‘I popoli con le culle vuote non possono conquistare un impero […]. Hanno diritto all’impero i popoli fecondi, quelli che hanno l’orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra, i popoli virili nel senso più strettamente letterale della parola’. Così a Potenza si esprimeva Benito Mussolini nel ’36 vagheggiando il sogno di una nazione colonialista che si spandeva oltre i suoi confini, alla conquista di altri popoli ed altre terre. Esattamente come era avvenuto da pochi mesi in Etiopia, sopraffatta e conquistata dalle truppe italiane.
Per innalzare il tasso demografico Mussolini approvò una tassa sul celibato che andava a colpire gli uomini che non si erano uniti in matrimonio e, sull’altro versante, incentivò le famiglie prolifiche con politiche fiscali mirate all’abbassamento delle tasse, all’erogazione di assegni familiari e all’assegnazione di alloggi popolari.
Famiglie che dovevano contare almeno sette figli per i lavoratori impiegati nella pubblica amministrazione e dieci per gli altri lavoratori.
LA TASSA SUL CELIBATO
La tassa sul celibato venne introdotta nell’ordinamento giuridico italiano il 13 febbraio 1927 ed aveva il preciso compito di disincentivare il comportamento degli uomini che decidevano di non prender moglie.
Su di loro pesava un’imposta da corrispondere allo stato che variava secondo due parametri di riferimento: l’età e la situazione economico-patrimoniale.
Tutti gli uomini compresi tra i 25 ed i 65 anni non sposati dovevano versare il loro contributo nelle casse della nazione, pagando un importo che andava dalle 50 alle 100 lire a seconda delle fasce anagrafiche. A questo si doveva sommare un’aliquota calcolata sul reddito.
Facciata di Palazzo Braschi, sede della federazione fascista di Roma
La tassa sul celibato venne innalzata già dopo un anno dall’approvazione e successivamente nel 1934, fino ad essere estesa tre anni dopo anche nelle colonie. Come se non bastasse i celibi subirono delle politiche discriminatorie all’interno del mondo del lavoro. Ad essi, infatti, in caso di assunzioni e promozioni, venivano preferiti gli uomini coniugati e gli uomini con prole. I celibi, inoltre, on potevano accedere a cariche politiche come quella del podestà, del consigliere municipale o provinciale.
MUSSOLINI E L’IMPOSTA SUI CELIBI
Nel maggio del ’27 alla Camera dei Deputati Mussolini affermò:
La tassa sui celibi dà dai 40 ai 50 milioni. Ma voi credete realmente che io abbia voluto questa tassa soltanto a questo scopo? Ho approfittato di questa tassa per dare una frustata demografica alla Nazione. Qualche inintelligente dice: siamo in troppi. Gli intelligenti rispondono: siamo in pochi. Affermo che, dato non fondamentale ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle Nazioni, è la loro potenza demografica.
Per il fascismo le nascite e, quindi, i matrimoni erano alla base della politica di incremento demografico, necessario per rendere l’Italia un paese più popoloso e dunque militarmente più aggressivo. Il gettito fiscale derivante dalla tassa sul celibato era utilizzato per il finanziamento dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, un ente fondato nel 1925 per assistere madri in difficoltà.
A sostegno della famiglia, oltre agli incentivi ricordati come il premio di natalità e il premio di nuzialità, il fascismo promosse una lotta serrata contro aborto e prostituzione abusiva.
Nel dicembre 1936 Mussolini all’Altare della Patria consegnò un premio di 6.000 lire ed un attestato alle 95 madri più prolifiche d’Italia.
La tassa sul celibato, rimasta in vigore per tutto il periodo fascista ed abolita dal Governo Badoglio soltanto nel luglio 1943, non ottenne quanto si prefiggeva tanto che il tasso di natalità della popolazione italiana andò addirittura diminuendo.
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