Bronte è celebre per i suoi gustosissimi pistacchi, per l’imponente profilo dell’Etna, per aver il nome di uno dei ciclopi che forgiava i terribili fulmini per Zeus ma anche e purtroppo per essere stato teatro, nell’agosto del 1860, della strage di Bronte che rappresentò più di una macchia sull’epica Spedizione dei Mille.
Questo è il racconto di quello che avvenne in quelle assolate giornate di metà estate dove, come scrissero Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sulle colonne del Corriere della Sera, «si spezzò un certo sogno unitario».
I FATTI DI BRONTE DEL 1860
Bronte è «un grande paese senza splendore di architettura ma con belle case sulla strada principale, ricco di storia anch’esso, come Adrano, e come Randazzo a cui fu un tempo soggetto; famoso soprattutto per la Ducea di Bronte, il feudo di Nelson, per i continui moti contadini, per le sue rivolte, e per la feroce repressione di Nino Bixio».
Così Carlo Levi, nel suo Le parole sono pietre, descrive in modo sintetico ma incisivo il paese di Bronte, per molti aspetti un unicum nella bollente e fascinosa terra di Sicilia.
Questo borgo, irrorato come pochi altri dalle preziose acque dei tre affluenti del Simeto, che dalla notte dei tempi occhieggia all’Etna, fonte di ricchezza ma anche di indicibili disgrazie, ha sempre avuto nel suo DNA lo stigma della ribellione, un seme che in vari momenti della sua travagliata storia ha rapidamente germogliato diffondendosi a macchia d’olio.
11 maggio 1860. Sbarco dei Mille a Marsala. Dal disegno di un ufficiale di marina preso da bordo di una nave inglese
Bronte ha sempre suscitato timore e reverenza e non solo per la posizione geografica ma soprattutto per essere uno spirito indomito. A renderlo tale è il carattere della sua gente, una comunità che, forgiata dalla lava incandescente e inasprita dall’odore acre dello zolfo, ha sempre lottato per il riconoscimento dei propri diritti, per reagire ai maltorti subiti.
Così Benedetto Radice nel suo Memorie storiche a Bronte: «Erano trecentocinquanta anni che Bronte lottava per i suoi diritti, dei quali le fatali donazioni di Papa Innocenzo VII nel 1491 e di Ferdinando I nel 1799 l’aveano spogliato. Aveva visto il suo territorio assottigliarsi di giorno in giorno fino a sparire interamente per novelli diritti, cavilli e pretese.»
Questa peculiarità del popolo brontese era nota ben oltre i confini del paese, per molti quella gente era sempre stata violenta e bellicosa e questa nomea valicò facilmente mari e monti, se è vero, che nei primi del Novecento, due guide di viaggio britanniche descrivevano i brontesi come «le persone più infami dell’intera Sicilia.»(1)
E pensare che gli inglesi alla terra di Bronte erano legati in modo singolare, da decenni di storia.
Nel 1799, infatti, re Ferdinando di Borbone regalò all’ammiraglio Horatio Nelson alcune terre intorno a Bronte, tra cui l’antico castello di Maniace e la vicina chiesa di Santa Maria, come «compenso per avergli salvato il regno e ammazzato i liberali di Napoli»(2) un cambiamento che, però, non aveva mutato le condizioni di vita dei contadini di Bronte che avevano continuato «a vivere negli stessi pagliari, senza mutamenti, da mille anni.» (3)
L’eroe di Trafalgar, il nemico giurato di Napoleone, in verità, in quel lembo di terra siciliana alle pendici dell’Etna non ci mise mai piede, nonostante fosse stato insignito del titolo di Duca di Bronte, «ed è possibile che la presenza del vulcano avesse avuto un peso nella scelta di Bronte da parte del re per farne dono a Nelson»(4) visto che il nome di quel borgo discendeva da quello del mitologico Ciclope che, al pari di Nelson, aveva un solo occhio, una menomazione che per il celebre ammiraglio non era, però, motivo di vergogna ma, al contrario, una medaglia da mostrare, di cui andare orgogliosamente fieri.
Genova, monumento ai Mille
Se l’orbo Nelson a Bronte non andò mai lo fecero, viceversa, i suoi eredi che provarono, senza mai riuscirci davvero, a scendere a compromessi con gli indomiti brontesi sempre in prima linea quando c’era da protestare, da alzare le mani, da ribellarsi contro l’ordine costituito per rivendicare dei diritti, per rispondere ai soprusi.
Bronte, non a caso, fu protagonista come e più di altre località siciliane nella prima metà dell’Ottocento, delle due più celebri rivolte antiborboniche che incendiarono la Sicilia, quella del 1820 e quella del 1848, episodi che intaccarono il già debole regno ferdinandeo, oscillante fra un improcrastinabile bisogno di riforme e il timore di cedere pezzi di potere assoluto ai desiderata della storia.
Le rivolte del 1820 e del 1848 furono il sanguinoso preludio ai fatti dell’agosto 1860 che a Bronte assunsero i contorni della tragedia, entrando, definitivamente, nei libri di storia.
LA RIVOLTA DI BRONTE DEL 1860
Per capire quello che accadde in quei primi giorni di agosto del 1860 si deve necessariamente ripartire dallo sbarco di Garibaldi in Sicilia e dalla sua fulminea azione di conquista che permise di prendere l’isola nonostante le forze di cui disponeva fossero nettamente inferiori a quelle del suo avversario.
Si trattò, invero, di un successo figlio del talento garibaldino, della strategia della guerriglia, sperimentata anni addietro in Sudamerica, della buona sorte ma soprattutto dell’evidente crisi politica, sociale, economica e militare in cui versava lo stato borbonico che appariva agli occhi dei siciliani, soprattutto all’indomani delle sanguinose repressioni delle precedenti rivolte, specie quella del 1848, solo un nemico da abbattere.
Garibaldi fu, dunque, salutato dal fiero popolo siciliano non solo come un liberatore ma come colui che avrebbe finalmente affrontato e risolto l’atavico ed endemico problema della distribuzione delle terre, in virtù anche del potere dittatoriale che aveva assunto a Salemi il 14 maggio per nome del re Vittorio Emanuele II.
In particolare aveva eccitato gli animi dei contadini siciliani il messaggio di Garibaldi del 2 giugno 1860 e specialmente questo passo: «I vostri campi non saranno più calpestati dal mercenario, vi sembreranno più belli e più ridenti. Io vi seguirò col cuore nel tripudio delle vostre messi, e delle vostre vendemmie e nei giorni in cui la fortuna mi porgerà l’occasione di stringere ancora le vostre destre incallite, per narrare delle vostre vittorie e per debellare nuovi nemici della Patria, voi avrete stretto le mani di un fratello!».
A Bronte, in particolare, quelle parole fomentarono facili entusiasmi, riattizzando speranze inattese, rinfocolando clamori mai sopiti. Padrone della scena brontese divenne l’avvocato Nicolò Lombardo che il 31 luglio pronunciò un infuocato discorso ai suoi concittadini, promettendo, sulla scorta di quanto proclamato giorni prima da Garibaldi, l’agognata divisione delle terre.
Quel discorso, pur improntato alla concordia e scevro di ogni forma di violenza, accese gli animi di molti contadini che diedero, e non solo metaforicamente, fuoco alle polveri. Nella notte del 1° agosto 1860 una moltitudine di brontesi, stanchi per gli atavici soprusi ed ebbri per i rapidi mutamenti politici incorsi all’indomani dello sbarco di Garibaldi, passò dalle parole ai fatti.
La protesta divampò e la gente «cominciò a saccheggiare uffici e abitazioni gridando “Viva l’Italia!”. Gli insorti dettero fuoco a tutto quello che incontrarono, e nei tre giorni successivi ogni forma di autorità venne travolta, in mezzo al fumo degli incendi. I proprietari vennero trascinati fuori dalle loro case, torturati, uccisi e gettati nel fuoco. Altri furono fatti marciare fino alla forca, poi uccisi e fatti a pezzi.» (5)
La prima vittima del furore popolare fu la guardia municipale Carmelo Luca, più noto in paese come Curchiurella, trucidato vicino al Carcere Bovi mentre stava prendendo disposizioni sui posti di blocco da attuare.
Ai sanguinosi scontri che si protrassero per alcuni giorni parteciparono moltissime persone, perlopiù braccianti, immediatamente ribattezzati con tono sprezzante comunisti. «Agli occhi dei contadini di Bronte – come scrisse Carlo Levi – la conquista garibaldina non poteva avere che un senso: il possesso delle terre, la libertà dal feudalismo; e in nome di Garibaldi si misero a trucidare i signori. Erano più avanti dei tempi.»
Giuseppe Garibaldi e Nino BIxio
Gli echi della rivolta di Bronte, le drammatiche descrizioni che si infarcirono anche di resoconti volutamente macabri e non sempre reali (si parlò, ad esempio, anche di casi di cannibalismo), arrivarono in fretta alle orecchie di un incredulo Garibaldi che non poteva tollerare che una rivolta, seppur animata da presupposti giusti, potesse mettere a rischio la sua azione militare, specie ora che stava preparando lo sbarco in Calabria, per il definitivo scontro con la potenza borbonica.
Per questo diede ordine a Nino Bixio, il suo più valente e fidato fra i suoi generali, di andare immediatamente a Bronte e reprimere prima possibile la rivolta. E così avvenne.
LA STRAGE DI BRONTE E IL RUOLO DI NINO BIXIO
Bixio, vero e proprio braccio destro di Garibaldi, considerato il militare più preparato di tutta la compagine dei Mille al punto da essere promosso pochi giorni prima generale, arrivò a Bronte il 6 agosto, alla testa della intera brigata, alle prime luci dell’alba.
Forte dei poteri conferitigli dallo stesso Garibaldi, Bixio sottopose la popolazione di Bronte alla legge marziale, con tanto di coprifuoco totale. Furono perquisite praticamente tutte le case, requisite armi (ne furono prelevate più di 350, di vario tipo) e, soprattutto, furono arrestate decine di persone, non meno di ottanta, tra cui coloro che erano ritenuti i responsabili della rivolta: Luigi Satta, Carmelo Minissale e, naturalmente, Nicolò Lombardo.
Per tutti i fermati si aprirono immediatamente le porte della Corte militare che, già a partire dal 7 agosto, sottopose i presunti rei a processo secondo le rigide regole del codice penale militare, in base alle quali i giudici avrebbero anche potuto rinunciare «ad ascoltare le deposizioni dei testimoni della difesa nei casi in cui il complesso delle prove fosse chiaramente a carico dell’imputato.» (6)
Si trattò di un processo brevissimo e decisamente condizionato dallo squilibrio in favore dell’accusa che diede poco spazio agli imputati che, come logico, si proclamarono innocenti. Colpì, in particolare, la strenua difesa di Nicolò Lombardo che respinse con fermezza la pesante accusa di essere il mandante della rivolta, sostenendo come si fosse fin da subito speso per mantenere l’ordine pubblico.
Lombardo, come fu poi appurato da successive indagini condotte negli anni a seguire, sebbene avesse tenuto più di un discorso prima dei fatali scontri, aizzando, involontariamente la rivolta popolare, non commise alcun fatto di sangue, anzi, quando la cieca violenza divampò per le strade di Bronte si adoperò per arrestarla o, quantomeno, per contenerla, senza purtroppo riuscirci.
Fu una difesa, tuttavia, del tutto inutile. La corte, infatti, lo riconobbe al pari di altri quattro imputati colpevole (mentre Saitta e Minissale furono riconosciuti estranei ai fatti), condannandolo alla pena capitale da eseguirsi, come fu scritto nella sentenza, «colla fucilazione e col secondo grado di pubblico esempio.»
All’alba del 10 agosto 1860, dopo che il giorno prima era stato telegrafato a Garibaldi che i disordini erano stati energicamente repressi, tutti i condannati furono portati nella piazza antistante il convento di San Vito e passati per le armi.
L’eccidio di Bronte, fonte di ispirazione della novella di Giovanni Verga La libertà, fu un’assoluta tragedia, un atto di profonda ingiustizia ma la colpa di quello che avvenne non fu ascrivibile completamente a Bixio, tanto meno agli inglesi che per molto tempo si ritenne avessero esercitato enormi pressioni su Garibaldi per reprimere in fretta e nel modo più cruento una rivolta che avrebbe potuto ledere i loro interessi in quel lembo di terra siciliana.
L’intera vicenda della strage di Bronte, come bene ha scritto la storica Lucy Riall, «fu un chiaro segno dei conflitti sociali esistenti nella Sicilia rurale, e dell’effetto destabilizzante prodotto dalle lotte politiche tra fazioni che erano in atto nell’Italia meridionale. La sua repressione fu un segnale d’allarme riguardo alle difficoltà incontrate dal processo di unificazione nazionale dopo la caduta dei Borboni. In particolare – conclude la Riall – l’operato di Bixio rifletteva i problemi del ripristino dell’autorità e della costruzione di solide basi di consenso in Sicilia, e testimoniava la tendenza del governo ad affidarsi a soluzioni rapide, di tipo militare.»
I fatti di Bronte, specie la brutale repressione condotta dagli uomini di Garibaldi, figlia di un processo da dimenticare, rappresentarono, senza ombra di dubbio, al netto di qualsiasi lettura si voglia dare a quei tristi avvenimenti, la pagina più nera della conquista garibaldina della Sicilia. L’altra faccia, la peggiore, della Spedizione dei Mille. Come amaramente affermò lo stesso Bixio, subito dopo che i corpi di quei cinque condannati caddero sotto il fuoco dei suoi soldati, si era trattato di una «triste missione per noi venuti a combattere per la libertà.»
(1) Carlo Levi, Le parole sono pietre.
(2) Benedetto Radice, Memorie storiche a Bronte.
(3) Carlo Levi, Le parole sono pietre.
(4) Lucy Riall, La rivolta. Bronte 1860.
(5) Idem.
(6) Idem.
Per saperne di più:
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