L’uomo fin dagli albori ha avvertito il bisogno, se vogliamo anche il desiderio, di misurare il tempo. Una necessità atavica, spiegabile attraverso ragioni di ordine pratico ma anche psicologico. Controllare il tempo, o almeno credere di farlo, significava razionalizzare la vita degli uomini, il loro lavoro ma anche i più intimi spazi. Il Tempus, che alcune civiltà sacralizzavano al punto da elevarlo agli altari, fu un fattore dominante del vivere umano. Tutte le sue frazioni, dalle più piccole a quelle più ampie, dalle ore agli anni insomma, furono afferrate dagli uomini e, in qualche modo, definitivamente possedute. Una delle forme più antiche e al tempo stesso più affascinanti di questo “umano controllo” del tempo fu, senza dubbio, l’invenzione del calendario.

CALENDARIO ROMANO: DAL ROMULEO AL GIULIANO

Dal latino calendarium (per gli antichi Romani la tabella contenente le calendae, cioè i primi giorni di ogni mese), il calendario è una sorta di figura totemica, presente in decine di popolazioni sparse nel mondo con straordinarie e folkloristiche variazioni sul tema, si pensi al calendario cinese, a quello ebraico o anche a quello etiope.

Il calendario romano non è stato certamente da meno. Secondo la tradizione fu il mitico fondatore di Roma, Romolo per l’appunto, a crearlo per primo. L’anno romuleo constava di dieci mesi, un frazionamento direttamente mutuato dai cicli lunari, non a caso la radice indoeuropea della parola mese significa propriamente luna; questo anno iniziava il primo marzo per concludersi a dicembre, il decimo mese dell’anno, così come settembre era il settimo, ottobre l’ottavo e novembre, infine, il nono.

Fu con il re Numa Pompilio che avvenne la prima e significativa modifica del calendario romano. Il successore di Romolo, originario di Cures Sabini, introdusse due nuovi mesi: Ianuarius (dal nome del dio Giano) e Februarius (derivato dal dio etrusco Februus). Una riforma importante che, tuttavia, non risolse il problema legato alla durata dei singoli mesi. Nel nuovo calendario, infatti, così come in quello romuleo, il computo dei mesi, come attestato dalle antiche fonti, Plutarco in testa, risultava decisamente caotico, al punto che taluni mesi erano composti di 20 giorni, altri, invece, di 40.

A fare ordine in questo vero e proprio caos annuale ci pensò Giulio Cesare, il terzo fondamentale nome nella storia del nostro calendario. Per un uomo che faceva del pragmatismo un imperativo categorico, accettare il perdurare di quella anomala e confusionaria situazione era assolutamente inaccettabile. Per questo nel 46 a.C., nella sua veste di Pontifex maximus, Giulio Cesare fece approvare una generale revisione del calendario romano, apportando significative e durature modifiche. Fra queste l’introduzione dell’anno bisestile, l’aggiunta al calendario di dieci giorni, lo spostamento del Capodanno dal 1° marzo al 1° gennaio e, infine, il cambiamento del mese chiamato Quintilis, originariamente il quinto mese dell’anno, in Julius in suo onore, l’odierno luglio, un vezzo, quello di dedicarsi un mese dell’anno, da cui non fu immune neppure Augusto. Il primo imperatore romano, infatti, mutò il mese di Sexstilis, nel calendario romuleo il sesto mese dell’anno, in Augustus, l’odierno agosto.

L’anno giuliano, basato sullo studio dell’astronomo alessandrino Sosigene, a cui Giulio Cesare si rivolse, stando almeno a quanto racconta Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, entrò in vigore nel 45 a.C., primo anno bisestile ed era strutturato su dodici mesi della durata di 30 o 31 giorni, eccezion fatta per febbraio che constava di 28 giorni che, in occasione degli anni bisestili, divenivano 29.

La riforma giuliana affrontò anche il problema dello sfasamento fra l’anno civile e quello solare maturata nel corso dei secoli ed evincibile dall’arretramento dell’equinozio di primavera. Per questo furono introdotti ben 85 giorni all’anno 46 a.C. che, quindi, fu anormalmente composto di 445 giorni. Per questo motivo quell’ultimo anno del calendario romuleo venne ribattezzato annus confusionis.

Importanti modifiche al calendario giuliano, che rimase in vigore fino al 1582, furono apportate dal Cristianesimo che, a partire dal IV secolo, avviò un lento ma inarrestabile processo volto a “cristianizzare” la società romana che trovò nella datazione del Natale la tappa oggettivamente più significativa, allorché venne scelto il giorno del 25 dicembre per celebrare la nascita di Cristo, periodo in cui nella Roma imperiale si celebravano da diverso tempo due importanti e sentite ricorrenze, entrambe di derivazione orientale, come la nascita di Mitra e il Dies natalis Solis Invicti, la festa del solstizio di inverno, la vittoria del sole sulle tenebre della notte.

Questione natalizia a parte, l’apporto più significativo del cristianesimo al calendario giuliano, oltre alla scelta della domenica come giorno festivo, decretata dal concilio di Nicea nel 325 (in quell’occasione si decise anche di fissare la Pasqua con la prima domenica dopo il plenilunio successivo all’equinozio di primavera), fu quella di risolvere una volta per tutte il disallineamento esistente fra l’anno legale e quello solare. Il calendario giuliano, pur avendo migliorato e notevolmente quello romuleo, non era certo un sistema perfetto. La sua durata, infatti, risultava di 365 giorni e 6 ore, 11 minuti e 13 secondi in più a quello effettivo, con la conseguenza che ogni 128 anni la sfasatura fra l’anno civile e quello solare risultava essere addirittura di un giorno. Tale differenza determinò nel corso dei secoli l’arretramento dei solstizi e degli equinozi rispetto alle date naturali. Nel periodo compreso fra il 1325 e il 1350, ad esempio, il solstizio invernale cadde il 13 dicembre, anziché nell’abituale data prevista a cavallo fra il 21 e il 22 del medesimo mese. Per venticinque anni, quindi, l’inizio dell’inverno coincise con la celebrazione cristiana del martirio di santa Lucia, la martire siracusana morta il 13 dicembre del 304 d.C. nel corso delle persecuzioni patite sotto l’imperatore Diocleziano, al punto che la tradizione popolare eternò questa curiosa coincidenza con un celebre proverbio: Santa Lucia, la notte più lunga che ci sia, un detto ancora oggi largamente citato, anche se oggettivamente privo di senso, visto che la notte più lunga dell’anno è tornata a cadere correttamente in coincidenza del 21 dicembre.

IL CALENDARIO GREGORIANO

Calendario Gregoriano, istituito nel 1582 da Gregorio XIII

Il Calendario Gregoriano, istituito nel 1582 da Gregorio XIII

La questione della sfasatura fra i due anni, ben conosciuta già a partire dal medioevo, fu del tutto risolta nel 1582, dopo che era stata affrontata e lungamente discussa nel corso di una specifica sessione del Concilio di Trento, senza, tuttavia, che fosse adottata una soluzione. Il 24 febbraio di quell’anno, papa Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni (eletto in un rapidissimo conclave il 13 maggio 1572, che vide il favoritissimo cardinale Alessandro Farnese rinunciare dopo il “caldo invito” di Filippo II di Spagna a farsi da parte, con buona pace del decreto papale emanato da Pio IV che vietava tassativamente intromissioni esterne nell’elezione del pontefice), da Villa Mondragone, nella vicina Frascati, emanò la celebre Iter gravissimas che risolveva l’annoso problema del disallineamento.

La bolla pontificia, infatti, stabilì, sulla base dello studio condotto dal matematico, astronomo e medico calabrese Luigi Giglio, (nel 2012 la regione Calabria ha istituito, per ricordare il suo celebre concittadino, noto anche nella versione latina di Aloysius Lilio, nella data del 21 marzo, equinozio di primavera, la Giornata del Calendario), una singolare soluzione. “Affinché dunque l’equinozio di primavera, che dai padri del concilio di Nicea fu stabilito al 21 marzo, venga riportato a quella data, comandiamo e ordiniamo che dal mese di ottobre dell’anno 1582 si tolgano dieci giorni, dal 5 al 14 ottobre, e che il giorno dopo la festa di S. Francesco, che si suole celebrare il 4, si chiami 15 (…). E affinché da questa sottrazione di dieci giorni non venga danno ad alcuno per quanto riguarda pagamenti mensili o annuali, sarà compito dei giudici, nelle eventuali controversie, tenere conto di questa sottrazione aggiungendo altri dieci giorni alla fine di ogni prestazione”.

Questa drastica soluzione, probabilmente, absitiniuria verbis, l’opera più positiva compiuta da Gregorio XIII (lo stesso che aveva celebrato nella basilica romana di San Marco con un solenne Te Deum la terribile notte di San Bartolomeo e dato incarico al Vasari di affrescare la Sala Regia in Vaticano con un’opera che immortalasse per sempre quella tragedia avvenuta nella notte fra il 23 e il 24 agosto 1572), oltre che eliminare ipso facto dieci giorni in quel 1582, prevedeva la rimodulazione del sistema degli anni bisestili introdotti dalla riforma giuliana.

Con l’introduzione dell’anno gregoriano furono dichiarati bisestili solo gli anni secolari divisibili per 400 e, fra quelli non secolari, solo quelli divisibili per 4. L’innovazione voluta dal bolognese Boncopagni non trovò, tuttavia, tutti concordi. Obbedirono immediatamente al diktat papale solo i sovrani italiani e quelli di Spagna e Portogallo. La cattolicissima Baviera si adeguò solo due mesi dopo mentre la Polonia soltanto nel 1586 e l’Ungheria nel 1587. La Prussia, invece, accettò il calendario gregoriano nel 1610, mentre i paesi protestanti, ivi compresa l’antipapista e tradizionalista Inghilterra, si adeguarono solo nel corso del 18° secolo.

La Svezia, Finlandia inclusa che era territorio svedese, adottò il calendario gregoriano nel 1700 ma senza “salto di dieci giorni.” La sfasatura, i giorni nel frattempo erano divenuti undici, fu recuperata in un altro modo. Si scelse, infatti, di eliminare tutti gli anni bisestili dal 1700 al 1740.

In Europa l’unico stato che rimase immune dalla riforma gregoriana fu la Russia che mantenne fede al calendario giuliano. Nel 1917, però, i bolscevichi, saliti al potere dopo la rivoluzione di Ottobre, emanarono un decreto con il quale veniva adottato il calendario gregoriano. Rimaneva, tuttavia, l’annosa questione della discrepanza fra i due calendari che consisteva, oramai, in tredici giorni. Il problema fu risolto sulla falsariga di quanto aveva secoli addietro aveva fatto papa Gregorio XIII. Il nuovo governo stabilì che dopo il 31 dicembre 1917 non sarebbe seguito il 1° gennaio 1918, come naturale, bensì il 14 gennaio. Tale decisione, tuttavia, non fu accettata dalla chiesa ortodossa russa che continuò a utilizzare il calendario giuliano, con buona pace di papa Gregorio e dello stesso Lenin. A partire, però, dal 1923, nella neonata URSS venne adottato il cosiddetto anno sovietico che, rispetto a quello gregoriano, prevedeva una diversa formulazione degli anni bisestili, una rivisitazione che, in mancanza di modifiche, determinerà una discordanza con l’anno gregoriano a partire dal 2800, insomma una data abbastanza lontana, un tempo sufficiente per effettuare, eventualmente, una nuova modifica.

 

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