Lucio Dalla cantava che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino, forse un bambino no ma la giustizia sì. Dopo la strage di Bologna la giustizia si smarrì sotto i suoi rassicuranti portici, in piazza Maggiore, nell’affollata stazione ferroviaria, al cospetto della possente facciata di San Petronio e in ogni angolo, via o piazza di una Bologna ferita, umiliata.

La giustizia si perse il 2 agosto 1980 in una stazione dei treni alle 10:25 di un caldo sabato vacanziero, portandosi via, per sempre, 85 innocenti.

STRAGE DI BOLOGNA: 2 AGOSTO 1980. UN BOATO, POI L’INFERNO

Il giornalista Antonio Gambino, il 17 agosto 1980, quindici giorni dopo la strage di Bologna, sulle colonne dell’Espresso scrisse:

«La cosa più agghiacciante cui ci si trova di fronte non appena si prova a riflettere sulla tragedia di Bologna – non meno agghiacciante dello spettacolo dei corpi contorti estratti dalle macerie – è che nessuno è in grado di dare una risposta “logica” al più grave attentato del terrorismo italiano. Nessuno riesce, cioè, a comprendere quale fosse il fine che coloro i quali hanno deposto una bomba di così terrificante potenza si proponevano di raggiungere. Questa mancanza di una chiave – aberrante sì ma chiara – di comprensione è la “novità” con la quale siamo chiamati a fare i conti».

Bologna, stazione ferroviaria, sabato 2 agosto 1980.

Fa caldo quel mattino nella Stazione Centrale ma la pesantezza del clima quasi non si percepisce, si respira, invece, la leggerezza, l’aria di villeggiatura come, con un termine caro a Goldoni, si chiamavano ancora in quell’ultimo ventennio del Secolo breve le agognate ferie.

Famiglie, coppie di fidanzati, persone di ogni età e provenienza affollano la stazione. Negli occhi hanno i luoghi vacanzieri da raggiungere; nel cuore, invece, la spensieratezza che solo la più effimera delle stagioni sa davvero regalare.

Ma quell’estate è cominciata nel peggiore dei modi. Il 27 giugno, alle 20:59, il DC 9 IH870 della compagnia aerea Itavia, partito dall’aeroporto di Bologna, è deflagrato sopra i cieli di Ustica, portando nel fondo del mare 81 innocenti.

Nel viavai tipico di ogni stazione ferroviaria, fra saluti da dare e intime promesse da rispettare, c’è solo il desiderio di dimenticare quella tragedia di quasi due mesi prima.

La prima estate di quel terribile 1980 sta entrando nel pieno, sfidando il solleone, riempiendo valigie in pelle, con le cinghie ben strette in ottone, di abiti leggeri, colorati come la speranza, come i sogni.

La stazione di Bologna, anche in quel primo sabato agostano, brulica di persone, un groviglio di arrivi e partenze, il quotidiano universo fatto di treni sferraglianti che spalancano le loro porte all’attesa di un viaggio o al ricordo di un ritorno.

Tutto come sempre, un copione uguale che si recita a memoria, fatto di estati brevi da fotografare aspettando poi trepidanti la stampa dei rullini. Estati da salutare nel piccolo spazio bianco di una cartolina, da leggere nella pagina piegata di una lettera, da ascoltare nelle conchiglie incartate nella carta del giornale.

Poi un boato, seguito da un mortale, brevissimo silenzio rotto da urla, vetri in frantumi, sirene, atroci lamenti, infiniti pianti, corpi straziati incastrati nelle lamiere, sangue, polvere, morte, disperazione.

La tragedia ha un’ora precisa, le 10:25, che l’orologio della stazione di Bologna, quello grande e tondo con i numeri in nero, eternerà per sempre in uno struggente memento.

In quel minuto l’Italia vacanziera, con le magliette a fiori e i capelli raccolti, vede in faccia l’orrore e le porte dell’inferno si spalancano improvvisamente.

Mentre il fungo di polvere e detriti lentamente si attenua, in quello che ormai è un lacerto della stazione di Bologna, chi può cerca di dare aiuto.

In quei concitati, drammatici minuti, scanditi da urla agghiaccianti, tempo per capire cosa sia successo non c’è. Verrà il momento per approfondire le cause di quel terribile boato, ma, adesso, bisogna, nel più breve tempo possibile, serrare le porte dell’inferno.

Prima ancora che arrivino i soccorsi si inizia a scavare a mani nude tra le macerie e i rottami dei vagoni ferroviari investiti dallo scoppio. Uno dei primi a prestare soccorso è Roberto Quadarella, la sua testimonianza è terrificante: «ci siamo messi a scavare, scavare e cercare persone. Era tremendo quando sotto le macerie toccavi “mollo” e il guanto diventava rosso…»

Non tutti, però, ce la fanno a prestare soccorso. La grande forza di volontà, il desiderio di aiutare chi sta lottando con la morte, in taluni casi, si arresta davanti all’atrocità paralizzante della situazione, come per Lanfranco Vannini: «L’impulso fu quello di unirmi ai soccorritori, ma quando vidi estrarre dalle macerie una cosa che sembrava una bambola e invece era un corpicino inerte mi mancò il cuore».

Man mano che si tirano fuori i corpi da sotto ciò che rimane della stazione (l’esplosione è stata talmente forte da investire anche il parcheggio dei taxi antistante l’edificio, oltre che disintegrare la pensilina del primo binario dove si trova in sosta il treno Ancona-Basilea) aumenta il bisogno di barelle ma anche quello di mascherine, visto che la polvere è tanta e brucia i polmoni.

Dai vagoni letto del treno Ancona-Basilea vengono prelevate le lenzuola con cui si improvvisano barelle e alla bisogna mascherine.

Strage stazione di Bologna

Strage alla stazione di Bologna, 2 agosto 1980

Intanto iniziano ad arrivare i primi soccorsi, decine di persone si danno da fare come possono, rischiando loro stessi perché delle cause di quella esplosione non si sa ancora nulla.

Qualcuno parla di uno scoppio accidentale di una caldaia nei locali sottostanti la stazione (lo farà colpevolmente parecchie ore dopo pure il presidente del Consiglio Francesco Cossiga). Altri, invece, con più lungimiranza, prospettano si possa trattare di una bomba, eventualità non certo peregrina, a cui gli italiani, fin da quel drammatico 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana a Milano, sono tristemente abituati.

Già dal giorno dopo, purtroppo, l’ipotesi della bomba è ormai una certezza. Così Eugenio Scalfari su La Repubblica del 3 agosto:

«Mentre le bare si allineavano alle bare nella tragica stazione di Bologna, ridotta ad un cumulo di macerie fumanti e sanguinose, la tesi dell’incidente fortuito ha perso forza ora dopo ora. Un sospetto atroce prendeva corpo, sulla base di una serie di notizie più precise: la natura dell’esplosione; (…) Poi, poco prima di mezzanotte, si è avuta la prova che qualcuno, qualche orrendo demonio, aveva freddamente preparato ed attuato una strage di innocenti».

LE VITTIME DELLA STRAGE DI BOLOGNA

Le indagini dimostreranno che la bomba confezionata per la strage di Bologna era una micidiale miscela di tritolo, T4 e gelatina, lo stesso miscuglio che sarà rinvenuto, grazie a un’opportuna soffiata, all’interno di una valigia nel gennaio del 1981 sul treno Taranto-Milano, ironia della sorte, proprio quando il treno è giunto alla stazione di Bologna e, che per fortuna, non provocherà danni.

Prima delle indagini ci sono i feriti da soccorrere ma le ambulanze che giungono a sirene spiegate sono troppo poche e non bastano a fronteggiare quell’immane tragedia. Allora gli autobus, specie quelli della linea 37, le auto private e i taxi si trasformano in improvvisate ambulanze; ogni veicolo è utile per portare il più celermente possibile i feriti nei vicini ospedali.

Strage di Bologna vittime

Le vittime della strage di Bologna nei pannelli commemorativi fuori dalla stazione [foto: Serena Di Battista]

Purtroppo mentre si scava emergono tanti, troppi morti. Alla fine saranno 85, la più sanguinosa strage di sempre della storia della Repubblica.

Ognuna delle ottantacinque vittime della strage di Bologna ha un nome, un volto, una storia spezzata in quell’indimenticabile minuto del 2 agosto 1980.

Storie come quelle di Mauro, John, Catherine, Mirella. Quattro frammenti di esistenze che la violenza omicida di mani ancora non del tutto note hanno interrotto per sempre.

Storie normalissime di donne e uomini che si incontrarono senza conoscersi in quella stazione camminando inconsapevolmente fianco a fianco al loro assassino.

MAURO DI VITTORIO, IL RAGAZZO CHE SOGNAVA L’INGHILTERRA

Mauro Di Vittorio, a Bologna, neppure avrebbe dovuto esserci. Se le cose fossero andate in un altro modo, se la fortuna gli avesse sorriso come uno stagno a primavera, lui, quel 2 agosto, avrebbe passeggiato per le strade di Londra, alla ricerca di un lavoro, cercando di imprimere una svolta alla sua giovane esistenza.

Mauro ha 24 anni, li ha compiuti da qualche mese e in quella sua ultima estate ha deciso di provare a cambiare vita, lasciando Roma e il suo quartiere di Torpignattara, per sfuggire alla crisi.

Ha abbandonato la scuola anzitempo per sostenere la famiglia numerosa che, specie dopo la morte prematura del padre, ha bisogno di aiuto.

Ma a Roma il lavoro non si trova facilmente e allora Mauro sogna di mollare tutto e andare all’estero, magari a Londra dove si racconta sia più facile trovare lavoro.

Prepara in fretta una borsa, ci mette dentro poca roba e sul finire di luglio saluta la famiglia e parte per trovare un lavoro e imparare l’inglese anche se, come ripete spesso al fratello Marcello, nella capitale britannica è più facile imparare il sardo o lo spagnolo che l’inglese.

Sul suo diario, prima di imbarcarsi dalla Francia destinazione Inghilterra, scrive:

«Mi permetto pure una colazione e all’una prendo il traghetto. Londra, eccomi. Dover con le sue bianche scogliere mi sta di fronte».

Mauro come un naufrago nel vedere avvicinarsi la terra inglese sogna e in cuor suo spera. Ancora poco e sbarcherà su quella terra che a molti ha permesso di ricominciare daccapo, ma il destino, spesso, è ben diverso da quello immaginato, mentre la realtà è graffiante, perfida, talvolta spietata.

A Londra Mauro non metterà mai piede. Alla frontiera inglese lo respingono, non ha i soldi sufficienti per sostentarsi. Mauro cerca di spiegare che è lì per cercarsi un lavoro, che non ci metterà molto, ha volontà ed è pronto ad accettare qualsiasi cosa gli verrà proposta.

Ma sono parole urlate al vento che non commuovono i solerti doganieri britannici. Non resta che fare dietrofront. Mauro torna in Italia e il 2 agosto è, come tantissime altre persone, alla stazione di Bologna.

Lui però non parte, lui torna, aspetta un treno che lo riporti a Roma, a casa ma per provare nostalgia, per ricucire i rimpianti c’è ancora tempo, quello scandito dallo sferragliare di un treno su binari troppo corti.

Ma alle 10:25 quel luogo di arrivi e partenze si trasforma in un incubo e per Mauro, al pari delle altre ottantaquattro persone, non ci sarà più un domani, neppure il tempo di un ricordo.

La strage di Bologna, i soccorsi

Vigili del fuoco durante le operazioni di rimozione delle macerie

Nel quartiere romano di Torpignattara, come in tutta Italia, la notizia della strage irrompe gelida in quel caldo mattino di inizio agosto. A casa Di Vittorio, però, nessuno immagina che fra le decine di morti ci possa essere anche Mauro che, anche se non ha ancora chiamato, a quell’ora è sicuramente a passeggio per le vie di Londra.

Poi, però, il 10 agosto, a otto giorni dalla strage, a casa Di Vittorio arriva dalla questura di Bologna una strana telefonata. Dall’altra parte della cornetta un impacciato poliziotto riferisce che è stata rinvenuta la carta d’identità di Mauro. Non dice molto altro ma invita Anna, una delle due sorelle di Mauro, a partire quanto prima per Bologna, per chiarire il tutto.

Anna arriva il giorno dopo. Sulle prime nella camera mortuaria, dove sono allineate le vittime, o ciò che resta di loro, Anna non riconosce il fratello.

Non ricorda che possedesse dei pantaloni di velluto grigio, si vuole attaccare con tutta sé stessa a quel particolare pur di spostare più in là il buio infinito della morte.

Per questo chiama subito a casa, le risponde il fratello Marcello. Gli chiede se Mauro possieda quel paio di pantaloni. Marcello esita un istante poi dà alla sorella l’unica risposta che quella ragazza non vorrebbe ascoltare e il baratro si spalanca davanti ad Anna.

MIRELLA FORNASARI, LA MAMMA CHE AMAVA LA MONTAGNA

Mirella Fornasari è una ragazza di 36 anni, sposata con Giorgio e mamma di Paolo, che, nel 1980, ha solo quattordici anni.

Quel maledetto 2 agosto Mirella è al ristorante self-service all’interno della stazione di Bologna. Di solito lavora nella sede di via Marconi, nel centro di Bologna, ma quel giorno le chiedono di andare al ristorante della stazione, c’è bisogno di lei e Mirella, come sempre, non si tira dietro.

Mirella vive con i suoceri a Casalecchio di Reno, un paese non lontano da Bologna ma, pur trovandosi bene con loro, sogna una casa tutta sua, da dividere con il marito Giorgio e il figlio Paolo. Un sogno che, ne è certa, prima o poi realizzerà.

La sera prima della strage di Bologna è rimasta sveglia fino a tardi per ripitturare l’appartamento dei suoceri. Va a letto stanca ma felice, anche perché ancora pochi giorni e potrà andare in vacanza, destinazione Val d’Aosta, verso quella montagna dove Mirella si sente davvero in pace con il mondo.

Sarebbe dovuta partire come tutti gli anni il 1° agosto ma quell’anno, complice alcuni problemi, lei e il marito hanno deciso di posticipare la partenza al 12. Non saranno undici giorni a fare la differenza, si tratta solo di prolungare l’attesa che sarà ampiamente ripagata poi dal profilo dei suoi amati monti.

A lavoro Mirella, che ha il viso puntinato da simpaticissime lentiggini ereditate anche dal figlio Paolo, è una stacanovista, aiuta tutti e non sa mai dire di no, nemmeno quel 2 agosto, quando accetta di andare in stazione per sostituire una collega, non sapendo di andare incontro a un tragico destino.

Lo scoppio della bomba la coglie mentre con altre colleghe sta lavorando. Sotto le macerie del ristorante rimarranno sei corpi, quelli di Katia Bertasi, Euridia Bergianti, Nilla Natali, Franca Dall’Olio, Rita Verde e quello di Mirella Fornasari.

Il suo corpo fu l’ultimo a essere estratto, dopo venti ore consecutive di scavi.

Così il figlio Paolo ricorda quei drammatici momenti:

«Ricevetti una strana telefonata da un amico, accesi subito la televisione e vidi un’immagine dall’alto in cui si vedeva la stazione sventrata. Sapevo dove lavorava mia madre, il suo ufficio era sbriciolato. Ricordo che chiamai in stazione ma i telefoni erano muti, allora ci precipitammo lì. Ricordo le persone che vagavano coperte di polvere e le urla dei soccorritori. Cercavo mia madre nelle facce della gente, con la speranza di vederla in piedi, ma sapevo che era lì sotto. Iniziò un lungo pellegrinaggio tra ospedali e obitori, girammo tutto il giorno poi ci chiamarono nel cuore della notte».

JOHN E CHATERINE, DUE GIOVANI CHE INSEGUIVANO IL SOLE

John Andrew e Catherine Helen Mitchell hanno entrambi 22 anni, un’esistenza davanti tutta da vivere con l’entusiasmo e l’incoscienza tipica della gioventù. Si sono laureati da pochi giorni all’Arts Court di Birmingham, in Inghilterra, hanno grandi progetti per il loro futuro. Sognano carriere prestigiose, magari lavorando fianco a fianco come nella loro vita.

Ma prima dei progetti, del lavoro che arriverà, probabilmente già da settembre, c’è un’estate da vivere, quella della loro laurea, l’estate che non si dimentica. Messi da parte, per ora, i libri John e Catherine pensano solo a regalarsi il loro primo viaggio insieme che sperano sia indimenticabile.

Un viaggio on the road per la vecchia Europa, con loro solo due zaini, arancione quello di John, blu, quello di Catherine. Dentro ci hanno messo lo stretto indispensabile, non vogliono portarsi dietro inutili orpelli, eccezion fatta per l’immancabile macchina fotografica.

Tra le mete previste c’è l’Italia. Nessuno dei due l’ha mai visitata prima, ma sanno dai loro studi quanto sia bella. Sognano le sue assolate spiagge, il mare azzurro, ma anche le vestigia di un passato che non smette mai di emozionare.

John e Catherine si sono conosciuti all’università. Si sono piaciuti subito, condividendo immediatamente la passione per lo studio ma anche l’amore per la bellezza, per i viaggi, per un futuro che vorrebbero coniugare al plurale.

La mattina del 2 agosto John e Catherine sono alla stazione di Bologna, in attesa di un treno che li porti verso il sud Italia, verso il mare e l’agognato sole che non vedranno mai.

Le loro vite, come quelle delle altre vittime, si spengono alle 10:25 di un’estate di sangue.

Nel giardino dell’Arts Court, dove John e Catherine, come migliaia di altri studenti, hanno immaginato il loro futuro, è stato piantato un albero in ricordo di quei due ragazzi e dei loro sogni infranti in un caldo mattino d’agosto.

Mauro, John, Catherine e Mirella sono solo quattro di ottantacinque storie, vite spezzate da un atto infame e vigliacco.

Il giorno che il cielo cadde su Bologna

piovvero pietre fiamme e vergogna.

Una breccia nel muro

e un’altra nel cuore.

Quando il ricordo è radice

custodisce il dolore.

Quando il ricordo è radice

Il futuro avrà un fiore.

(Il giorno che il cielo cadde su Bologna, Modena City Ramblers)

PS: le parti in corsivo sono tratte da “Se ti tagliassero a pezzetti”, brano di Fabrizio De André.

 

Le foto in bianco e nero sono state reperite sul sito dell’Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage della Stazione di Bologna del 2 Agosto 1980 (credits).

 

Per saperne di più:

 

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