Il 24 novembre 1848 alle prime luci dell’alba Pio IX, spogliatosi della veste papale compresi «il camauro e le pantofole di marocchino rosso colle croci ricamate sulle tomaie»(1) e vestito di un semplice abito talare, lasciò Roma.

Con quella fuga e principalmente con l’ostinazione nei giorni successivi a non incontrare i rappresentanti del governo di Roma, il papa poneva le condizioni per la fine a Roma del potere temporale e l’avvento di qualcosa di nuovo, di rivoluzionario, che nel mese di febbraio del 1849 prese i contorni della splendida ed effimera Repubblica Romana.

STORIA DELLA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849

Questa è la storia di un sogno durato una manciata di mesi, di un ideale che legò uomini e donne diversi per cultura, età e credo politico, ma uniti dal leggendario mito di Roma.

Di repubblica o comunque di un qualcosa che permettesse di superare il potere temporale, si iniziò a parlare a Roma concretamente nel dicembre del 1848. I moderati, davanti alla netta chiusura di Pio IX verso ogni progetto di riforma dello Stato pontificio, si erano rassegnati cedendo inevitabilmente il passo e lo scettro del comando, a coloro che puntavano a cambiare radicalmente tutto.

Mentre dall’esilio di Gaeta Pio IX respingeva al mittente l’originale proposta di un giornale di New York di trasferire all’estero il papato, a Roma l’ipotesi della fine del potere temporale si faceva sempre più concreta.

Così a proposito si era espresso Goffredo Mameli:

«Grandissima parte de’ mali romani e italiani, venne dall’imbarazzo che ai Papi davano le cure del principato. Quando il Papa potrà tornare ai suoi santi uffici di sacerdote e più non sarà distratto da mondani pensieri, la religione rifulgerà del suo primo splendore, i popoli credenti saluteranno il Vaticano come sede del Vangelo di Cristo e il Campidoglio come oracolo di nuova sapienza civile, come porto di salute a tutte le genti italiane.» (2)

GARIBALDI, MAMELI E GLI ALTRI: IL SOGNO RISORGIMENTALE

Il monumento equestre dedicato a Giuseppe Garibaldi al Gianicolo

Il monumento equestre dedicato a Giuseppe Garibaldi al Gianicolo

Nella Roma senza il papa, in quell’ultimo mese di quel fatale “Quarantotto”, giunsero in tanti, affascinati dal mito della Città Eterna ma anche animati dall’idea che il sogno di un’Italia unita, dopo l’amara conclusione della Prima Guerra di Indipendenza, potesse ripartire da Roma.

Arrivò Garibaldi ma anche Mameli e Aurelio Saffi. E poi Enrico Cernuschi e Carlo Pisacane mentre Mazzini ancora tardava ad arrivare «trattenuto al Nord dalla speranza di rinfocolare la resistenza armata agli austriaci». (3)

Intanto il 21 gennaio 1849 si erano tenute in tutto il territorio pontificio le elezioni per l’assemblea costituente. Si volevano fare le cose per bene, evitando gli errori e il pressapochismo, che avevano caratterizzato la precedente e fallimentare esperienza della Repubblica Romana del 1799.

Andarono in moltissimi a votare, oltre 200.000 elettori su 750.000, nonostante da Gaeta Pio IX avesse vietato a tutti i “bravi cristiani” di recarsi alle urne.

Dalle urne uscì un’assemblea costituente politicamente composita. Al gruppo dei democratici e dei repubblicani unitari, si aggiungeva quello dei moderati e, cosa sorprendente, anche quello formato da alcuni sparuti rappresentanti di quel potere papale che di fatto si voleva abbattere.

Fra i 150 eletti all’Assemblea, che si insediò nel rinascimentale Palazzo della Cancelleria a due passi da piazza Campo de’ Fiori, ci fu anche Giuseppe Garibaldi, eletto nella circoscrizione di Macerata. Pur essendo uno straniero, come Mazzini, Saliceti, Cernuschi o altri eletti non appartenenti all’ex Stato Pontificio, si avvalse della deroga espressamente prevista dalla legge elettorale che permetteva a tutti di essere eletti.

Il primo atto della Costituente fu la proclamazione della Repubblica. Il 9 febbraio furono votati quattro soli articoli di un Decreto però fondamentale. Il primo così recitava: «Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano».

Inoltre il Decreto prevedeva per il Pontefice Romano «tutte le guarentigie necessarie per l’indipendenza nell’esercizio della sua potestà spirituale», sancendo, al contempo, la democrazia come forma di governo e scegliendo per il nuovo stato, il glorioso e storico nome di Repubblica Romana.

La proclamazione ufficiale del nuovo stato avvenne alle ore 12 del 9 febbraio e fu salutata dallo scampanio delle campane e dai colpi dei cannoni di Castel Sant’Angelo, sparati rigorosamente a salve.

I primi provvedimenti del governo provvisorio furono diversi e variegati.

Innanzitutto c’era da risanare le asfittiche ex casse papali. Il 21 febbraio, con una decisione che destò non poche critiche, specie fuori Roma, l’Assemblea decise di incamerare tutti i beni ecclesiastici. Un provvedimento forte che però permetteva alle nuove finanze repubblicane di disporre di ben 120 milioni di scudi, soldi indispensabili.

L’Assemblea si occupò anche di scuola, riforma agraria e religione. Ebbe anche il tempo di decidere l’installazione nei giardini del Pincio di busti di uomini famosi, una tradizione che ancora oggi caratterizza quella splendida terrazza sulle bellezze di Roma.

La vita della neonata Repubblica subì una svolta fondamentale con l’arrivo a Roma di Giuseppe Mazzini.

Furono il suo prestigio, la sua autorevolezza e il suo peso specifico a determinare una sostanziale virata nel governo repubblicano. Era impossibile per i membri dell’Assemblea, indipendentemente dall’indirizzo politico, non subire il fascino di Mazzini.

Per questo fu scontato che il politico genovese entrasse di diritto, con Aurelio Saffi e Carlo Armellini, nel nascente triumvirato. Ai tre membri, di quello che di fatto era il governo della Repubblica romana, si prospettarono non pochi problemi. Uno su tutti però, era di stretta attualità: la questione militare. Il futuro della Repubblica era in pericolo e di questo tutti, a vario titolo, ne erano a conoscenza.

Andava quanto prima organizzata una difesa per evitare che quel sogno andasse in frantumi sotto il peso delle forze nemiche.

Riforme a parte, il problema più urgente da affrontare rimaneva, senza dubbio, quello militare. La rapida capitolazione del Piemonte, piegato dagli austriaci sul finire del marzo 1849, rese stringente la questione della difesa del territorio repubblicano, in special modo di Roma.

Fu istituita la leva obbligatoria per implementare il vecchio, insufficiente e inadeguato esercito pontificio; ma il problema maggiore riguardava l’approvvigionamento di armi e munizioni senza cui una guerra, seppur di natura difensiva, era inimmaginabile.

E quello, alla fine, rimase il più insoluto dei problemi per la neonata Repubblica romana.

Mazzini, appena giunto a Roma, si prodigò per trovare alleati ma fu un totale insuccesso. Le grandi potenze europee, per un motivo o un altro, voltarono le spalle a quel vagito di libertà che riecheggiava a Roma.

LO SCONTRO FINALE CON LE TRUPPE FRANCESI

La minaccia della guerra si concretizzò nella primavera del 1849, a poche settimane dalla proclamazione della Repubblica, quando le truppe francesi sbarcarono vicino Roma.

Mentre le Marche e l’Emilia Romagna venivano invase dalle truppe austriache, e da sud muovevano le truppe napoletane, Roma era direttamente minacciata da quelle francesi.

Luigi Napoleone Bonaparte, presidente della Francia, fu tra i primi a rompere l’inerzia. Il futuro imperatore autorizzò l’intervento armato contro Roma, prendendo in tal modo in contropiede lo stesso Pio IX che, per tutta una serie di motivi, avrebbe preferito fossero gli spagnoli o gli austriaci a reprimere la Repubblica Romana.

Il 24 aprile, 14.000 soldati francesi, agli ordini del generale Oudinot, a bordo di sei fregate, due vaporetti e due battelli, sbarcarono a Civitavecchia e si mossero alla volta di Roma.

Sulla via Aurelia non trovarono alcuna resistenza, se non quella di diversi cartelli sui quali era riportato il dettato dell’articolo 5 della costituzione francese, quel «Essa rispetta le nazionalità straniere così come intende far rispettare la propria, non intraprende nessuna guerra a fini di conquista e giammai impiega le sue forze contro la libertà di alcun popolo», parole che si dispersero nel vento, affondate dal piombo dei fucili.

La sera del 29, le truppe transalpine entrarono in Roma. Ad attenderle c’erano migliaia di romani e non, pronti a difendere fino all’ultimo quel sogno.

L’esercito della Repubblica romana, al capo del quale era stato nominato l’ex generale borbonico Carlo Pisacane, poteva contare su 17-18.000 uomini sparsi su tutto il territorio dell’ex Stato Pontificio.

A Roma non c’erano più di 9.000 uomini, fra cui i 600 bersaglieri lombardi guidati da Luciano Manara, sbarcati a Civitavecchia contemporaneamente ai francesi e inizialmente bloccati da Oudinot, e i volontari di Garibaldi che, su suo ordine, indossavano una tunica di lana rossa, antesignana della mitica camicia rossa.

Lo scontro fra le truppe francesi e quelle romane si concentrò inevitabilmente nella zona compresa fra il Vaticano e il Gianicolo. Quest’ultimo divenne teatro delle battaglie più importanti di tutta la guerra. Si trattava, come ricorda lo storico Alfonso Scirocco, di «uno dei punti più critici della difesa» della città. Conquistare quella altura di Roma, l’unica in parte fortificata da mura, equivaleva a dominare la città dall’alto, minacciandola con l’artiglieria.

Per le strade di Roma, nel corso della notte fra il 29 e il 30 aprile, erano stati affissi per volere della Commissione delle Barricate, dei manifesti con i quali si invitavano i romani ad alzare le barricate, a non permettere al nemico di penetrare, a difendere con le tegole, i sassi, le sedie, «proiettili temuti da ogni invasore», l’integrità della Repubblica.

E quella che appariva come una sconfitta sicura, si trasformò in un’incredibile vittoria che riscattò, come dirà in seguito lo stesso Mazzini, tanti stereotipi sul popolo romano.

Il 30 aprile le truppe francesi, forti di ben 5000 uomini, avanzarono sicure, pronte a conquistare i colli del Vaticano e principalmente del Gianicolo. Ma quella che appariva in quella mattinata di fine aprile come una sicura vittoria, si trasformò in una sonora e inaspettata sconfitta.

Sul far della sera le colonne francesi dovettero darsi alla fuga, lasciando fra Porta Cavalleggeri, Porta Angelica e Villa Pamphili ben 500 morti. Il merito di quel successo, oltre ad alcuni errori di valutazione commessi da Oudinot, arrise ai generali Galletti e Masi e principalmente a Garibaldi. Questi riuscì a piombare sui francesi prendendoli alle spalle, da Villa Pamphili, e inseguendoli fino a Malagrotta. Il giorno successivo, volendo approfittare della temporanea disfatta dell’esercito francese, Garibaldi chiese a Mazzini più uomini, ma invano.

Per il politico genovese umiliare i nemici era un errore strategico che avrebbe potuto mettere in discussione possibili negoziati con la Francia.

Il 15 maggio giunse a Roma, direttamente da Parigi, il diplomatico Ferdinando di Lesseps (il futuro artefice del taglio dell’istmo di Suez) che, incaricato dal presidente Luigi Napoleone Bonaparte, aprì il tavolo della trattativa.

Quello che tanto sperava Mazzini si stava realmente concretizzando ma si trattò fin dall’inizio, con buona pace degli ignari interpreti, di un fuoco fatuo.

Il presidente francese non aveva alcuna intenzione di arrivare a un accordo con la Repubblica romana; aveva inviato a Roma Lesseps solo per guadagnare tempo. Il suo obiettivo rimaneva quello di riportare a Roma il papa, un successo che avrebbe potuto poi spendere al momento dell’elezioni, incassando il fondamentale voto dei cattolici francesi.

Il 31 maggio Lesseps e Mazzini stipularono un accordo al quale, forse, non credettero neppure i due firmatari.

Così, ipocritamente, recitava l’articolo 1: «L’appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni degli stati romani. Esse considerano l’armata francese come un’armata amica che viene a concorrere alla difesa del loro territorio».

Dopo quella firma Lesseps fu richiamato in patria e i francesi ripresero quella guerra che avrebbe dovuto portare alla fine della Repubblica Romana.

Il 3 giugno le ostilità ricominciarono. Gli echi della vittoria del 30 aprile erano purtroppo solo un lontano, eroico ricordo. Questa volta neppure lo straordinario ardore di coloro che difesero Roma fino alla morte poté nulla.

Fu una disfatta terribile.

Così Nino Costa, un giovane pittore romano, descrisse quella battaglia:

«Il pianterreno del Casino dei Quattro Venti era pieno di morti fatti a pezzi per gli accaniti successivi assalti, avendo i Francesi di quei miseri corpi fatto barricate». (4)

Sui campi di battaglia si contano oltre mille morti. Fra questi Enrico Dandolo, Angelo Masina e Francesco Daverio. Nel corso di quella battaglia rimasero feriti anche Nino Bixio e Goffredo Mameli, che morirà al termine di una terribile agonia.

Quando la notte scese su quella drammatica giornata, anche i più ottimisti erano certi della prossima fine per mano francese della Repubblica romana: bisognava solo sapere quando.

Rimaneva, tuttavia, l’ardore di quei ragazzi che giunti da ogni parte d’Italia avevano combattuto fino alla fine, consapevoli dell’enorme rischio che correvano.

La giornata del 3 giugno, per certi aspetti, fu la prima della nostra unità nazionale.

Quella pesante sconfitta, tuttavia, determinò, specie fra i romani, una generale disillusione. Il sentimento prevalente nei giorni successivi fu quello di un’imminente disfatta che, ben presto, si tramutò nella rinuncia a combattere e a partecipare a una difesa della città, che appariva impossibile. La cosa irritò e non poco Garibaldi, ma per certi aspetti era comprensibile. Nella popolazione l’entusiasmo di mesi prima aveva lasciato spazio al fatalismo e alla voglia che tutto finisse e quanto prima.

Ma non tutti si arresero. Nei giorni successivi gli scontri proseguirono, lasciando sul campo eroiche giovani vite come quella di Colomba Antonietti che aveva seguito suo marito, Luigi Porzi, nell’effimera difesa di Roma.

Il 13 giugno Colomba, che per essere arruolata nei bersaglieri si era tagliata i capelli, nel pieno dell’assedio di Porta San Pancrazio, a soli 23 anni, fu uccisa da una cannonata dell’esercito francese: morì poco dopo fra le braccia del marito.

Nonostante la fine fosse prossima per la giovane Repubblica, c’era ancora una pagina da scrivere, la più gloriosa anche se effimera.

COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849: UNA PAGINA ATTUALE

Costituzione della Repubblica Romana

Costituzione della Repubblica Romana scolpita lungo il muro del Belvedere del Gianicolo a Roma

All’indomani della pesante sconfitta del 3 giugno tutti i membri dell’Assemblea decisero di non abbandonare più l’aula. C’era una costituzione da scrivere e da regalare come ultimo atto alla Repubblica Romana.

Il 16 giugno si decise, per motivi di sicurezza, di trasferire la sede dell’Assemblea costituente dal Palazzo della Cancelleria a quello del Campidoglio.

In quella nuova e prestigiosa sede il dibattito si fece se possibile più intenso. Le idee dei deputati si confrontarono, talvolta anche aspramente, ma sempre nel rispetto di tutti.

I padri costituenti, nei giorni che precedettero la fine, si impegnarono come se ci fosse ancora un domani, come se quel loro sforzo non fosse vano e dovesse essere la base di un futuro radioso.

Diversi i progetti costituenti esaminati. Alla fine, però, prevalse la piattaforma repubblicana proposta da Cesare Agostini e rimodulata da Aurelio Saliceti.

Il 24 giugno ebbe inizio la discussione e la votazione degli articoli. Quello stesso giorno furono approvati i primi quattro paragrafi.

Il 1° luglio l’Assemblea votò l’ordine del giorno Cernuschi: “l’Assemblea costituente romana cessa una difesa divenuta impossibile e sta al suo posto”.

Era l’atto finale di un breve, splendido sogno. Il giorno prima, il 30 giugno, moriva dopo una terribile agonia, il ventiquattrenne Luciano Manara che scrisse parole che ancora oggi sintetizzano quella straordinaria esperienza: “Noi dobbiamo morire per chiudere con serietà il quarantotto. Affinché il nostro esempio sia efficace noi dobbiamo morire”.

Ma prima di lasciare la città al nemico francese c’era una Costituzione da approvare.

Il 3 luglio 1849 lo sforzo di quei sognatori si tradusse in una eterna realtà. La Repubblica Romana, nel suo ultimo giorno di vita, aveva finalmente la sua Costituzione.

Il testo finale, splendido compromesso fra la tradizione giacobina francese e quella mazziniana, constava di 69 articoli complessivi, divisi in 8 Titoli e preceduti dai Principi Fondamentali: l’essenza stessa della carta costituzionale, «la più avanzata in senso democratico di tutte le costituzioni italiane del Risorgimento» come la definirà lo storico Giorgio Candeloro.

Una costituzione fortemente voluta e che negli anni a seguire rappresenterà la base di altri testi costituzionali fra cui quello della nostra Repubblica.

  1. Giraud Spaur, Relazione del viaggio di Pio IX P.M. a Gaeta, Galileiana, Firenze, 1851, p. 15.
  2. Bidussa, a cura di, Fratelli d’Italia. Pagine politiche, Feltrinelli, Milano 2010, p. 64.
  3. Monsagrati, Roma senza il papa, op.cit., p. 39.
  4. Costa, Quel che vidi e quel che intesi, (a cura di G. Guerrazzi Costa) Longanesi, Milano, 1983, p. 66.

 

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