Lenin, Trotskij, Nicola II, Kerenskij e milioni fra soldati, operai, contadini, poliziotti, tutti rigorosamente uomini. A leggere i libri di storia sembra che la Rivoluzione russa sia stata un fatto declinato esclusivamente al maschile, come se le donne, in quel febbraio del 1917, fossero state del tutto assenti, confinate nelle case a preparare scarni pasti o inginocchiate davanti ad altari illuminati da abbacinanti candele a pregare per una guerra interminabile che mieteva soltanto vittime, uccidendo flebili speranze. Eppure la rivoluzione russa di febbraio si tinse di rosa, specie in quel suo fatale incipit, facendo recitare alle donne un ruolo di assoluto primo piano, togliendo agli uomini la primazia della scena.

RIVOLUZIONE RUSSA DI FEBBRAIO

Pietrogrado, 23 febbraio 1917, calendario giuliano, prime ore del mattino. Il sole è alto e prova timidamente a scaldare una città ancora infreddolita e affamata. Nei giorni precedenti, la cronaca ha registrato alcuni tafferugli, qualche tentativo di sciopero, subito abortito, qualche tiepida protesta per i prezzi del cibo saliti alle stelle, come il burro, il pane, la farina ma nulla di più. La rabbia, per una guerra che si fa sempre più lunga e luttuosa, è crescente. A stento si riesce a contenerla, ma sembra, nonostante tutto, ancora un timido, inoffensivo borbottio.

La città, fieramente adagiata sulla Neva – che la megalomania dello Zar Pietro il Grande aveva fondato ai primi del Settecento e che da pochi anni, in un afflato di ottimistico nazionalismo, ha mutato il proprio nome dal teutonico Pietroburgo al più russo Pietrogrado – sembra ancora inerme, incapace di prevedere quello che di lì a poche ore diventerà per sempre Storia.

Nonostante i quasi due milioni di morti nelle lontane e mal difese trincee, i prezzi dei generi alimentari esorbitanti, il razionamento delle derrate imposto dalle autorità municipali, la rabbia per una guerra che si comprende sempre meno, Pietrogrado sembra sferzata da una brezza lieve, che non lascia certo presagire l’imminente tempesta.

Per volontà del congresso internazionale delle donne socialiste che s’era svolto a Copenaghen nell’agosto 1910, da sette anni la giornata del 23 febbraio è diventata  la giornata internazionale della donna, una ricorrenza che, in quel 1917, sembra stridere con le condizioni di vita a cui i russi, e in particolare le donne, devono sottostare.

RIVOLUZIONE DI FEBBRAIO: LO SCIOPERO DELLE DONNE 

Rivoluzione russa di febbraio. La folla davanti alla Duma

Rivoluzione russa di febbraio. La folla davanti alla Duma

A Vyborg, quartiere proletario della capitale, dove sorge un importante distretto tessile, quel 23 febbraio – che nel resto del mondo si legge 8 marzo – le donne operaie decidono di dire basta alle infinite file notturne, intirizzite dal freddo, davanti ai negozi per cercare di accaparrarsi a caro prezzo qualcosa da mangiare. Spengono semplicemente gli impianti, dichiarando lo sciopero, una parola che gli uomini avevano sussurrato nelle giornate precedenti, ma che si era dispersa fatalmente nel vento.
Quelle donne, invece, la urlano senza timore, stanche di soffrire, di vedere i loro figli morire di stenti, di lottare disperatamente solo per mangiare. La scelta di quelle coraggiose operaie, che nonostante tutto mandano avanti l’economia di un paese in ginocchio e che da tre anni ha impegnato oltre dodici milioni di uomini al fronte, giunge improvvisa, come quel tiepido sole dopo giorni di grigio gelo.

I dirigenti socialisti, ma anche i semplici compagni, rimangono stupiti dalla proclamazione di quello sciopero. Per loro, “per quegli uomini che ne sanno di più”, i tempi non sono ancora maturi per passare all’azione. Il delegato bolscevico Kaiurov, quando viene a sapere dell’azione delle operaie di Vyborg, reagisce imprecando, trovando senza senso quella decisione, frutto dell’impulsività di semplici donne.
Ma ormai tornare indietro è impossibile, far rientrare negli stabilimenti quelle operaie è assolutamente impensabile anche perché non sono più sole. Si uniscono altri operai, come quelli delle officine Putilov, che da settimane, invano, chiedono aumenti salariali.
Il grido di “pane, pane” diventa assordante, un coro non più stonato e quell’iniziale piccolo corteo diventa, man mano che sfila per la città, un torrente in piena, che rompe gli argini e che si colora del rosso delle bandiere “ornate di scritte apertamente rivoluzionarie”. Dopo una breve e rapida consultazione i dirigenti socialisti decidono di appoggiare quel movimento spontaneo. Al bando la paternità del merito dell’azione, quel corteo è un’occasione troppo ghiotta per essere sprecata.

La marcia degli scioperanti prosegue e arriva a ponte Litejnyj, che collega Vyborg al centro della città, al cuore pulsante della capitale. Qui, schierati in fila sugli agili cavalli, ci sono i temutissimi cosacchi, le fedeli truppe zariste. Chiusi nei loro caldi cappotti, con in testa la nera papakha, il tipico cappello in pelle d’agnello, i cosacchi attendono schierati in assetto da guerra, con le baionette innestate e le minacciose cartucciere a tracolla sui famigerati caftani, rossi anche quelli. Ma i più rimangono a guardare e la folla, perché ormai di questo si tratta, supera, nonostante qualche piccolo scontro, ponte Litejnyj, raggiungendo la Prospettiva Nevskij.

Intorno alle quattro del pomeriggio il corteo entra in una città immobile, scortata dalla Neva ghiacciata. Il flusso di manifestanti è enorme. Tutta Pietrogrado sembra essere scesa in piazza, favorita anche dalla decisione inaspettata dei cosacchi di non reagire. Le loro temute azioni, che in passato hanno violentemente represso ogni anelito di protesta, questa volta non ci sono. I soldati lasciano sfilare la folla che, dopo un’iniziale e inevitabile circospezione, applaude quei militi che, per la prima volta, non appaiono come feroci avversari, ma come possibili alleati. Quelle che fino a poco prima erano due realtà distanti e contrastanti ora, in quel lembo di fine febbraio, possono diventare un sol popolo, senza più divisioni, unito dalla disperazione e dalla voglia di cambiare.

Il corteo, fra applausi e grida di incoraggiamento, raggiunge indisturbato, sulle note della Marsigliese, Palazzo Tauride, la residenza di ispirazione palladiana che il principe Grigorij Aleksandrovič Potëmkin si era fatto costruire sul finire del Settecento dall’architetto Starov e che dal 1909 era diventata la sede della Duma, il parlamento russo. Anche qui la reazione della temuta polizia zarista non c’è, la magia, iniziata poche ore prima, sembra ancora non svanita.

PIETROGRADO: IL CORTEO CHE CAMBIÒ LA STORIA

La città sul far della sera è “ostaggio” dei manifestanti. Il governo per ora latita, optando per una posizione di attesa, certo che quel 23 febbraio sia a conti fatti una involontaria e indolore novità, una giornata che l’indomani sarà dimenticata, avvolta dalla morsa del gelo e della fame. Ma quei manifestanti la sera del 23 febbraio vanno a coricarsi certi che quel fiume non si essiccherà, sicuri che il seme della rivolta è stato inevitabilmente piantato.

L’indomani, il 24 febbraio, è ancora il sole a scaldare la città e un lungo, infinito corteo con in testa ancora le donne, attraversa nuovamente la città. Non si chiede questa volta solo pane ma riforme, la fine della guerra e, per la prima volta, l’abdicazione dello Zar. I giorni in cui Nicola II annunciava dal balcone del Palazzo d’Inverno la guerra contro la Germania in un tripudio popolare, sono fatalmente lontani. Il resto è rivoluzione.

Quel 23 febbraio 1917, 8 marzo per gli altri, quelle “donne curve sui telai vicine alle finestre” decisero di entrare per sempre nella storia, scrivendo una pagina indelebile, segnando, per sempre, il destino del più importante impero del mondo. Forse non trovarono “l’alba dentro l’imbrunire”, ma di certo furono capaci di accendere l’incendio, innescando l’iskra, la scintilla, in quel fatale giorno di febbraio, dopo il quale nulla fu più come prima.

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