionale». Con una simile impostazione la sorte dell’ultimo re di Francia appare fin dall’inizio del processo segnata. A nulla serve la lunga e appassionata arringa del giovane avvocato de Sèze, che affianca i più esperti Tronchet e Malesherbes e che punta a invalidare il processo perché pieno di contraddizioni.
L’11 dicembre 1792 un irriconoscibile Luigi XVI compare per la prima volta al cospetto dei membri della Convenzione. Vestito con un abito bruno, con la barba di tre giorni, «né corta e né lunga ma soltanto incolta e sudicia» come ebbe a scrivere Michelet, Luigi appare indebolito, stanco, emaciato, tale da suscitare sentimenti di pena in molti dei presenti.
A parlare per lui è principalmente l’avvocato De Sèze che sottolinea l’illegittimità dell’impianto accusatorio ma, ancor prima, l’infondatezza giuridica del processo stesso, visto che, per la carta costituzionale del 1791, ancora vigente, il monarca gode dell’inviolabilità e può essere deposto solo per specifici motivi. In sintesi, come osservato dalla storica Barbara Biscotti, «Luigi XVI fu sacrificato nel contesto di una decisione politica rivestita delle forme della legalità processuale: una mostruosità agli occhi di un giurista, che tuttavia racchiude in sé il dilemma par excellence, che Polibio, sulla scorta di Erotodo, Platone, Aristotele, individuò attraverso la teoria dell’anaciclosi, cioè l’inevitabile alternarsi ciclico delle tre forme di governo benigno (monarchia, aristocrazia, democrazia) attraverso la loro degenerazione nelle corrispettive forme maligne (tirannide, oligarchia, olocrazia)».
Consapevole della sua condanna a morte, il 25 dicembre Luigi XVI scrive il suo testamento, un lungo, accorato ma composto sfogo di un uomo conscio del suo destino. Il giorno dopo ricompare per la seconda e ultima volta davanti ai giudici. Alla fine dell’arringa dell’avvocato de Sèze, durata ben tre ore, l’ex re di Francia, stanco e provato, dichiarerà al presidente della Convenzione Jacques Defermon, poche, semplici parole: «avete udito la mia difesa, io non la ripeterò».
Il 20 gennaio 1793, dopo un’estenuante seduta che si chiude solo alla tre di un gelido mattino, la Convenzione emana l’attesa sentenza. L’imputato Luigi Capeto è condannato a morte, esecuzione che dovrà eseguirsi entro le ventiquattro ore successive. I contrari alla morte del sovrano sono 334, i favorevoli, invece, 387. La fine del monarca è decisa. Fra i sostenitori della condanna capitale c’è anche Luigi d’Orleans, cugino del re e padre del futuro re Luigi Filippo, che da qualche tempo, in pieno spirito rivoluzionario, si fa chiamare Luigi Egalitè e che, poco tempo dopo, conoscerà anche lui gli effetti spietati della ghigliottina.
Luigi XVI, una volta venuto a conoscenza della decisione della Convenzione, prova a chiedere un rinvio della condanna di tre giorni, un appello, però, che cade nel vuoto. Il re, come preannunciato da Robespierre, deve morire e prima possibile.
COME È MORTO LUIGI XVI?
Vestito di bianco, con in mano il libro dei salmi, il 23 gennaio 1793, uno spettrale Luigi XVI sale i pochi gradini che lo conducono al patibolo dove lo attende il boia di Parigi, quel Charles Henri Sanson, erede di una famiglia di giustizieri che, fin dal 1600, spicca le teste dei francesi.
Poco prima l’ultimo re di Francia che, a dispetto dei soli trentott’anni sembra ora molto più vecchio, aveva affidato l’anello nuziale, il suo orologio da taschino e una ciocca dei suoi capelli a un aiutante perché li consegnasse, a sua volta, al figlio, a quello che per i monarchici diventerà, di lì a poco, Luigi XVII.
Dopo aversi fatto legare le mani dal boia, non senza un certo fastidio legato al ruolo che ancora si sente di avere, l’ultimo re di Francia, tacitati i tamburi, il cui rullio fende il silenzio plastico di quella storica giornata, pronuncia poche parole, prima che la lucente lama della ghigliottina gli tagli la testa. Rivolto al popolo sottostante, che guarda al patibolo con un sentimento di referenza misto a umana curiosità, l’ultimo emblema dell’Ancien Régime così si esprime:
«Signori, sono innocente di tutto ciò di cui vengo incolpato. Mi auguro che il mio sangue sia utile ai francesi e plachi la collera di Dio».
Dopo aver fatto posizionare l’illustre condannato sul ceppo, Sanson, il mastro Titta parigino capace di eseguire in tutta la sua carriera ben 2918 decapitazioni, fa calare “l’acciar tagliente”, come scrisse in seguito il poeta Vincenzo Monti. Ma l’esecuzione non va come dovrebbe. A causa di un’errata collocazione, la lama non trancia il collo ma la testa del sovrano, facendone uno scempio orripilante. Il silenzio che aveva accompagnato gli istanti precedenti quell’esecuzione lascia il posto a urla di tripudio.
Il sangue di Luigi XVI cosparge rapidamente il terreno sottostante, mischiandosi all’umida terra. Uno dei presenti, Luis Sébastien Mercier, scriverà che molti cittadini intinsero le proprie dita, delle piume o dei semplici pezzi di carta nel sangue di colui che era stato il loro re. Ma ora il tiranno è morto, viva la repubblica.
Pochi giorni dopo papa Pio VI, nell’apologia del defunto sovrano, la Quare lacrymae, evocò la possibilità di un’immediata beatificazione di Luigi XVI che, però, per ragioni di opportunità, rimase lettera morta. Dopo l’esecuzione il corpo del monarca verrà sepolto in un’anonima tomba nel cimitero della Madeleine, dove, mesi dopo, sarà raggiunto dalla moglie Maria Antonietta, ghigliottinata 16 ottobre 1793.
Con il ritorno della monarchia, all’indomani della Restaurazione, i due corpi verranno seppelliti nella chiesa di Saint Denis, da sempre luogo deputato a raccogliere le spoglie mortali dei re di Francia.
Anni addietro, subito dopo la caduta della Bastiglia, un esitante Luigi XVI aveva chiesto al duca di Liancourt, se si trattasse di una semplice sommossa. Il duca, senza mezzi termini, rispose: «No, Sire, è una rivoluzione».
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