Del sequestro Moro si sa molto anche se i misteri di quello che Sciascia definì L’Affaire Moro, sono ancora molti, troppi. Da via Gradoli al lago della Duchessa, dal ruolo dei servizi segreti alla possibile presenza in via Fani di un killer spietato e rimasto ignoto, passando per il luogo della prigionia dello statista democristiano, per i tanti segnali e avvertimenti su di un possibile sequestro del tutto trascurati, o per la famosa seduta spiritica alla quale partecipò, fra gli altri, anche l’ex presidente del consiglio Romano Prodi.
Meno si conosce, invece, della scorta di Moro, di quei cinque uomini che morirono quel 16 marzo 1978, crivellati dai colpi esplosi dalle armi dei terroristi.
L’AGGUATO DI VIA FANI E LA SCORTA DI MORO
Gli uomini della scorta di Mono e il luogo dell’agguato a Via Fani
Nulla si sa dei loro ultimi pensieri, delle loro estreme parole, di quello che videro prima del buio fatale. Cinque nomi ricordati da una lapide all’incrocio con via Stresa, cinque storie, cinque speranze, cinque famiglie che in quel giorno di metà marzo andarono incontro alla morte, ignari del tremendo destino che li attendeva, senza sapere che Atropo aveva già impugnato le forbici per tagliare le loro fragili vite.
Roma, 16 marzo 1978, pochi minuti prima delle 9.00, il cielo, come previsto dalle previsioni meteo, è leggermente velato, a dispetto dell’importanza della giornata. Di lì a poco alla Camera dei Deputati, il quarto governo Andreotti dovrebbe ottenere la fiducia, esito, per nulla scontato, di un infinito lavoro di mediazione che ha visto impegnati i leader dei principali partiti italiani, fra cui, sorprendentemente anche i comunisti.
Dall’abitazione romana in via Forte Trionfale 79, esce il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, più volte presidente del consiglio e ministro, fautore di quel rivoluzionario progetto politico che ha aperto ai “temutissimi rossi” nell’ambito dei governi di “solidarietà nazionale”, soluzione tampone in quella drammatica stagione per l’Italia.
Un politico che, come ricorda lo storico Guido Formigoni, voleva “consolidare il sistema democratico e accompagnare l’evoluzione ideologica e politica del maggior partito di opposizione, senza cedere per principio a logiche strettamente consociative, oppure allo schema berlingueriano del compromesso storico”. Un politico che, pur non essendo stato mai popolare, tantomeno un capopopolo, aveva, comunque, le stimmate di un “politico con una strategia”.
Ad attendere colui che, ancora una volta, dopo gli anni Sessanta, sta “aprendo a sinistra” ci sono due macchine: un’Alfetta bianca e una Fiat 130 blu. Moro sale sul sedile posteriore di quest’ultima, che il giorno prima era stata tamponata dalla macchina della scorta, “un’altra Alfetta”, senza avere riportato conseguenze, eccezion fatta per il paraurti posteriore ammaccato. Al posto di guida siede l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, accanto il maresciallo dell’Arma, Oreste Leonardi. La Fiat 130 si mette in moto, destinazione Montecitorio, subito dietro la vettura di scorta, al cui interno ci sono tre agenti di P.S. (Pubblica Sicurezza): l’agente Giulio Rivera alla guida; al suo fianco il vice brigadiere Francesco Zizzi e sul sedile posteriore, lato passeggero, l’agente Raffaele Iozzino.
Dopo poche centinaia di metri il piccolo corteo di macchine prende via Fani. L’atmosfera è tranquilla, anche se da mesi la tensione è la compagna più fedele degli uomini della scorta. Moro, come d’abitudine legge i diversi giornali. Davanti alla macchina presidenziale si trova una Fiat 128, tipo giardinetta, di colore bianco e con targa diplomatica. Procede piano, troppo piano. La presenza su quella vettura di una targa CD (appartenente all’ambasciata del Venezuela ma rubata nel 1973) non insospettisce più di tanto l’appuntato Ricci.
Improvvisamente, all’incrocio fra via Fani e via Stresa, il conducente della 128 frena. L’appuntato Ricci, che è alla guida della Fiat 130, frena a sua volta, sterzando verso destra, nel tentativo di evitare l’auto. La macchina presidenziale viene tamponata dall’Alfetta di scorta, quest’ultima probabilmente chiusa posteriormente da una seconda vettura dei terroristi, in quella che tecnicamente viene definita mossa a “cancelletto” già usata dai brigatisti tedeschi in precedenti operazioni.
L’agguato di Via Fani
Quel drammatico incastro è fatale. Da una siepe posta davanti al bar Olivetti, collocata a sinistra delle vetture, sbucano fuori quattro uomini vestiti da avieri. Da sotto gli impermeabili tirano fuori le armi e iniziano a sparare. Due sulla macchina presidenziale e due su quella di scorta. L’appuntato Domenico Ricci, che è un abile pilota, tenta di districare la macchina presidenziale, cercando la fuga verso destra, ma invano a causa di un’altra macchina in sosta, una Austin Morris di colore blu.
La gragnola di colpi esplosi dai quattro terroristi, a cui nel frattempo se ne sono aggiunti altri (il numero complessivo dei partecipanti all’agguato non è stato mai del tutto accertato, anche se si ritiene siano stati 9 in tutto, probabilmente in 5 a sparare), uccide l’appuntato Ricci, il maresciallo Leonardi e, sull’Alfetta, il vice brigadiere Zizzi e l’agente Rivera. L’agente Raffaele Iozzino, riesce a scendere dall’auto di servizio e dopo aver armato la pistola d’ordinanza, spara due colpi prima di essere ucciso “da qualcuno che copriva l’azione da destra”. Sull’asfalto vengono rinvenuti 91 bossoli (compresi quelli esplosi dall’agente Iozzino), provieniti da armi differenti: una pistola Smith&Wesson calibro 9, che esplode 8 colpi; una pistola Beretta che ne fende 4; una pistola-mitra, probabilmente Mod FNA1943, che ne scarica 22; una pistola-mitra Sten o FNA1943 che ne esplode ben 49; una pistola mitra TZ45, che ne fende 5, e, infine, una pistola-mitra Beretta M12 che esplode soltanto 3 colpi. Un volume di fuoco incredibile che, però, lascia totalmente illeso l’onorevole Moro.
L’azione, perfettamente studiata, con un altissimo grado di difficoltà, è un assoluto successo, nonostante serpeggi chiaro un atroce interrogativo sulla scelta del luogo. Perché i terroristi preferirono rapire Moro in via Fani, scartando soluzioni ben più semplici, come, ad esempio, lo stadio dei Marmi, dove lo statista pugliese “quasi ogni mattina faceva una passeggiata a piedi” in compagnia del solo Leonardi?” La risposta non c’è. Di sicuro volevano la strage, l’azione eclatante che, grazie anche ad alcune favorevoli circostanze (la distanza assai ravvicinata fra l’Alfetta e la Fiat 130 e il possesso da parte della scorta solo di pistole e non di altre armi), riuscì perfettamente.
SCORTA DI MORO: CHI ERA ORESTE LEONARDI
L’agguato di via Mario Fani, uno dei fondatori della Società della Gioventù Cattolica Italiana morto nel 1869 e che la storia eternerà per sempre, nonostante qualche incertezza e qualche imprevisto (alcune armi dei terroristi si inceppano) dura circa tre minuti, dalle 9.02 alle 9.05, centottanta secondi sufficienti per spegnere per sempre i sorrisi di cinque “piccoli, grandi eroi di cui nessuno ha mai memoria”.
Il primo a morire, molto probabilmente, è il più anziano dei cinque componenti della scorta di Moro: il maresciallo Oreste Leonardi, anni 52, che, come stabilito dalla perizia medico legale depositata al processo Moro quater, “è stato ucciso da sei colpi sparati da destra” da qualcuno, dunque, che camminava sul marciapiede di destra e che verosimilmente, smentendo quindi la versione dei terroristi, ha sparato prima ancora che gli altri quattro iniziassero a mitragliare la Fiat 130 e l’Alfetta dal lato sinistro.
Leonardi, torinese di nascita, orfano di padre, morto nel corso della Seconda guerra mondiale, si arruola giovanissimo nei carabinieri e dopo aver girato un poco si stabilisce a Viterbo, dove diventa istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo, facendosi apprezzare dagli allievi per i modi gentili e garbati, oltre che per la straordinaria competenza, come ricorda uno di questi, Franco Gonzato.
Nel 1963 entra a far parte della scorta di Moro. La scelta viene fatta, oltre che per la prestanza fisica anche per la sua discrezione, una qualità molto apprezzata dal politico democristiano, di cui Leonardi da quel momento in poi diventa una sorta di fratello, “uno di famiglia” come ripeterà più volte in seguito la moglie di Moro, Eleonora.
Leonardi segue lo statista pugliese ovunque. Gli è accanto nei momenti istituzionali ma anche in quelli privati. È con lui all’estero, dove dorme nella stanza accanto a quella di Moro, ma anche sul lungomare di Terracina nei pochi momenti di relax che il politico si concede nei fine settimana. Nei mesi che precedono la strage di via Fani, Leonardi prova a chiedere più volte la concessione della vettura blindata, consapevole del rischio di un attentato ma tutto questo invano.
Nel pieno dell’agguato il maresciallo Leonardi si preoccupa per prima cosa di proteggere l’onorevole Moro. Tenta, girandosi di scatto, di farlo abbassare, non preoccupandosi, così, di essere un bersaglio facilissimo per i terroristi.
Quel 16 marzo il maresciallo Leonardi lascia la moglie, conosciuta a Viterbo durante una festa di carnevale, due figli, e una vita ancora tutta da scoprire.
CHI ERA DOMENICO RICCI
Accanto a lui trova la morte in quella tragica mattina, l’appuntato Domenico Ricci, da più tempo al servizio di Moro. Nato a San Paolo di Iesi nel 1934, Domenico Ricci entra nell’Arma nel 1954, distinguendosi subito per l’abilità nella guida delle moto e delle macchine di servizio. Per questi motivi viene assegnato nel 1957 alla scorta di Moro, all’epoca ministro di Grazia e Giustizia, divenendo quasi subito l’autista ufficiale. Domenico Ricci è entusiasta di quell’incarico, tanto da ripetere spesso di aver vinto un terno a lotto entrando nella scorta di Moro. Nel 1965 viene promosso appuntato e l’anno dopo sposa, dopo dieci anni di fidanzamento, Maria Rocchetti da cui nascono due figli: Giovanni e Paolo.
Quel 16 marzo Domenico Ricci su quella maledetta Fiat 130 non ci sarebbe dovuto neppure essere. Quel giorno, infatti, non avrebbe dovuto lavorare, era di riposo, ma Oreste Riccioni, l’altro autista della macchina di Moro, lo chiama la sera prima e gli chiede se può l’indomani sostituirlo per un problema familiare. Domenico gli dice di non preoccuparsi, lo sostituirà lui anche se questo significa non mantenere la promessa al figlio Giovanni, a cui aveva garantito che quel 16 marzo sarebbero stati un’intera giornata insieme.
Domenico Ricci quel suo ultimo giorno, si alza come al solito prestissimo, quando l’alba ancora non graffia le finestre della sua casa al Tuscolano. Si prepara il caffè, si veste, come al solito in modo impeccabile, indossa il suo amato Zenith, che in via Fani si fermerà per sempre alle 9.05, e si dirige verso il tram che, insieme a un successivo autobus, lo porta a piazza della Radio. Qui trova, come sempre il maresciallo Leonardi, e insieme salgono sulla macchina presidenziale direzione casa di Moro.
Insieme vanno incontro alla morte, una morte, però, di cui da tempo hanno scorto l’agghiacciante e minaccioso profilo.
CHI ERA GIULIO RIVERA
Giulio Rivera dei cinque uomini della scorta, è il più giovane, essendo nato nel 1954 a Guglionesi, in provincia di Campobasso. Nel settembre del 1970 raggiunge il fratello a Valmadrera, sulle rive di quel lago di Como, narrato dal Manzoni. Entra in fabbrica, come tantissimi ragazzi del sud hanno fatto prima di lui. Giulio lavora sodo, si fa voler bene dai colleghi che, infatti, il 16 marzo 1979, un anno dopo la strage di via Fani, fusero le parole che oggi spiccano sulla lapide di Rivera nel cimitero di Guglionesi: “Il vento soffia forte e cancella ogni cosa. L’acqua scende rapida, silenziosa su ogni fiore, ma la tua immagine vive sempre nei nostri cuori.”
A vent’anni si arruola in polizia e due anni dopo è nell’inferno del Friuli, devastato da un terribile terremoto che semina morte e distruzione. Nel 1977, anche per la sua indubbia abilità nella guida, Giulio entra a far parte del nucleo scorte. Prima è assegnato a quella di Flaminio Piccoli, importante dirigente democristiano e più volte ministro, poi, nel giugno del 1977 a quella di Aldo Moro.
Il 25 dicembre 1977 Giulio Rivera lo trascorre a casa di Moro dove come gli altri membri della scorta era uno di casa. Quel giorno Giulio gioca con il piccolo Luca, l’adorato nipote di Aldo Moro, in un clima di serenità e di festa senza immaginare che quello sarà il suo ultimo Natale.
Pochi mesi dopo Giulio morirà a via Fani. Dei tre uomini che siedono sull’Alfetta è il primo a morire. Poco prima aveva bevuto dal thermos che si era portato dalla caserma un goccio di caffè, poi l’inferno. Non fa neppure in tempo a prendere la pistola posizionata vicino al cambio. Il finestrino di sinistra viene frantumato da una sventagliata di proiettili. Otto di questi uccideranno Giulio a soli ventiquattro anni. La sorella di Giulio, Carmela, viene a sapere da una cugina del rapimento di Moro ma, per diverso tempo, non riceve alcuna notizia su quanto realmente accaduto al fratello. “Se solo chiudo gli occhi e lo rivedo in quella bara non è piacevole. A casa non ho una sua foto in divisa, non riesco a sopportarlo”.
Anni dopo la mamma di Giulio, Esperina, una donna minuta, vestita di nero con il velo in testa da cui sbucano tenui capelli bianchi, durante una delle tante estenuanti udienze dei “processi Moro” improvvisamente si alzò dal posto dove era seduta. Silenziosa e a testa bassa, mentre su di lei si concentrano gli sguardi di tutti, si avvicinò alle gabbie dove erano presenti i brigatisti che nel frattempo urlavano improperi di ogni tipo e, senza dire nulla, li guardò per qualche infinito istante. Poi tornò a sedersi dove era prima. A chi dopo le chiese il motivo di quel comportamento, serafica rispose che lo ha fatto per vedere come fossero quei giovani che avevano ammazzato suo figlio.
CHI ERA FRANCESCO ZIZZI
Francesco Zizzi quel maledetto 16 marzo lì, in via Fani, non ci sarebbe dovuto neppure essere. Quel giorno, infatti, è il suo primo nel servizio di scorta a Moro. La sera prima gli viene comunicato che, in quanto più alto in grado, dovrà sostituire il caposcorta Rocco Gentiluomo, che ha preso alcuni giorni di ferie. Sulle prime rimane sconcertato. Era a Roma da poche settimane e principalmente non aveva mai scortato nessuno. Ma gli ordini non si discutono e poi deve essere orgoglioso se hanno scelto lui per quell’incarico così importante. Mentre sale sull’Alfetta bianca, mettendosi accanto al collega Rivera, pensa che dovrà raccontare anche questo alla sua Valeria, la ragazza che vuole al più presto sposare.
Francesco è l’unico degli uomini della scorta a non morire sul colpo. Fu estratto vivo dall’Alfetta e trasportato al vicino policlinico Gemelli dove, però, muore alle 12.30, all’età di trent’anni. Zizzi, amava cantare e suonare la chitarra, che si portava dietro ovunque, era la sua compagna speciale. Adorava Rino Gaetano, specie Aida che cantava a squarciagola in macchina. Rino Gaetano, in fin dei conti, era figlio di quel sud dove non era facilissimo vivere.
Quel cantante dalla voce raschiata, nonostante tutto, armato solo di una chitarra e di tanta voglia di emergere, ce l’aveva fatta e anche Francesco, per tutti Franco, avrebbe voluto farcela. Per questo terminato il CAR ad Avellino si arruola in polizia. Dopo il corso di formazione, frequentato presso la Scuola allievi guardie di P.S. di Caserta, è assegnato al Raggruppamento di Roma. Quell’iniziale scommessa piace a Francesco che decide di partecipare quattro anni dopo al concorso per sottufficiali che vince.
L’11 gennaio 1977, con il grado di vice brigadiere, è assegnato alla questura di Parma, ma la cittadina emiliana sta stretta a Francesco che vuole avvicinarsi a Latina, dove vive la sua fidanzata, Valeria, conosciuta a Nettuno durante il corso per sottufficiali. Per questo chiede il trasferimento per Roma, al Reparto autonomo del ministero dell’Interno. Il trasferimento arriva il 30 gennaio 1978. Così la sorella Adriana ricorda quel 16 marzo: “Provo tanto orrore nell’immaginare la violenza che ha subito in Via Fani. Ero in casa quella mattina. La notizia me la diede mio suocero. Non pensai minimamente che potesse essere capitato qualcosa a mio fratello. Non sapevo che faceva parte della scorta di Moro”.
CHI ERA RAFFAELE IOZZINO
Raffaele Iozzino è l’unico quel 16 marzo a provare a rispondere al fuoco terrorista.
Nato a Casola, in provincia di Napoli nel 1953, si arruola, nel 1971, in quella che all’epoca si chiamava ancora Pubblica Sicurezza. Dopo aver superato brillantemente il corso di formazione ad Alessandria e quello di tiratore scelto ad Abbasanta, in Sardegna, viene trasferito a Roma, al Viminale, la sede del Ministero dell’interno.
Qui Raffaele dimostra le sue capacità e per questo diviene parte integrante della scorta dell’onorevole Aldo Moro. Quel maledetto 16 marzo, dopo che inizia la mattanza in via Fani, riesce a scendere dall’Alfetta e nonostante il volume di fuoco sia terribile, ha la prontezza di sparare due colpi, prima di essere ucciso da un terrorista che probabilmente è posizionato alle spalle.
Raffaele Iozzino muore all’istante, trafitto da ben diciassette pallottole che lo colpirono praticamente ovunque. Sul selciato il suo corpo, pietosamente ricoperto dopo da un telo bianco e a pochi passi la sua pistola d’ordinanza. Ciro, il fratello di Raffaele, quel giorno di quasi primavera è nei campi, a lavorare, ad anticipare una natura che non aspetta mai, che impone rigidamente i suoi tempi. Per stemperare la fatica, Ciro come sempre ascolta una radiolina, un poco di musica che però si tronca e per sempre. “Purtroppo, interruppero le trasmissioni per dare la notizia del sequestro. Capii subito che quel giovedì era di servizio. Ci mettemmo subito in contatto con i Carabinieri ma nessuno sapeva niente. Solo dopo qualche ora vennero i carabinieri di Gragnano per portarci a Roma. Da quando lo vidi nella camera ardente, ce l’ho sempre davanti agli occhi. Me lo ricordo come se fosse oggi”.
Sulla lapide di Raffaele i familiari scelsero di apporre le parole che Gesù pronunciò sulla croce poco prima di spirare: “Padre perdona loro che non sanno quel che fanno.”
GLI UOMINI DELLA SCORTA DI MORO E IL DOVERE DELLA MEMORIA
Due giorni dopo in una Roma inutilmente blindata e immobile, si tennero i funerali degli uomini della scorta, cinque bare coperte dal tricolore esposte davanti a una teoria di politici che, come ricordò anni dopo Maria Ricci, la vedova di Domenico, “sembravano del tutto disinteressati”, impassibili mummie, chiuse in un silenzio che gridava vendetta, che strideva con la disperazione, con la rabbia dei parenti di quegli uomini che lo stato avrebbe dovuto proteggere meglio di come invece fece.
Scesa la sera su quel 18 marzo iniziò a scendere anche l’oblio non solo su quelle cinque vittime ma anche sulle loro famiglie che furono abbandonate dallo stato, da quello stato per cui i loro mariti, fratelli, figli erano morti. Nei ricordi di Adriana Zizzi, Maria Ricci, Ileana Leonardi, Carmela e Angelo Rivera, Ciro e Vincenzo Iozzino ma anche di tutti gli altri familiari e amici quel 18 marzo fu, se possibile, più difficile della stessa giornata di via Fani. Il loro desiderio comune fu che quella che sembrava una messinscena finisse il prima possibile. Ognuno di loro sognò solo di lasciare quanto prima Roma, per tornare in una realtà normale dove anche il dolore terribile per la perdita degli affetti più cari potesse essere più umano, più vero.
Sono passati più di quarant’anni, oggi quegli uomini sarebbero padri, nonni, con una storia da raccontare, figli da ascoltare, nipoti da coccolare. Hanno ricevuto medaglie al valore civile, intitolazioni di scuole, caserme, ma avrebbero semplicemente essere persone normali, con una vita normale e, magari, con una morte normale.
Di loro si parla sempre come quelli della scorta di Moro ma, invece, furono Oreste, Domenico, Francesco, Giulio e Raffaele, cinque nomi, cinque storie, cinque vite spezzate per sempre.
Una volta una mia amica poliziotta semplicemente mi disse: “Si sa. Noi delle scorte siamo solo delle ombre”.
Il brigatista Valerio Morucci, uno dei terroristi che uccise in via Fani, a proposito di questi eroi disse:
«Mentre cercavo di disinceppare il mio mitra, l’autista della 130, l’appuntato Ricci, cercò disperatamente di guadagnare un varco verso via Stresa, facendo più volte indietro e avanti per guadagnare questo passaggio. Tutto ciò mentre era in corso la sparatoria. Il maresciallo Leonardi, invece, si preoccupò di proteggere l’onorevole Moro, cioè si girò verso Moro per farlo abbassare, e in quella posizione fu poi trovato. Questo comportamento, ripensandoci dopo, mi ha molto colpito, perché solitamente si ritiene che una persona soggetta a dei colpi di arma da fuoco cerchi per prima cosa, istintivamente, di ripararsi. Queste persone invece si comportarono in altro modo.»
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