Non conoscevo nulla di Samia e della sua storia. Ignoravo chi fosse e cosa avesse fatto, poi, però, una mia cara amica mi ha regalato un libro bellissimo, parlandomi di lei e la storia di Samia è divenuta una pagina indelebile della mia vita.

Il nome di Samia diviene noto nell’estate del 2008, quando lo starter sta per dare il via alla batteria dei 200 metri femminili alle Olimpiadi di Pechino. Samia, ferma sui blocchi di partenza, sente il suo cuore pulsare veloce, guarda le sue rivali e si sente del tutto inadeguata. Le sue gambe, «in confronto a quelle delle altre, sembrano due rametti secchi» senza muscoli, dritte come due bastoncini prossimi a spezzarsi. In mezzo a quelle atlete, che sembrano delle culturiste, lei è la più bassa, la più magra, la più piccola su quella fettuccia rossa marginata di bianco. Quella ragazzina è arrivata alle Olimpiadi denutrita, senza un vero allenatore, senza una vera e propria preparazione, ma animata da un’unica passione: la corsa.

CHI ERA SAMIA YOUSUF OMAR?

A Pechino, alle Olimpiadi, Samia Yusuf Omar pensa la prima volta sette anni prima. Poco prima di vincere la sua prima gara, trionfando anche su ragazzi molto più potenti di lei, confida al papà: “Ho dieci anni e vedrai che quando ne avrò diciassette correrò alle Olimpiadi. Ecco dove voglio arrivare”. Suo aabe (“padre” in somalo) crede alle parole di una ragazzina piena di sogni e, dopo averle calato la fascia di spugna sulla fronte, prima che inizi la gara le fa un suo personalissimo augurio: “Un giorno guiderai la liberazione delle donne somale dalla schiavitù in cui gli uomini le hanno poste. Sarai la loro guida, piccola guerriera mia”.

Sono trascorsi sette duri anni, e Samia a Pechino come aveva promesso ci è arrivata. Ma ora in quello stadio è tutto terribilmente diverso. Il confronto con le altre è impietoso. Non indossa abiti da gara sgargianti e bellissimi, ha una maglietta bianca, dei fuseaux neri “che arrivano sotto il ginocchio”, una fascia bianca in testa, il suo portafortuna che il papà “le aveva regalato dieci anni prima” e che aveva sempre portato con sé “a ogni corsa, fino a quel giorno”.

Samia guarda ancora le sue avversarie, poi il pubblico che gremisce lo stadio, e le sembra impossibile essere lì. Prima che tutto inizi, prima che i secondi scorrano veloci misurando la sua forza, la sua resistenza, pensa a suo aabe che l’ha sempre incitata, ricordandole di non aver mai paura, perché se no le cose che si desiderano non si avvereranno mai.

Vincere quella gara è impossibile e infatti non succede, perché non sempre i sogni si avverano, ma nonostante tutto Samia è la vincitrice morale, pur essendo arrivata ultima. A primeggiare è la giamaicana Veronica Campbell ma quella ragazza, che sembra più piccola dei suoi diciassette anni, entusiasma il pubblico intero.

STORIA DI SAMIA

L’incredibile storia di Samia Yusuf Omar inizia a Mogadiscio, Somalia. Fin da piccola Samia va di corsa. Quella bambina gracile, che farà emozionare milioni di persone in tutto il mondo, nel battito di pochi infiniti secondi, nasce nell’ultimo decennio del “secolo breve”, in una terra arsa dal sole e lambita da un mare bellissimo che per Samia e altri bambini come lei è soltanto un sogno. Le spiagge in un paese dilaniato dalla guerra sono luoghi pericolosi, dove le pallottole sparate dai fucili dei miliziani viaggiano dritte, seminando morte e terrore, uccidendo sogni e speranze.

Ma Samia non ha paura e appena può va a correre con il suo amico di sempre Alì, incurante della guerra, dei rischi, dei divieti imposti dai seguaci di Al-Shabaab, un movimento integralista islamico di impronta jihadista. Corre veloce sulle strade sterrate di una città distrutta dalla guerra e supera le assurdità imposte dell’odio razziale, che dovrebbero tenerla lontana da Alì, perché lui è un darod e lei, invece, un’abgal, “dalla pelle più chiara e i lineamenti che si avvicinano a quelli degli arabi da cui i fanatici si illudono di discendere”.

La corsa è libertà, è vita, è speranza e correndo Samia conosce la sabbia calda e sottile e vede il mare, sognando di tuffarsi dentro.

La gara è finita da poco e nello spogliatoio dello stadio di Pechino, sotto una doccia ghiacciata che leva via il sudore ma non l’emozione, Samia ripensa alla gara appena disputata, al pubblico che si è alzato in piedi “e ha cominciato a battere le mani” incitandola, gridando il suo nome. Rivede la sua corsa oltre ogni sforzo, le altre atlete che tagliano il traguardo quando lei deve ancora girare la curva. E’ arrivata ultima, staccatissima dalle altre, ma non prova vergogna ma solo “un forte senso di orgoglio” per il suo paese.

E’ già incredibile che sia arrivata alle Olimpiadi, il sogno di ogni atleta. Samia nei mesi precedenti si è allenata di notte nello stadio di Mogadiscio. Nel buio di quello che è diventato un parcheggio per i mezzi di guerra, quella esile ragazzina pensa soltanto a correre. Sul quella pista strappata all’assurdità della guerra, Samia inanella giri, suda, sfida il tempo e gli assurdi divieti dei seminatori di odio. Non veste il burka, lei vuole sentire il vento nei capelli e l’aria che accarezza il viso e non le importa degli obblighi a cui, solo perché donna, dovrebbe sottostare.

Ha dalla sua la passione e suo papà che la incoraggia sempre a non cedere, a non accantonare i sogni solo perché qualcuno li calpesta.

Finita la doccia, quando tutte le fatiche sembrano distanti più dei chilometri che dividono Pechino da Mogadiscio, la Cina dalla Somalia, la pace dalla guerra, l’amore dall’odio, Samia giura a se stessa che andrà anche alle Olimpiadi di Londra ma questa volta con la speranza di vincere, non solo con il sogno di partecipare.

Ha quattro anni di tempo per fare i muscoli, per abbassare i tempi e avvicinarli a quelli di quelle atlete che ha visto sfrecciare come frecce. Bisognerà sudare, rischiare, superare il vento, ma tutto è possibile se non si ha paura, anche, soprattutto sognare. Samia, senza volerlo, diventa dopo Pechino un simbolo di libertà per molte donne, specie per quelle mussulmane. Samia corre senza veli, mostra il suo viso da adolescente che vuole guardare in faccia la vita, i traguardi, la speranza.

Lo sport scrive alle Olimpiadi di Pechino, in quella gara, una pagina unica, ritrovando nelle spire del clamore mediatico, nel rumore assordante del baraccone multimediale, il suo scopo originario, quello di partecipare, di provare, di sfidarsi onestamente, quello di unire, di affratellare nazioni divise e distanti. Quella ragazzina, che prima delle Olimpiadi del 2008 nessuno conosceva, diventa una celebrità. Riceve lettere di anonimi fan che la invitano a non mollare e Samia non molla anche quando tutto si spegne e gli echi di quella gara sono flebili sussurri.

Dalla sua parte ha sempre la sua passione, suo papà, la sua famiglia e un mare da solcare per afferrare il suo desiderio. Ma quel mare che da bambina aveva sognato, lambendo le sue acque azzurre accanto all’amico di sempre, nella realtà è un limite enorme da superare, un muro alto e scuro da scalare. Ma anche quella è una sfida, una gara da affrontare, un’ultima curva prima di tagliare il traguardo.

DALLE OLIMPIADI AL BARCONE PER LAMPEDUSA

Il 2 aprile 2012, quando il sogno olimpico di Londra è distante pochi giorni di viaggio, con decine di altre persone Samia è sull’ennesimo barcone che fugge dalla disperazione tagliando le acque cristalline della speranza. Quando la terra è in vista e quel viaggio clandestino che sembrava interminabile sta per finire, la barca si ferma, va in avaria e rimane in mezzo al silenzio del mare. La paura sembra rendere la barca ancora più pesante. Ma Lampedusa è a poche miglia e Samia non ha paura, se lo facesse vedrebbe svanire il suo sogno e questo per lei è impensabile.

Non rimane che tuffarsi, la barca sta affondando, non c’è altra soluzione. Ma Samia che sa correre, non sa nuotare e “il salto è alto, come deve essere ogni salto verso la libertà. L’acqua è gelida, ed è anche più mossa di quanto sembrava da sopra”. Quelle funi lanciate in mare da un’imbarcazione italiana, sono traguardi da raggiungere e afferrare. Solo così il sogno potrà cominciare ad avere i contorni della realtà. Ma anche questa volta la favola non ha il finale sperato e la ragazza non è baciata dal principe azzurro. La strega matrigna dagli occhi gelidi affonda i suoi denti aguzzi e il mantello nero della morte copre il mare.

Samia Yusuf Omar perde la vita il 2 aprile del 2012 nelle gelide acque di quello che i romani chiamavano Mare Nostrum. Nello sconfinato Mediterraneo, fra la disperazione e la salvezza, quella ragazzina che aveva promesso di vincere per lei e per il suo paese, smette di sognare come migliaia di altre anonime persone prima e dopo di lei.

Li chiamano clandestini, ma sono esseri umani che inseguono la libertà, cercando di unire spiagge divise da poche miglia di mare. Per alcuni la speranza ha i tratti di un lavoro, per altri quello di un familiare da riabbracciare, per Samia un lembo di terra rossa da correre in una notte di stelle. Il sogno di Samia non è morto quel 2 aprile, continua a vivere nella speranza di chi, ogni giorno, corre cercando di anticipare la vita senza paura “perché se no le cose che desideri non si avverano”.

I virgolettati sono tratti dal libro di Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura, edito da Feltrinelli, il miglior modo per correre con Samia fra le pagine della sua straordinaria vita inseguendo il suo sogno.