L’automobile fece la sua comparsa in Italia piuttosto timidamente sul finire dell’Ottocento, confondendosi fra biciclette, carri trainati da animali e treni sbuffanti. All’inizio fu guardata dai più con sospetto, sembrando un giocattolo, seppur costoso, e non certo un oggetto che avrebbe e per sempre cambiato le nostre abitudini. Questo è il racconto della storia dell’automobile in Italia, un’invenzione che, dopo le iniziali difficoltà, si impose diventando non solo indispensabile ma anche un tratto distintivo del nostro essere italiani.

STORIA DELL’AUTOMOBILE IN ITALIA

Il 2 gennaio del 1893 a Piovene di Schio, in provincia di Vicenza, l’industriale Gaetano Rossi, uno dei titolari delle “Industrie Lanerossi” e grande appassionato di automobilismo, prende in consegna la prima autovettura circolante in Italia, una Peugeot Type 3, meglio conosciuta come 2 HP, un modello decisamente rivoluzionario per l’epoca. Quella storica data dà ufficialmente inizio alla motorizzazione privata in Italia, un fenomeno che si sviluppa in notevole ritardo rispetto ad altri paesi europei, un gap che rimane tale per diversi anni e che si colma solamente un cinquantennio più tardi.

L’Italia, infatti, sul finire dell’Ottocento è ancora un Paese essenzialmente agricolo, popolato da 26 milioni di abitanti, prevalentemente analfabeti (oltre l’80%, infatti, non ha nessun grado di istruzione) e quasi esclusivamente impiegato nell’agricoltura.

Un Paese povero, con elevati tassi di mortalità, con un quadro igienico-sanitario ancora precario e con forti differenze sociali ed economiche fra un Nord più avanzato e un Sud decisamente più arretrato. In questo quadro di sostanziale difficoltà si inseriscono gli sforzi della classe dirigente e di quella imprenditoriale per modernizzare una nazione che soffre molto le disparità del periodo preunitario.

Uno dei settori in cui l’arretratezza del neo-stato italiano è maggiormente evidente è proprio quello dei trasporti. All’indomani del 1860, la realtà ereditata è decisamente sconfortante. Dei 90.000 km complessivi di strade presenti sul territorio italiano, solo 12.269 sono effettivamente praticabili. Ma l’aspetto più preoccupante è che la stragrande maggioranza, più di due terzi, si trova al Nord, lascito delle precedenti amministrazioni, specie di quella austriaca.

Per comprendere lo stato di profonda arretratezza di molte regioni meridionali, basti pensare che nel 1860, in Calabria, i comuni comunque privi di strade di collegamento, dunque di fatto isolati, sono 371 su 412, un quadro pressoché identico in altre realtà del Sud.

Automobile in Italia: la Fiat 500

La Fiat 500 B Giardiniera Belvedere del 1948

Ma a rendere più penoso il quadro è anche lo stato della stessa rete viaria. Parlare di strade nel periodo post unitario è francamente eufemistico. Queste sono perlopiù dei tratturi, delle mulattiere, tratti di terra compattata alla bisogna che, alle prime piogge, si trasformano in vere e proprie piscine che, una volta asciugatesi, lasciano in bella vista polvere e pericolose buche.

Questa, almeno per alcuni anni dopo l’Unità d’Italia, è la situazione, anche perché la nascente amministrazione italiana decide di puntare essenzialmente sul treno.

Per sostenere lo sviluppo ferroviario, in luogo di un possibile e alternativo settore automobilistico, il parlamento italiano fa propria una precedente legge, appartenuta al Regno di Sardegna del 1855, che vietava sul suolo italiano la costruzione di una strada fra due località se queste erano già collegate da una rete ferroviaria. Una legge, adottata ufficialmente nel 1865 e rimasta in vigore fino al 1904, che oggettivamente rappresenterà un freno, e non poco, allo sviluppo della motorizzazione privata, al punto che fino al 1904 i chilometri complessivi di strade realizzati saranno solo 4.400, pochi per un paese che ambisce a raggiungere i livelli di altre nazioni europee.

In un simile contesto è evidente che l’affermazione dell’automobile in Italia, un oggetto che nel nostro paese, almeno fino alla fine dell’800, è considerato non un mezzo di trasporto, ma un costoso e complesso giocattolo per il divertimento delle persone più abbienti, non possa che risentirne.

Sul finire del XIX secolo, gli esemplari di vetture circolanti sul suolo nazionale sono solamente 111, ma, nonostante tutto, alcuni lungimiranti industriali comprendono, molto più di altri loro colleghi, come quel pittoresco passatempo possa trasformarsi in una straordinaria fonte di arricchimento, un’occasione da non perdere.

È così che si assiste sia alla nascita ex novo di piccole fabbriche automobilistiche, ma anche alla riconversione di aziende specializzate perlopiù nella produzione di biciclette. In tal senso, una data storica nella storia dell’automobile in Italia è quella del 1894, allorché la Società Motori Bernardi di Padova, costruisce i primi esemplari di triciclo e quadriciclo a motore.

Nel giro di pochi anni la nascente industria automobilistica italiana, fra fabbricanti di chassis e vere e proprie auto, può enumerare oltre 120 soggetti interessati, fra questi spiccano marchi quali Fiat, Lancia, Aquila, Alfa, Ardita, Isotta Fraschini, Itala e Bianchi, nomi che diventeranno, nei decenni successivi, punti di riferimento assoluti nell’alveo dell’industria automobilistica, un settore che, già nei primi anni del Novecento, viene ritenuto capace di lasciare “solchi poderosi in questo momento storico del nuovo rinascimento italiano.[1]

L’AUTOMOBILE DIVENTA “FEMMINA”

Chi non vorrà avere questa carrozza meccanica più morbida, più bella, più gagliarda, più docile di tutte le vetture ippomobili; chi non vorrà avere questo meraviglioso cavallo commisto di ferro e fiamma, figlio dell’uomo, questo cavallo magico che non si stanca mai, che valica monti e valli, che corre come gli irraggiungibili corrieri della leggenda, che nulla consuma quando non lavora e che tuttavia è sempre pronto al galoppo?

Così, nel numero di luglio del 1905, un redattore della rivista “L’Automobile. Rivista settimanale illustrata” esalta l’automobile, un ingegnoso cavallo che non avrebbe mai stancato chi lo avesse guidato.

Quel curioso oggetto, che pochi anni prima suscitava perplessità nella maggioranza degli italiani, ora, invece, scatena invidia e imponderabile desiderio di possesso.

Certo i costi sono ancora proibitivi per la maggioranza delle persone, ma è indubbio il fascino esercitato da quell’oggetto, specie per la velocità con cui si impone sulle strade, la qualità più apprezzata di quel complesso, seducente giocattolo.

Fra gli appassionati dell’automobile ci sono anche molti scrittori, specie i Futuristi, letterariamente rapiti dalla loro velocità. Per loro l’automobile è un emblema di modernità, un perfetto manifesto per il loro rivoluzionario credo.

Nel 1912 il futurista Luciano Folgore, nomen omen, dedica all’auto la poesia Il Canto dei Motori. Due anni dopo è la volta del più noto Tommaso Filippo Marinetti che celebra l’auto in un famoso poemetto dall’onomatopeico titolo di Zang Tumb Tumb.

Uno dei primissimi estimatori dell’automobile è Gabriele D’Annunzio. Il Vate intravede fin da subito la portata rivoluzionaria di quell’oggetto, il suo essere uno status symbol. Non solo si inscrive nella nutrita schiera dei fan automobilistici ma dirime, e per sempre, l’atavica questione sul genere grammaticale dell’automobile.

E sì, perché ai primordi della motorizzazione i linguisti non avevano chiarito quale dovesse essere, lasciando irrisolto il dilemma se declinare il termine automobile al maschile o al femminile.

Per alcuni l’automobile è assolutamente di genere maschile, per altri, invece, sicuramente femminile. La politica propende per il genere maschile e infatti nel regio decreto del 28 gennaio 1901, una sorta di codice della strada ante litteram, l’automobile è declinata al maschile.

Nella generale confusione grammaticale arriva tuonante la voce di D’Annunzio che, nell’Italia dei primi del Novecento, è un’autorità indiscussa e non solo in campo letterario.

Benito Mussolini e Gabriele D'Annunzio

Benito Mussolini e Gabriele D’Annunzio

Sarà una sua lettera a dirimere la vexata questio. Il 18 febbraio 1920 D’Annunzio, dal suo Vittoriale, scrive una breve missiva al senatore Agnelli per ringraziarlo per il dono di un’ambitissima Fiat 509. Nel biglietto il poeta abruzzese pone l’ultima e definitiva parola sulla questione di genere.

La Sua macchina mi sembra risolvere la questione del sesso già dibattuta. L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice: ha inoltre una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza.

Non tutti gli scrittori, tuttavia, sono entusiastici estimatori dell’automobile. Fra coloro che intravedono in quell’oggetto qualcosa di diabolico, si inserisce un altro mostro sacro della nostra letteratura: Luigi Pirandello. Lo scrittore siciliano così si esprime a proposito dell’automobile:

La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle.[2]

L’AUTOMOBILE SIMBOLO DEL SECOLO BREVE

Ma le perplessità di Pirandello rimangono sensazioni letterarie, l’automobile, infatti, diventa un mito, uno dei beni più ambiti dagli italiani e i numeri lo confermano chiaramente.

Quanto vaticinato da alcuni industriali sul finire dell’800, circa lo sviluppo del settore automobilistico, trova conforto nei primi anni del nuovo secolo. La macchina da oggetto curioso e ai più sconosciuto, comincia a divenire un bene, se non proprio di massa, quantomeno diffuso.

Nel 1901, anno record per le vendite di nuovi veicoli in Italia (ben 600, di cui 50 in uscita dal nuovo stabilimento Fiat in Corso Dante a Torino), risultano registrati nel nostro paese ben 933 veicoli, la cui distribuzione geografica, però, non è ancora omogenea, riflettendo l’irrisolto divario fra Nord e Sud del paese.

La regione italiana con il maggior numero di vetture è il Piemonte con 253 veicoli, davanti alla Lombardia con 210 esemplari. Distaccate, invece, risultano il Veneto, con 93 automobili, l’Emilia con 72 veicoli e, infine, per quanto concerne il Settentrione, la Liguria con 45 veicoli (il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia saranno annesse solo dopo la prima guerra mondiale). Al Centro la situazione è meno entusiasmante. Si passa, infatti, dalle 85 automobili nel Lazio, perlopiù presenti nella capitale, alle 72 in Toscana, per finire alle 4 in Umbria e alle sole 2 nelle Marche.

Più o meno in linea con i numeri delle regioni centrali è il quadro d’insieme del Meridione. Dalle 46 automobili registrate in Sicilia, alle 34 in Campania; dalle 12 in Puglia alle 4 negli Abruzzi e Molise (all’epoca un’unica entità territoriale), passando per 3 veicoli in Calabria e, infine, 2 in Sardegna, mentre, come per la Val d’Aosta, nessun veicolo si registra ancora in Basilicata.

Nel 1905 il numero di autovetture aumenta ancora, tanto che le auto circolanti sul territorio nazionale è pari alle 2.119 unità (a fronte di 10 autocarri e 45 autobus), una cifra che triplica cinque anni più tardi, quando gli esemplari di carrozze a motore raggiungono la considerevole cifra di 7.061 unità nel 1910 e di 22.710 nel 1915.

Storia dell'automobile italiana

La Fiat 500 C Furgoncino

Tuttavia, per guidare un’automobile non basta solo acquistarla. Se, infatti, la si vuole guidare, bisogna, a partire dal 1901, in virtù dell’articolo 12 del regio decreto 416, essere necessariamente titolari di una specifica licenza, l’antesignana della futura patente. Il primo italiano a conseguire l’agognato permesso è Bartolomeo Tonietto, il celebre chauffeur di casa Savoia.

Devono trascorrere, invece, alcuni anni per vedere la prima donna patentata. Il 5 giugno 1913, la Prefettura di Palermo rilascia a Francesca Mancusio, a seguito del superamento dell’esame presso il locale “Circolo Ferroviario d’Ispezione” l’ambita licenza.

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la successiva crisi economica del 1929 limitano e non poco l’industria automobilistica italiana che, però, sarà anche una delle prime a rialzare la testa, nonostante il crollo dei mercati.

In Italia le principali fabbriche automobilistiche non solo abbassano i prezzi dei loro prodotti ma lanciano sul mercato modelli che vanno incontro alle esigenze di molti italiani, insomma, in sintesi, un’utilitaria. Tra i sostenitori di questa necessità c’è Benito Mussolini, che ancor prima della Marcia su Roma crede nella motorizzazione di massa.

Il capo del fascismo nel 1930 chiede espressamente al senatore Giovanni Agnelli, il dominus della Fiat, di produrre un’automobile che non costi più di 5000 lire. Sulle prime la richiesta spaventa i vertici della principale azienda automobilistica italiana ma è, al tempo stesso, una sfida che a Torino vogliono assolutamente vincere.

LA MITICA TOPOLINO, IL SOGNO POSSIBILE DI MOLTI ITALIANI

A raccogliere quella che a molti sembra un’impresa improba è l’ingegnere Antonio Fessia che dal 1925 ricopre la carica di direttore tecnico della Fiat. Nel 1934 Fessia incarica l’ingegnere Dante Giacosa di dare corpo a quella sfida, di progettare un telaio per una vettura piccola, economica, in grado di essere venduta a 5.000 lire, secondo le direttive ricevute dal management.

Per molti la scelta di Fessia è pura follia, non tanto per la giovane età dell’ingegnere, che ha solo 29 anni, ma principalmente perché Giacosa non ha mai progettato un’auto.

Ma quello che oggettivamente può sembrare un limite si trasforma in uno straordinario punto di forza.

Giacosa, infatti, progetta un telaio decisamente innovativo, scevro da condizionamenti tradizionali, qualcosa di nuovo, di rivoluzionario. A due anni dal conferimento dell’incarico il progetto di Giacosa è una splendida realtà e prende il nome di Fiat 500, un piccolo gioiello e non solo esteticamente.

 Fiat 500 Topolino

Fiat 500 Topolino del 1936

La Fiat 500 piace per la linea, per le dimensioni ridotte, l’interasse è di solo 2 metri, per la maneggevolezza, per i costi non esorbitanti, anche se ben lontani dalle pattuite 5000 lire (il prezzo di vendita sarà di 8900 lire, un costo per molti ancora impossibile da sostenere) ma soprattutto per le avveniristiche soluzioni costruttive adottate, fra tutte, senza dubbio, la scelta della trazione anteriore che agli occhi dei “vecchi” ingegneri Fiat sembra una pazzia.

Ma Giacosa non demorde e la nuova vettura non solo esce con la trazione anteriore ma anche con il motore posizionato anteriormente a sbalzo e pneumatici piccolissimi, 15’’ di diametro, un azzardo per molti, una necessità per Giacosa.

La Fiat 500 viene presentata ufficialmente il 15 giugno 1936 ed è subito un successo. Gli italiani sono entusiasti di quella piccola utilitaria che ribattezzano, quasi subito, “Topolino”, dal nome del fortunato personaggio dei fumetti creato da Walt Disney qualche anno prima.

Nel 1957 la Topolino, dopo ventuno anni di vita, migliaia di pezzi venduti e diversi allestimenti, esce definitivamente di produzione, lasciando la scena alla Nuova Fiat 500, un altro gioiello di casa Fiat, un’altra entusiasmante pagina della storia automobilistica italiana.

[1] In “L’Automobile”, 20 gennaio 1905.

[2] L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Bur, Milano 2015, p. 25.

 

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