Zappolino è una frazione del comune di Valsamoggia, a circa 30 chilometri da Bologna. Fino al 2 aprile 1978, questo lembo della provincia emiliana è noto solo per una sanguinosa battaglia, combattuta il 15 novembre 1325 fra le milizie ghibelline di Modena e quelle guelfe bolognesi. Dopo quella domenica di inizio aprile quel nome, poco più di un punto su una carta geografica, diviene improvvisamente celebre per la misteriosa seduta spiritica sul caso Moro.
LA MISTERIOSA SEDUTA SPIRITICA SUL CASO MORO
Fa freddo quel 2 aprile. La giornata, come avrebbe cantato due anni più tardi Lucio Battisti, è uggiosa e la pioggia consiglia vivamente di stare in casa, magari davanti a un bel camino fiammeggiante per trascorrere nel migliore dei modi il pomeriggio e l’imminente sera.
Nella casa di campagna di Alberto Clò, un gruppo di amici, preso dalla noia, decide di fare qualcosa di alternativo per trascorrere la giornata, visto che di uscire, con quel tempo, nessuno ha davvero voglia. Il padrone, allora, emulo di Ronald Garfield nel bellissimo romanzo di Agatha Christie Un messaggio dagli spiriti, propone di fare una seduta spiritica, «a puro titolo di curiosità e di passatempo» (1) invece della solita partita a carte ma, al contrario del libro della regina del giallo, qui è tutto drammaticamente vero.
La proposta viene accolta, nonostante nessuno abbia «predisposizione alcuna di tipo parapsicologico o, comunque, pratica di queste cose» (2)
Esperti o no gli ospiti si siedono intorno al tavolo e «tutti poggiano il dito sul piattino dopo aver evocato uno spirito guida sottoponendogli alcune domande».(3) Oltre a Prodi in quella casa ci sono la moglie Flavia, Fabio Gobbi, Gabriella e Mario Baldassarri, Francesco Bernardi, Emilia Fanciulli, Carlo e Licia Clò, oltre al già citato anfitrione.
La domanda che viene posta agli spiriti – Prodi dirà che vennero “interrogati” anche i defunti Giorgio La Pira e don Sturzo – non è proprio delle più banali. Agli inquilini dell’aldilà viene chiesto dove si trovi Aldo Moro, lo statista democristiano rapito il 16 marzo in via Fani dalle Brigate Rosse, dopo aver ucciso tutti gli uomini della scorta.
Il piattino, agitandosi sul foglio di carta, forma alcune parole. Così Romano Prodi durante l’audizione alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani del 10 giugno 1981: «Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Naturalmente, nessuno ci ha badato; poi, in un atlante, abbiamo visto che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se qualcuno ne sapeva qualcosa e, visto che nessuno ne sapeva niente, ho ritenuto mio dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di riferire la cosa.»
AFFAIRE MORO: GRADOLI O VIA GRADOLI?
Lo statista Aldo Moro
L’indomani Prodi, «l’unico ad avere contatti con il vertice politico» (4) parla di Gradoli con il criminologo Balloni che a sua volta riferisce la strana storia della seduta spiritica al vicequestore di Bologna. Il 4 aprile il futuro presidente del consiglio è a Roma per un convegno. Qui incontra Umberto Cavina, esponente della segreteria democristiana guidata da Benigno Zaccagnini, al quale riferisce di Gradoli. Il nome emerso a Zappolino inizia a essere sulla bocca di più di un politico Dc e arriva fino a Luigi Zanda, addetto della segreteria del ministro dell’Interno, Francesco Cossiga.
La conseguenza del “messaggio degli spiriti” si concretizza il 6 aprile, quando 22, fra poliziotti e carabinieri, procedono alla perquisizione di case coloniche, casolari abbandonati, cantine, grotte, ripari naturali in località Gradoli, lungo la statale 74, come disposto dal capo della polizia con una nota datata 5 aprile. L’operazione, comunque, non porta a nessun risultato. Di Moro, in quella frazione in provincia di Viterbo non c’è traccia. L’insuccesso dell’operazione condotta dalle forze dell’ordine nella località della Tuscia suggerisce a Eleonora Moro, moglie dello statista democristiano, di domandare «se piuttosto del paese non potrebbe trattarsi di una strada di Roma». (5)
Alla signora Moro, stando almeno alle sue parole, viene risposto che via Gradoli a Roma non c’è, peccato che quella via esista e che sia stata già oggetto, il 18 marzo, a due giorni dalla strage di via Fani, di una perquisizione di quasi uno stabile al civico 96. Quasi, perché all’interno 11, quello dove, si saprà in seguito, è celata una delle basi delle BR, nessuno risponde al campanello suonato dalle forze dell’ordine.
A via Gradoli la polizia tornerà in forze il 18 aprile, più o meno in contemporanea alla fatidica operazione del lago della Duchessa, una delle pagine più ridicole di tutto l’affaire Moro. A chiamare quel giorno le forze dell’ordine sono i vigili del fuoco che da poco hanno scoperto, grazie a una “fortunata” perdita d’acqua, un covo delle Brigate rosse. Si tratta dell’appartamento preso in affitto tre anni prima da Mario Moretti, per un milione e mezzo l’anno, e da Luciana Bozzi, amica di quella Giuliana Conforto che, subito dopo l’uccisione di Moro, ospiterà nella sua casa romana di viale Giulio Cesare Valerio Morucci e Adriana Faranda.
Una scelta piuttosto singolare quella di alloggiare in via Gradoli da parte delle BR, non tanto per la cifra, non proprio modesta in verità, quanto per altri ben più importanti motivi. Innanzitutto, per le caratteristiche tecniche della strada, decisamente non in linea con le linee impartite da Renato Curcio e soci circa i luoghi dove collocare degli alloggi brigatisti. Via Gradoli infatti, è stretta, lunga poco più di 500 metri e con un solo accesso, insomma non l’ideale per un’eventuale e subitanea fuga e, oltretutto, risulta essere un poco “affollata”. In quella piccola e poco nota strada nella periferia nord di Roma, abitano personaggi di ogni tipo. Nello stesso stabile dove abita Mario Moretti insieme con Barbara Balzerani, vivono Lucia Mokbel, ufficialmente studentessa egiziana in realtà informatrice della polizia e Giuseppe Scafa, un evaso ricercato dalle forze dell’ordine.
Ma l’inquilino più “misterioso” di via Gradoli abita al civico 89, proprio di fronte al covo brigatista. Si tratta del sottufficiale Arcangelo Montani, agente del Sismi, il servizio segreto militare, per conto del quale monitora la via in quanto frequentata da esponenti di Potere operaio. Se non bastasse, infine, si aggiunga pure che ben 24 appartamenti della palazzina di via Gradoli 96, come racconta Sergio Flamigni, in quel fatale 1978 sono di proprietà di società immobiliari nei cui organismi societari figurano fiduciari del Sisde, i servizi segreti civili. Insomma una via quantomeno chiacchierata.
La vicenda della seduta spiritica sul caso Moro, sulla cui veridicità molti hanno avanzato dubbi – uno fra tutti Giulio Andreotti – rimane uno degli episodi più controversi di tutta la vicenda legata al rapimento e all’uccisione dello statista democristiano. Nel corso degli anni si è cercato di capire da dove provenisse il nome di Gradoli. Si è parlato di una soffiata proveniente dai settori dell’autonomia bolognese, ma anche, in tempi più recenti, dell’ipotesi che il nome di Gradoli fosse stato fatto da alcuni esponenti della ‘ndrangheta.
Una pagina che a distanza di più di quarant’anni è avvolta ancora dal mistero, una delle tante, se vogliamo, di tutta la vicenda del sequestro Moro, vero e proprio spartiacque della storia della Repubblica Italiana. Rimane certamente la domanda, purtroppo ancora priva di una esauriente risposta, di chi, riprendendo le parole del senatore Flamigni, «abbia “ispirato” lo spirito che ha evocato il nome di “Gradoli”».
(1) Dalla Lettera firmata dai dodici partecipanti alla seduta spiritica del 2 aprile 1978 al Presidente Dante Schietroma, Presidente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, data 3 febbraio 1981.
(2) idem.
(3) Dall’audizione di Romano Prodi alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, rilasciata il 10 giugno 1981.
(4) Sergio Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Edizioni Kaos , 1988.
(5) idem.
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