La vicenda dello Smemorato di Collegno, uno dei fatti di cronaca più celebri nell’Italia del primo dopoguerra, ha fatalmente inizio il 10 marzo 1926. Torino, cimitero israelitico. Tommaso Cibrario, uno dei custodi del camposanto, è intento a fare il suo solito giro fra le tombe, quando scorge un tizio che da subito gli appare sospetto. Aveva “un’aria furtiva” riferirà poi in questura, insomma un atteggiamento ben diverso da quello abituale di un visitatore del cimitero. Cibrario si avvicina al soggetto e nota subito che, sotto il liso pastrano che indossa, nasconde qualcosa.
LO SMEMORATO DI COLLEGNO, CHI ERA COSTUI?
Il tizio, visibilmente innervosito, cerca di scappare ma, dopo una breve colluttazione, in seguito al quale cade in terra un grosso vaso in rame, viene immobilizzato dal custode. Condotto da due guardie municipali in questura, appare fin da subito evidente che non si tratta di un ladruncolo ma di una persona disturbata, in evidente stato confusionale, che palesa disturbi psichici e, addirittura, intenti suicidi. Dopo una sommaria visita medica, si decide per il trasferimento dell’uomo presso il Manicomio provinciale di Collegno, una soluzione pressoché normale a quei tempi. Grazie a una legge, infatti, la n. 36 del 14 febbraio 1904, dal titolo “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”, finire in un ospedale psichiatrico non è difficile. Bastano pochi certificati, il presupposto d’urgenza e le porte di un manicomio fatalmente si aprono, per chiudersi immediatamente dopo.
A Collegno l’uomo, del tutto privo di documenti e incapace di riferire le proprie generalità, viene identificato con un semplice numero, il 44170, cinque cifre che, per circa un anno, saranno il suo nome e cognome. Per undici mesi il silenzio copre quello strambo ladruncolo, affetto da amnesia, fino al 27 febbraio 1927, quando quell’anonimato viene improvvidamente squarciato. Una donna, infatti, la signora Giulia Canella, ha riconosciuto in quell’uomo suo marito Giulio Canella, professore di filosofia, studioso apprezzato e valoroso ufficiale disperso nella Grande Guerra.
Giulia Canella e lo Smemorato di Collegno
LO SMEMORATO DI COLLEGNO O IL CASO BRUNERI-CANELLA
Ma come era arrivata quella distinta signora da Verona al manicomio torinese? Grazie a un piccolo articolo di un popolare giornale. Il 6 febbraio 1927 La Domenica del Corriere (popolare settimanale fondato nel 1899 e distribuito in allegato domenicale del Corriere della Sera e celebre per le illustrazioni in copertina del disegnatore Achille Beltrame), pubblica la foto di profilo un uomo barbuto, con lo sguardo pensieroso, sotto un eloquente Chi lo conosce. A corredo del breve inserto, sono riportate alcune succinte note personali, fra cui l’essere un uomo dell’apparente età di quarantacinque anni, colto e distinto. La decisione di ricorrere alla pubblicità del noto settimanale, pur di dare un nome a quell’uomo, è venuta al direttore del nosocomio. Questi ha ben chiaro che, dietro quell’anonimato, si possa celare il nome di qualche importante personalità.
Come migliaia di italiani anche Giulia Canella, figlia di un ricco proprietario terriero con importanti interessi economici perfino in Brasile, ha letto quel trafiletto e immediatamente “ritrova” suo marito, di cui non ha mai voluto accettare la scomparsa in guerra. L’articolo desta l’inevitabile curiosità degli italiani, anche allora interessati oltremodo a questo tipo di fatti di cronaca. Si sviluppa una gara per dare un nome a quel numero e in taluni casi la fantasia tocca vette inarrivabili, associando quel profilo distinto a volti ben più noti.
Ugo Pavia, cronista della “Stampa”, trova che quella barba appuntita e quegli occhi di un intenso celeste dell’anonimo internato, ricordino incredibilmente l’ultimo Zar di Russia, Nicola II Romanov. Pavia non ha esagerato, si è semplicemente accodato alla moda del momento. Da alcuni anni, infatti, imperversano in tutta Europa resoconti, più o meno dettagliati, che promettono di svelare l’identità di uno dei componenti della famiglia Romanov che, chissà come, si sarebbe salvato dall’eccidio in Casa Ipatiev nel luglio del 1918. Queste fantasie troveranno nel 1929, addirittura una veste letteraria, con la pubblicazione del romanzo Lo Zar non è morto ad opera del Gruppo dei Dieci, un collettivo di scrittori che annovera, fra gli altri, anche il futurista Tommaso Marinetti.
Fantasie a parte, lo sconosciuto viene finalmente identificato dalla sua legittima moglie che, superate alcune iniziali perplessità, una fra tutte la questione della cicatrice sul tallone destro che lo smemorato di Collegno non ha e che dovrebbe invece possedere, dopo aver convinto gli inquirenti, riporta quello che è suo marito a casa.
Sulla vicenda, che per qualche settimana ha appassionato gli italiani, sembra essere calato il sipario. Ma non è così. A riaprire il caso è una lettera, rigorosamente anonima, fatta recapitare al Regio Questore di Torino. L’estensore della missiva fornisce una serie di elementi per cui l’identità dello smemorato di Collegno non sarebbe quella dello stimato professor Canella, bensì quella del tipografo Mario Bruneri, un anarchico senza fissa dimora che da tempo ha abbandonato la famiglia per darsi alla macchia, a causa di alcuni reati per i quali è ricercato.
Il caso è fatalmente riaperto, per la gioia dei giornali e dei famelici lettori; il sipario è nuovamente alzato.
L’8 marzo, quello che dovrebbe essere Giulio Canella, viene arrestato e ricondotto a Torino. Messo a confronto con quelli che dovrebbero essere i “nuovi parenti” il “Fu Giulio Canella” viene riconosciuto prima dalla moglie di Bruneri, Rosa Negro e poi da Felice Bruneri che, nel rivedere il fratello, con le lacrime agli occhi esclama: «Mario, Mario, non ostinarti in questo contegno. Dicci qualche cosa. Non è possibile che tu non senta qualche affetto per la famiglia. Noi ti perdoniamo. Ti cercavamo da anni. Pensa che ti aspetta la nostra vecchia mamma».
Davanti a simili prove, corroborate anche dal “piccante” riconoscimento del Bruneri da parte della sua stessa amante, l’affascinate Milly, il caso sembra nuovamente chiuso. A porre la fatidica pietra tombale sulla vexata quaestio arriva la sentenziale prova principe: quella delle impronte digitali. L’11 marzo 1927 perviene alla questura di Torino un telegramma proveniente dalla Polizia scientifica di Roma. Dall’analisi delle impronte dello smemorato di Collegno emerge che queste, come riporta “La Stampa” il giorno dopo, «combaciano perfettamente con quelle di Mario Bruneri».
Il caso, ora che anche la scienza si è pronunciata, è definitivamente chiuso. Si è trattato di una impostura ma il “presunto smemorato” non ci sta. Dal manicomio di Collegno, dove è stato temporaneamente ricondotto, si oppone con tutte le sue forze a quella che sembra una verità inconfutabile. Lui non è Mario Bruneri ma Giulio Canella e lo dimostrerà. La famiglia Canella, con in testa Giulia, continua, nonostante l’evidenza, a vedere in quell’uomo il professor Giulio. Perché lo fa? Difficile dirlo, forse per amore, forse per interesse, sta di fatto che l’affaire entra nelle aule di giustizia. Solo una sentenza di un tribunale potrà dire l’ultima, definitiva parola sul caso dello smemorato di Collegno.
Gli italiani, nel frattempo, tornano ad entusiasmarsi nonostante il tentativo, inutile, da parte del regime fascista di mettere la sordina a tutta questa vicenda, attraverso il bavaglio previsto per legge sulla cronaca nera e sugli episodi scandalistici.
Prima che si muova la macchina giudiziaria, continuano le sorprese. L’8 aprile, a un mese dunque dall’arresto, Padre Agostino Gemelli, in un drammatico “faccia a faccia” in una stanzetta del manicomio torinese con lo Smemorato, ammette di non riconoscere in quell’uomo il professor Canella, con il quale, il futuro fondatore dell’Università cattolica, aveva anni addietro collaborato.
Cinque mesi più tardi, l’8 settembre 1927, il professor Alfredo Coppola, docente presso la facoltà di Psichiatria dell’università di Torino, deposita una corposa perizia di oltre seicento pagine. La stessa è il frutto di una complessa, lunga e articolata indagine che l‘illustre clinico ha condotto su incarico del tribunale di Torino per valutare lo stato mentale dello smemorato di Collegno, al fine di capire se lo stesso possa essere dimesso dal manicomio. Dopo aver incontrato per dieci volte il “famoso paziente”, la prima di queste datata 8 giugno, Coppola non ha dubbi nel sostenere che il soggetto non è affetto da «nessuna vera malattia mentale» essendo, al contrario, dotato di un’intelligenza «sveglia, riflessiva, calcolatrice e versatile» attraverso la quale è capace di elaborare una «cosciente e preordinata simulazione». La scienza, insomma, continua a sostenere che non si tratti di Giulio Canella.
IL PROCESSO ALLO SMEMORATO DI COLLEGNO
Il 22 ottobre 1928, non proprio una data qualunque nell’Italia fascista, si apre l’iter processuale che dovrà definitivamente dirimere la questione su chi sia realmente lo Smemorato. A difendere l’ipotesi che sia il professor Giulio Canella ci sono due illustri celebrità: il principe del foro Francesco Carnelutti, professore a Padova e redattore del Codice civile in vigore dal 1926, e il gerarca fascista Roberto Farinacci. Sono udienze animate, in cui le parti si contrastano a vicenda pur di far prevalere un’ipotesi sull’altra. Celebre, poco prima della sentenza definitiva, è l’arringa di Carnelutti che equipara il possibile non riconoscimento da parte della corte del suo assistito nella persona del professor Canella, alla «pena più crudele che mai fantasia sadica abbia potuto immaginare».
La parola fine, almeno dal punto di vista processuale sull’annosa vicenda, viene pronunciata il giorno di Natale del 1931. Nel respingere l’ennesimo ricorso della famiglia Canella, la Corte di Cassazione di Firenze conferma le precedenti sentenze che avevano stabilito che l’identità dello “Smemorato” fosse quella di Mario Bruneri. Sulla base della sentenza della Suprema Corte, Bruneri rimane nel carcere di Pallanza per espiare le pene previste per i reati in precedenza commessi come Bruneri. Il pronunciamento della Cassazione, tuttavia, non spegne del tutto le velleità della famiglia Canella che in più di un’occasione propone ricorso alla sentenza, l’ultima volta nel 1964, ma sempre invano.
Scontata la pena lo smemorato di Collegno lascia l’Italia per il Brasile dove vivrà fino alla morte, sopraggiunta nel dicembre del 1941, more uxorio con Giulia Canella, ovvero con quella che ritiene, convintamente o per interesse, sempre sua moglie, nonostante la giustizia italiana abbia detto il contrario.
Al netto delle sentenze e dell’incredibile impatto mediatico che la vicenda determinò e che andò ben oltre gli anni Trenta, è indubitabile che il caso dello Smemorato di Collegno, come sottolineato dalla storica Lisa Roscioni in un suo bellissimo saggio sull’argomento (Lo smemorato di Collegno. Storia di un’identità contesa, Einaudi, Torino, 2007) rimanga un tipico esempio di una storia dal sapore tutto italiano.
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